Raffaele Ciriello, 'ucciso da ignoti'. Chiesta l'archiviazione dell'inchiesta
17 settembre 2003
Amedeo Ricucci
Fonte: Il Manifesto - 17 Settembre 2003
Raffaele Ciriello è stato ucciso "per mano di ignoti", che non è possibile in
alcun modo identificare. Sono le conclusioni assurde cui sono giunti, per forza
di cose, i giudici milanesi Giuliano Turone e Massimo Baraldo, che il 12 settembre
hanno dovuto chiedere l'archiviazione dell'inchiesta aperta 15 mesi fa sulla morte
del fotoreporter italiano ucciso a Ramallah il 13 marzo 2002.
A sorpresa, infatti, e con grande sfacciataggine, le autorità israeliane hanno rigettato la rogatoria avanzata dai giudici di Milano, che avevano chiesto di identificare, per poterli interrogare, i componenti del carro armato israeliano che si vede nell'ultimo fotogramma del video girato in punta di morte da Raffaele Ciriello, da cui è partita la raffica di mitra che lo ha falciato. Era un passaggio obbligato dell'inchiesta. Sulla scorta infatti delle testimonianze oculari e dei documenti filmati, dei risultati dell'autopsia e della perizia balistica, gli inquirenti sono giunti alla conclusione che Raffaele Ciriello è stato ucciso da cinque proiettili 7.62 Nato in dotazione all'esercito israeliano, per le mitragliatrici coassiali montate sui carri armati Merkava. Per chiudere il cerchio, c'erano perciò da sentire i soldati che si trovavano su quel tank. Ma Israele ha detto di no.
Non era mai successo che un governo straniero si rifiutasse formalmente di collaborare con le autorità giudiziarie italiane. Dal 1959, da quando è stata firmata la prima convenzione internazionale in materia, la Convenzione di Strasburgo, centinaia di rogatorie sono state trasmesse dall'Italia ai quattro angoli del mondo. Ci sono stati Paesi che hanno risposto in ritardo, in maniera incompleta oppure sbagliata. E ci sono stati Paesi che hanno preferito ignorare la nostra richiesta di collaborazione. Ma nessuno, tanto più un Paese amico, si era mai permesso di rigettare una rogatoria, per di più con tracotanza.
Le autorità di Tel Aviv hanno contestato da un lato la competenza dei giudici italiani a indagare su una morte avvenuta al di fuori dei confini nazionali. E dall'altro si sono arrogati il diritto di entrare nel merito dell'inchiesta, giudicando "infondata" la richiesta dei giudici milanesi, visto che a loro avviso "non c'è alcuna responsabilità" da parte israeliana nella morte di Raffaele Ciriello.
Alla luce di questo netto rifiuto, i giudici milanesi sono stati costretti ad archiviare il caso. Riservandosi di chiedere al nostro Ministero di Giustizia un'azione formale contro le autorità israeliane, che si sono rifiutate di ottemperare ai Trattati internazionali che pure hanno ratificato. Sarà però difficile che il governo faccia dei passi in tale direzione, dal momento che esiste di fatto un tacito accordo per chiudere, definitivamente, il "caso" Ciriello.
Tale accordo risale al mese di maggio, quando le autorità di Tel Aviv hanno finalmente consegnato al nostro Ministero degli Esteri i risultati dell'inchiesta interna dell'Idf (Israely Defence Forces) sui fatti di Ramallah del 13 marzo 2002. Per il sottosegretario agli esteri, Alfredo Mantica, la consegna di quel rapporto alla famiglia e al Paese di Ciriello è stato un "atto di riguardo", da apprezzare. E chiudeva il contenzioso con Israele, apertosi il 13 marzo del 2002. In realtà era un gesto dovuto, che arrivava peraltro in ritardo, a 14 mesi di distanza dai fatti. Ma soprattutto, la consegna di quel rapporto non poteva certo essere barattato con la rogatoria avanzata dai giudici di Milano, su cui il nostro governo si è ben guardato dal far pressione, com'era suo dovere. Così come il nostro governo si è ben guardato dal rendere pubblico quel rapporto e di contestarlo, come era nel suo diritto.
