Inchiesta sul DDL Gasparri
ROMA - Le sorti della legge Gasparri sono appese alle decisioni che l' ufficio politico dell' Udc prenderà mercoledì 24 settembre. Sembra di essere tornati ai tempi della Prima Repubblica quando dall' esito di un appuntamento interno a un partito dipendeva il futuro della coalizione di governo. Ma tant' è. Tra una settimana Marco Follini e i suoi dovranno decidere se puntare i piedi perché la nuova legge sull' emittenza recepisca i loro emendamenti oppure se si può andare avanti con limitate modifiche al testo approvato in luglio dal Senato. Le novità che l' Udc vorrebbe apportare accolgono alcune istanze degli editori della carta stampata (rivedere il perimetro del Sic, il Sistema integrato della comunicazione e conteggiare le telepromozioni dentro il computo dell' affollamento pubblicitario) e dei proprietari delle tv locali (introducendo il credito d' imposta per chi investe pubblicitariamente su di loro). Si tratta di emendamenti che sicuramente non piacciono a Mediaset, e Fedele Confalonieri non ne fa mistero. Alla riunione del 24 l' Udc rischia parecchio. Al suo interno oggi albergano almeno tre posizioni. Quella del segretario Follini (e ovviamente del presidente della Camera Pier Ferdinando Casini) che vuole conciliare la battaglia di principio sull' emittenza con la salvaguardia della stabilità della coalizione, quella di alcuni deputati come Gianfranco Rotondi ed Emerenzio Barbieri - subito etichettati all' interno come «berluschini» - contrari a nuovi emendamenti («la Gasparri è un incrocio pericoloso», hanno avvertito) e, infine, quella dell' intransigente Bruno Tabacci che già ai primi di agosto aveva chiesto al partito di impegnarsi per cambiare la legge. Qualunque sia l' esito della riunione del 24 di singolare c' è che - potenza della nemesi - il successo politico di Gasparri è legato al giudizio di Follini, che avrebbe dovuto essere il ministro delle Comunicazioni del governo di centrodestra. Più in generale si può osservare come attorno all' approvazione della legge sull' emittenza si sia andato strutturando una sorta di nocciolo duro della Casa della Libertà, che comprende Forza Italia, i berluscones di An (Ignazio La Russa e Gasparri), i centristi critici della gestione Follini. Più defilata la Lega che subordina qualsiasi altra materia al semaforo verde sulla devolution. Mappe politiche a parte, il testo approvato dal Senato presenta palesi incoerenze. Prendiamo l' articolo più importante, il 15, che regola il Sic e di fatto stabilisce i tetti antitrust. La Camera, per effetto del voto favorevole sull' emendamento presentato dal diessino Giuseppe Giulietti, l' aveva stravolto e a Palazzo Madama la maggioranza è stata costretta a riformularlo ex novo. Ma chi l' ha riscritto non è stato sufficientemente attento a raccordarlo con il resto della normativa. Il rammendo non è riuscito. Gli addetti ai lavori, infatti, segnalano una contraddizione tra il «nuovo» 15 e un articolo precedente ed ad esso strettamente collegato, il 2. Le tipologie di aziende indicate dall' uno e dall' altro sono sorprendentemente differenti. In un elenco ci sono i concessionari di servizi di telecomunicazione - Telecom Italia e i suoi concorrenti - e nell' altro no. Gli editori di libri e i produttori cinematografici sono in una lista e nell' altra no. E lo stesso vale per «le imprese fonografiche». La contraddizione rende ardui i conteggi e di fatto inapplicabili le disposizioni e i limiti anti-concentrazione. L' incoerenza è dovuta a una scelta di fondo: si parla di sistema integrato della comunicazione, ma si è cercato di tener separate telefonia e tv. Il motivo? Prendere le misure a Telecom Italia ed evitare il più possibile che il colosso telefonico diventasse, dal punto di vista della legge, un concorrente diretto di Mediaset. Sarà un caso, ma anche un commissario dell' Authority, molto ascoltato in Forza Italia, Antonio Pilati in un recente articolo sul Sole 24 Ore ha ammesso che «il contestato Sic» risente «di qualche oscurità». Passando alla Rai, finora il tema della privatizzazione non ha appassionato deputati e senatori, che ne hanno discusso in maniera sciatta. Eppure la Gasparri prevede entro il 31 gennaio 2004 - tra pochi mesi dunque - «l' avvio del procedimento di alienazione della partecipazione dello Stato nella Rai Spa». Nessun acquirente potrà rastrellare più dell' 1% delle azioni e una singola cordata tra più soggetti non potrà comunque cumulare più del 2% dei diritti di voto. Il modello disegnato dal centro-destra è quello delle banche popolari, la Rai dovrebbe diventare una compagnia ad azionariato diffuso. Peccato però che, qualche giorno fa, a criticare seccamente l' ipotesi prevista dalla Gasparri siano stati proprio i vertici della Rai. Il presidente della Rai Lucia Annunziata e il direttore generale Flavio Cattaneo, per una volta concordi, hanno consegnato al Parlamento una memoria in cui definiscono «riduttivo» il limite dell' 1% «perché può costituire un freno all' ingresso di partner industriali o di grandi investitori finanziari». La privatizzazione, per Annunziata e Cattaneo, dovrebbe seguire le logiche di mercato «senza lacci e lacciuoli e senza particolari vincoli all' acquisizione». A patto però che sia identificabile sul mercato «il detentore della maggioranza delle azioni». Ma non è tutto. La memoria prosegue sostenendo che una quotazione in Borsa richiede due condizioni: che la società assicuri redditività al capitale investito e che la quotazione sia effettuata in condizioni di mercato favorevole. «Oggi - hanno scritto presidente e direttore generale - queste due condizioni non esistono». E siccome è assai difficile dar loro torto, la privatizzazione alla Gasparri parte con il piede sbagliato. L' unica possibilità per vendere azioni di Rai Popolare, che non promettono dividendi, è farlo a prezzi da discount.
