La Cina alla guerra delle parole proibite
I GIOVANI cinesi che la usavano per preparare i compiti in classe, gli esami e le tesi di laurea, hanno perso la loro finestra sul mondo. Il governo ha oscurato definitivamente Wikipedia, bloccando l'accesso alla più celebre enciclopedia universale su Internet. Tra i 225 milioni di vocaboli che contiene ci sono troppe definizioni scomode: Tienanmen 1989 e democrazia, Tibet e repressione. Il regime cinese ha paura delle parole, su Wikipedia la parola non si può controllare. A cinque anni dalla sua creazione, tradotto in cento lingue, il dizionario enciclopedico consultato in ogni istante da milioni di persone su tutto il pianeta è un prodotto della libertà. Nasce come un testo "aperto", le sue definizioni vengono assemblate, corrette, aggiornate continuamente dal contributo spontaneo e gratuito della collettività dei lettori. Non è un sito politico, non vuole fare opinione, non è nulla di più che un giacimento di vocaboli e di spiegazioni, accessibili con un clic sulla tastiera del computer. Ma per Pechino proprio questo era diventato una minaccia. Ora ad ogni ricerca di un termine su Wikipedia, fosse anche il più banale, per chi sta in Cina il sito non risponde più: schermo vuoto, "non disponibile per ragioni tecniche".
Il blackout di Wikipedia è l'ultimo e il più clamoroso diktat che la censura di Pechino infligge a Internet. Per sorvegliare l'informazione che circola in rete il governo cinese impiega un esercito di 30.000 tecnici a tempo pieno, assistiti da raffinati programmi di software che "filtrano" le parole, cancellano, censurano, bloccano messaggi o mettono fuori uso interi siti. Il Center for Internet and Society dell'università di Harvard lo ha definito "il più sofisticato sforzo in atto nel mondo" per controllare il cyberspazio. Un dissidente cinese che si è dedicato allo studio di questa macchina della censura, Xiao Qiang, è riuscito a "estrarre" il programma di software usato da Pechino: contiene 1.041 parole sospette. Nella lista nera solo il 15% sono termini che hanno a che vedere con la pornografia, la pedofilia. Il resto riguarda invece le libertà politiche e religiose, i diritti umani. Tra le 1.041 parole pericolose ci sono "democrazia", "libertà" e tutti i suoi composti e derivati (Free-China, Free-Net), "corruzione", "manifestazione", "sciopero", "Tibet indipendente", "Falun Gong". C'è anche "figli di dirigenti del partito", forse per individuare tentativi di ricerca online sui patrimoni familiari, le aziende che possiedono, i consigli d'amministrazione di cui sono membri. Le 1.041 parole sospette non vengono necessariamente censurate. Sono i campanelli d'allarme che fanno scattare i filtri della sorveglianza: la Grande Muraglia di Fuoco, come l'hanno definita i navigatori online cinesi. Se uno clicca troppe volte "Tibet libero" vede misteriosamente interrotta la connessione. Oppure si trova istradato per forza verso il sito ufficiale del governo che esalta "la pacifica liberazione del Tibet" da parte dell'esercito cinese nel 1950.
L'offensiva contro Wikipedia ottiene questo risultato. Alla voce "Tienanmen 1989" l'enciclopedia online in tutto il resto del mondo inizia con la spiegazione: "La protesta di Piazza Tienanmen a Pechino nella primavera del 1989, seguita dal massacro del 4 giugno...". Ma questo testo non è più accessibile dalla Cina. Provo a effettuare una ricerca analoga usando il sito ufficiale del governo, http://service. china. org. Digito "Tienanmen 1989". Risposta: risultati zero, documenti zero, schermo bianco. Se ancora esistesse Wikipedia per i cinesi, alla voce Tibet potrebbero leggere la storia delle rivolte, la fuga in esilio del Dalai Lama, le condanne dell'Onu per l'uso della tortura contro i monaci buddisti. Ma Wikipedia è scomparsa dietro la Grande Muraglia di Fuoco. Internet mi dirige invece verso il China Tibet Information Center http://en. tibet. cn che vanta le bellezze turistiche della regione. Alla voce Taiwan su Wikipedia potrei sapere che nell'isola c'è una democrazia parlamentare, libere elezioni e l'alternanza dei partiti al governo, un privilegio negato sul continente a un miliardo e trecento milioni di cittadini. Finisco invece su www. chinataiwan. org che definisce l'isola come "la provincia della Cina" che "fu occupata dalla Settima Flotta degli Stati Uniti".
Nel romanzo "1984" di George Orwell il protagonista Winston è impiegato al Ministero della Verità. Ogni giorno il suo lavoro consiste nel ritagliare dai giornali le notizie politicamente sgradite, che inserisce in piccole capsule nella posta pneumatica verso la distruzione. A fianco a lui un'impiegata ha il compito di cancellare i nomi delle persone che sono state "vaporizzate". La Cina ha realizzato l'incubo di Orwell, "vaporizzando" il Dalai Lama, migliaia di nomi di dissidenti, milioni di vittime della Rivoluzione Culturale, dei gulag, di Piazza Tienanmen. Poche settimane fa è stato "vaporizzato" il più celebre blog tenuto da un giornalista cinese sotto lo pseudonimo di An Ti. Aveva dato per primo la notizia dello sciopero della redazione di Notizie di Pechino, in rivolta per il licenziamento politico di alcuni giornalisti. Ora il suo blog è stato oscurato e da Internet è scomparso anche tutto ciò che vi era stato pubblicato prima. Come sostiene l'organizzazione Human Rights, "in Cina perfino Internet non ha memoria".
Oltre alle tecnologie avanzate la censura cinese usa anche metodi più tradizionali. Una volta al mese la direttrice dell'Ufficio di Informazione, signora Wang Hui, convoca nella sua sala riunioni i dirigenti dei maggiori siti Internet a cui espone le direttive del governo, precisando quali notizie si possono dare e quali no. Alla riunione partecipano anche i rappresentanti dei siti stranieri che operano in Cina, come Yahoo, che prendono nota delle direttive. Yahoo l'estate scorsa ha rivelato alla polizia cinese il contenuto di una email inviata da un suo abbonato, il giornalista Shi Tao. Per quella email in cui Shi Tao citava proprio i metodi della censura, lui è in carcere.
E' stata la Microsoft invece a chiudere il blog di An Ti per compiacere al governo di Pechino, nonostante che quel blog dipendesse tecnicamente da San Francisco. Yahoo e Microsoft si giustificano con la necessità di rispettare le leggi locali. Nessuno vuole farsi escludere da un mercato cinese che ha già più di cento milioni di navigatori online e si appresta a superare le dimensioni degli Stati Uniti. Credevamo che Internet potesse esportare le nostre libertà a Pechino e Shanghai. A giudicare dal caso della Microsoft che ha applicato la giurisdizione cinese in America, sembra quasi che possa succedere il contrario.
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