In quel rapporto è contenuta la versione ufficiale e definitiva dello Stato di Israele sui fatti di Ramallah del 13 marzo 2002. E si tratta di una versione di comodo, l'ennesima, che cozza spudoratamente con l'evidenza dei fatti e dei filmati che li documentano. La riassumo brevemente, in esclusiva per i lettori del Manifesto, perché possano giudicare da soli.
Secondo l'IDF la morte di Raffaele Ciriello è stata uno sfortunato e tragico incidente. Ciriello sarebbe morto infatti per errore, in quanto i soldati israeliani lo avrebbero scambiato per un palestinese armato, pronto a sparare con un RPG (ndr: un lanciagranate che si punta a spalla). L'IDF precisa a questo proposito che non è stato possibile identificare Ciriello come un cameraman. Ed aggiunge che, esaminate tutte le circostanze, è evidente che da parte dei nostri soldati non c'è stata alcuna infrazione. Come dire: il caso è chiuso.
Non si può non restare allibiti di fronte a questa ricostruzione dei fatti. E' vero infatti che, sotto tutte le latitudini e con tutti gli eserciti, quando viene ucciso un cameraman la scusa ufficiale è che la sua telecamera è stata scambiata per un lanciagranate. Ed è vero anche che a occhio nudo e a una certa distanza non è sempre facile distinguere fra i due oggetti. Ma in questa circostanza la giustificazione è ridicola. Perché Raffaele Ciriello aveva fra le mani una piccola telecamera amatoriale: una palmare, poco più grande di un pacchetto di sigarette. Non era dunque una telecamera grande, professionale. E non la si poteva nemmeno imbracciare a spalla, nel gesto classico del cameraman, che può indurre in equivoco. Inoltre, il soldato che gli ha sparato aveva sulla sua mitragliatrice un mirino di precisione, che ha usato con grande perizia, tant'è che cinque dei suoi sette colpi hanno centrato Raffaele. L'ha visto bene, dunque, e non può aver visto un RPG che non c'era.
Ma il problema vero è che ai militari israeliani non interessa più di tanto fornire una versione credibile dell'accaduto, quanto evitarne a tutti i costi le possibili conseguenze. Ciò che conta cioè è poter garantire ai propri soldati la più totale impunità, evitando problemi di carattere legale, tanto più se internazionali. Com'è già successo a Sharon con la giustizia belga, a proposito di Sabra e Chatila. Non c'è perciò da stupirsi della girandola di versioni fornite sulla morte di Ciriello: prima l'ammissione dell'errore, a caldo, poi la ritrattazione sbalorditiva - "non ci sono prove che siamo stati noi a sparare", disse nell'agosto 2002 il portavoce dell'IDF - infine questa versione ridicola dell'incidente, per scambio di persona.
Un iter analogo hanno seguito d'altronde le inchieste interne svolte dall'IDF sulla morte degli altri 4 giornalisti uccisi da fuoco israeliano in Palestina dall'inizio della seconda Intifada. Erano tutti professionisti dalla lunga esperienza sui fronti "caldi" del Medio Oriente, uccisi in circostanze quantomeno sospette, nonostante fossero chiaramente identificabili come giornalisti, dai giubbotti antiproiettili e dalle scritte stampigliate sopra. Secondo Reporters sans Frontieres su nessuna di queste morti c'è mai stata un'inchiesta seria, né sono mai state prese sanzioni, disciplinari o amministrative, nei confronti dei soldati che hanno aperto il fuoco. Ne consegue, sottolinea l'ultimo rapporto di Rsf, "un sentimento di impunità generalizzata", in totale contraddizione con il rispetto della vita umana a cui l'esercito israeliano afferma di ispirarsi.