ROMA - E' proprio vero che realizzata la copertura tecnica del 50% della popolazione con il digitale terrestre si aprono alla vista come d' incanto le verdi praterie del pluralismo televisivo? Sono in molti a dubitarlo e nei giorni scorsi il presidente dell' authority Enzo Cheli si è fatto interprete di queste remore sottolineando che «l' arricchimento del pluralismo mediante l' offerta digitale dovrà essere effettivo e non solo potenziale». E perché lo sia ha elencato due condizioni: a) nuovi operatori in grado di offrire programmi; b) programmi che siano «agevolmente accessibili» a una larga fascia di utenti. Messa così, può sembrare una discussione da addetti ai lavori, materiali per un seminario di studi e invece dalle risposte ai dubbi di Cheli dipende il successo della legge Gasparri, che in questi giorni è tornata, in terza lettura, all' esame di Montecitorio. La scelta del digitale terrestre (e soprattutto la tempistica) prevista dal testo governativo non rappresenta solo un' opzione tecnologico-culturale sulla modernizzazione del Paese - da accostare alle scelte dei governi francese e tedesco come ha fatto ieri il ministro -, ma una precisa condizione per «salvare» Retequattro ed evitare che diventi esecutiva la sentenza della Corte Costituzionale che manda Emilio Fede sul satellite dal 31 dicembre 2003. Lo stesso Cheli ha sottolineato la «corsa contro il tempo» che sta caratterizzando la via italiana al digitale. Una corsa iniziata ancor prima che il provvedimento di riforma dell' emittenza sia diventato legge. Come se dei cavalli partissero prima ancora che il mossiere possa dare loro il via. Con il paradosso che la Rai invece di investire il grosso delle risorse sul prodotto, per tentare di recuperare il primato perduto, è costretta a svenarsi per comprare a tappe forzate le frequenze del digitale terrestre. E così concorrere indirettamente a salvare Retequattro. FAMIGLIE E PROGRAMMI - Ma la rivoluzione digitale vista dalle famiglie teleutenti che effetto fa? La corsa contro il tempo vuol dire che gli italiani, prima dei loro cugini europei, usufruiranno di nuovi programmi televisivi basati sull' interattività? La risposta di un economista dei media come Marco Gambaro è che dipende dalla velocità con la quale i consumatori - lui pensa che ci vorranno non meno di 8-9 anni - decideranno di cambiare il loro televisore o comprare un nuovo tipo di decoder, il set top box. Ma una scelta di questo tipo si giustifica solo con la voglia di guardare nuovi programmi. E qui casca l' asino perché la loro produzione è quanto mai costosa: per un palinsesto che punti a realizzare il 2-3% di audience servono dai 150 ai 200 milioni di euro. Un investimento che assai difficilmente può essere coperto in toto dalle entrate pubblicitarie. Gli esperti come Gambaro stimano che l' avventura digitale costerebbe al nuovo editore televisivo dai 50 ai 100 milioni di euro di perdite l' anno da moltiplicare forse anche per un lustro. Il pluralismo va dunque a farsi benedire, perché la tv digitale resterebbe comunque terreno di caccia dei due maggiori operatori oggi presenti sul mercato, Mediaset e Rai. Che potrebbero coprire i palinsesti prima con la semplice trasmissione in tecnologia digitale dei vecchi programmi e poi, in virtù delle risorse pubblicitarie (specie Mediaset) investire in nuovi prodotti. E' vero che esiste un spazio per nuove e meno costose emittenti di nicchia - il palinsesto di una tv musicale può costare anche 20 milioni di euro - ma a giovarsene sarebbe il pluralismo dei deejay più che quello delle opinioni politiche. MURDOCH E IL DOPPIO SORPASSO - Ragionando di digitale terrestre e di futuro della televisione non si può poi dimenticare l' ipoteca Sky che utilizza invece il satellite. Dopo anni in cui la pay tv in Italia ha vivacchiato e ha perso