Sul fronte occidentale il diritto è sacrosanto. Le prediche sono al massimo livello sostenibile di retorica. Ma si razzola spesso assai più in basso. Sgombriamo subito il campo dalle considerazioni di principio. In Occidente il diritto di opinione, di sua espressione, di critica e anche di satira è garantito, intoccabile e inviolabile. E va difeso. Come tale: cioè per principio. Ma forse non viene a sproposito una pacata discussione sui suoi limiti. Non di legge, ma di buon gusto. La prosopopea dei satiri e dei loro aedi (tanti, visto che c'è di mezzo l'islam, anche se molti di quelli che alzano la voce in questo caso non sono altrettanto conseguenti quando la satira tocca la loro parte politica e i suoi rappresentanti, e si precipitano in questi casi a tacitarla), che rivendica il diritto di fare quello che vuole sempre e comunque, si rivela troppo facile, e fastidiosamente arrogante. E talvolta - quando a usarla sono le maggioranze (culturali, politiche, religiose, sessuali) assomiglia più alla legge del più forte (tanto io c'ho la penna o la matita, e un giornale che mi pubblica - tu no) che al democratico scambio di opinioni. Molte espressioni di satira, e sovente quelle a carattere anti-religioso (anche se quelle oggi in discussione non sembrano esserne, onestamente, gli esempi peggiori), possono essere giudicate da molti - anche non musulmani - volgari, stupide, gratuitamente offensive, beceramente pregiudiziali, spesso neanche tanto latamente razziste, o anche solo inutili e pateticamente trite e banali. Dobbiamo proprio difenderle? In termini di principio, sì: ma possiamo limitarci a rivendicare il principio di libertà «punto e basta» anche quando si manifesta nei suoi lati peggiori?
Detto questo, il richiamo al caso Rushdie non è fuori luogo né retorico; anche se in quel caso, almeno, il prodotto era di ottima fattura. In quell'occasione il comportamento dell'Occidente, nonostante concretissime minacce annunciate (una fatwa ad personam, con tanto di taglia, che oggi non c'è affatto - e la levata di scudi dovrebbe essere proporzionale), che arrivarono all'assassinio in un caso e al ferimento in altri dei traduttori del libro, fu limpido ed esemplare: il libro uscì ovunque, i governi non intervennero a propinare censure, e l'autore fu doverosamente tutelato. Le scuse dei governi non sono dovute. Quelle di chi si è accorto di aver offeso qualcuno, tuttavia, non guastano. Non per paura di ritorsioni, o almeno così ci piacerebbe: ma semplicemente perché ci si è accorti di aver superato il limite del buon gusto. Almeno nei confronti di alcuni. Perché, questo, non dovrebbe essere parte di un corretto vivere civile? Dove sarebbe, in questo caso, lo scandalo, o l'autocensura?
Sul lato islamico, la questione si pone ovviamente in maniera diversa. Sgombriamo il campo, anche qui, da una falsa argomentazione retorica. Quella che si basa sul principio «sacro» che nell'islam non sono ammesse raffigurazioni di Muhammad. Argomento pretestuoso e falso. Nella storia dell'arte, ad esempio nella miniatura, ve ne sono molte. E oggi ci sono, anche nei paesi musulmani, fior di film, di fiction, di immagini artistiche e di fumetti educativi, reperibili anche nelle moschee del nostro paese, in cui si raffigura il profeta.
I problemi veri sono altri. Quello meno importante, ma «tecnicamente» decisivo nel far montare il caso: è un tema pratico da cavalcare, per far sentire la propria roboante voce scandalizzata (di editorialista, di rappresentante di una qualsiasi organizzazione, più o meno rappresentativa, o anche di un governo), guadagnandosi una facile visibilità a poco prezzo. Ed ecco che si manifesta il paradosso dello scandalo da parte di chi neanche ha avuto la possibilità di visionare l'oggetto del contendere. Basta la parola. Il problema vero: la rabbia e la frustrazione di minoranze islamiche continuamente sotto tiro, oggi in Europa oggetto di una continua stigmatizzazione, figlia di una isteria anti-islamica trasversale, in Italia ben rappresentata dalla retorica padanista e fallace, che ne è tuttavia solo l'espressione più forte. Rabbia che coglie, senza accorgersi di cadere per l'ennesima volta in una trappola mediatica, l'argomento sbagliato nel modo e nel momento sbagliato, per protestare e ribellarsi.
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