montagne di soldi è sbarcato nel Belpaese Rupert Murdoch. Cosa concretamente cambi nel nostro paesaggio imprenditoriale televisivo è tutto sommato ancora presto per dirlo. In materia esiste tra gli addetti ai lavori un' ampia discussione e ci si divide tra apologeti («Murdoch spezzerà le reni a Rai e Mediaset» ha scritto per esempio Vittorio Feltri) e scettici («sono australiani, non conoscono l' Italia e faranno la fine dei francesi di Telepiù»). Una cosa però è certa. Più sarà consistente il successo di pubblico di Sky più sarà difficile che il digitale terrestre made in Italy si affermi, produca ricchezza e consenta l' affermazione di nuovi editori televisivi. Per un Paradiso del digitale terrestre e del pluralismo che esiste solo nelle buone intenzioni del ministro, c' è intanto una realtà in cui Mediaset stravince in casa e in trasferta. Prendiamo gli ultimi dati Nielsen disponibili sul mercato pubblicitario. Ebbene, il Biscione da solo incassa più di quanto riesca a fare tutta la carta stampata messa assieme: nel periodo gennaio-luglio 2003 Mediaset ha fatturato in spot 1,641 miliardi di euro contro 1,601 di quotidiani e periodici. Va tenuto poi presente che nel totale della carta stampata ha un peso considerevole la Mondadori, che fa capo allo stessa famiglia proprietaria di Mediaset. La percentuale di raccolta pubblicitaria dei canali di Silvio Berlusconi è poco sotto il 38% dell' intero settore televisivo. Giova ricordare che esiste in base alla legge vigente, la 249 nota come «la Maccanico», un limite del 30% che quindi risulta largamente disatteso. Ma non è tutto. Il sorpasso pubblicitario sulla carta stampata fa il paio con un' altra straordinaria performance: l' acquisita supremazia sulla Rai nella gara degli ascolti. Nel 2000 l' azienda pubblica aveva fatto registrare nel prime time il 49,24 e Mediaset rincorreva trafelata al 42,14. In questo scorcio del 2003 c' è stato il sorpasso, le tv di Fedele Confalonieri sono arrivate al 45,91 di audience e quelle di viale Mazzini sono al 44,12. Lo scorso anno a fine settembre tempi Mediaset tenne a Montecarlo la sua convention, quest' anno pare che abbiano deciso di farla slittare almeno di qualche settimana. Celebrare i successi della casa proprio mentre in Parlamento si battagliava sulla Gasparri deve essere sembrato agli uomini del Biscione troppo rischioso, meglio tenere lo champagne in fresco. ULIVO A RIMORCHIO - Per l' approvazione della legge la prossima settimana sarà quella decisiva. L' Udc ieri ha fatto sapere che martedì 23 voterà contro la pregiudiziale di costituzionalità presentata dal centro-sinistra. Il giorno dopo si riunirà l' ufficio politico e si deciderà se puntare o no su nuovi emendamenti. L' opposizione aspetta e spera ma l' impressione è che vada un po' a rimorchio degli avvenimenti. Molti tra i banchi dell' Ulivo danno già per persa la battaglia parlamentare e contano solo sul fatto che il Quirinale alla fine non firmi la legge e la rispedisca alle Camere. Tra tanta incertezza i big ancora non sono scesi in campo. Solo Massimo D' Alema ieri ha accennato al tema, sostenendo che se il governo vuole dialogare sulle riforme costituzionali si deve cominciare dalla legge sull' emittenza. La verità è che nell' Ulivo, al di là del «no a Gasparri» sono presenti impostazioni assai differenti. Se il centro-sinistra governasse e avesse dovuto presentare la sua riforma, almeno sul punto della privatizzazione della Rai, si sarebbe irrimediabilmente diviso. Con la Margherita a favore e il grosso dei Ds contro.
1641 MILIONI Gli euro che Mediaset ha incassato dalla pubblicità da gennaio a luglio del 2003 (dati Nielsen) 45,9 PER CENTO È l' audience delle reti Mediaset, che quest' anno hanno superato negli ascolti la Rai, ferma al 44,1
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