Resta infine il rigetto, gravissimo, della rogatoria avanzata dai giudici di Milano. E' una pietra tombale, che rischia di vanificare ogni speranza di verità e di giustizia per Raffaele Ciriello.
Finora nessuno ha avuto il coraggio, civile prima che politico, di protestare. Non si sono mossi i politici italiani, del governo come dell'opposizione. E non hanno proferito verbo, fatto ancora più grave, né l'Ordine dei Giornalisti né la Fnsi, che pure della libertà di stampa - e del rispetto di chi muore in suo nome - dovrebbero essere i primi paladini. Il rischio è che la morte di Raffaele venga archiviata come uno dei tanti incidenti sul lavoro.
Una morte bianca, senza colpevoli.
E sarebbe una vergogna.
A sorpresa, infatti, e con grande sfacciataggine, le autorità israeliane hanno rigettato la rogatoria avanzata dai giudici di Milano, che avevano chiesto di identificare, per poterli interrogare, i componenti del carro armato israeliano che si vede nell'ultimo fotogramma del video girato in punta di morte da Raffaele Ciriello, da cui è partita la raffica di mitra che lo ha falciato. Era un passaggio obbligato dell'inchiesta. Sulla scorta infatti delle testimonianze oculari e dei documenti filmati, dei risultati dell'autopsia e della perizia balistica, gli inquirenti sono giunti alla conclusione che Raffaele Ciriello è stato ucciso da cinque proiettili 7.62 Nato in dotazione all'esercito israeliano, per le mitragliatrici coassiali montate sui carri armati Merkava. Per chiudere il cerchio, c'erano perciò da sentire i soldati che si trovavano su quel tank. Ma Israele ha detto di no.
Non era mai successo che un governo straniero si rifiutasse formalmente di collaborare con le autorità giudiziarie italiane. Dal 1959, da quando è stata firmata la prima convenzione internazionale in materia, la Convenzione di Strasburgo, centinaia di rogatorie sono state trasmesse dall'Italia ai quattro angoli del mondo. Ci sono stati Paesi che hanno risposto in ritardo, in maniera incompleta oppure sbagliata. E ci sono stati Paesi che hanno preferito ignorare la nostra richiesta di collaborazione. Ma nessuno, tanto più un Paese amico, si era mai permesso di rigettare una rogatoria, per di più con tracotanza.
Le autorità di Tel Aviv hanno contestato da un lato la competenza dei giudici italiani a indagare su una morte avvenuta al di fuori dei confini nazionali. E dall'altro si sono arrogati il diritto di entrare nel merito dell'inchiesta, giudicando "infondata" la richiesta dei giudici milanesi, visto che a loro avviso "non c'è alcuna responsabilità" da parte israeliana nella morte di Raffaele Ciriello.
Alla luce di questo netto rifiuto, i giudici milanesi sono stati costretti ad archiviare il caso. Riservandosi di chiedere al nostro Ministero di Giustizia un'azione formale contro le autorità israeliane, che si sono rifiutate di ottemperare ai Trattati internazionali che pure hanno ratificato. Sarà però difficile che il governo faccia dei passi in tale direzione, dal momento che esiste di fatto un tacito accordo per chiudere, definitivamente, il "caso" Ciriello.
Tale accordo risale al mese di maggio, quando le autorità di Tel Aviv hanno finalmente consegnato al nostro Ministero degli Esteri i risultati dell'inchiesta interna dell'Idf (Israely Defence Forces) sui fatti di Ramallah del 13 marzo 2002. Per il sottosegretario agli esteri, Alfredo Mantica, la consegna di quel rapporto alla famiglia e al Paese di Ciriello è stato un "atto di riguardo", da apprezzare. E chiudeva il contenzioso con Israele, apertosi il 13 marzo del 2002. In realtà era un gesto dovuto, che arrivava peraltro in ritardo, a 14 mesi di distanza dai fatti. Ma soprattutto, la consegna di quel rapporto non poteva certo essere barattato con la rogatoria avanzata dai giudici di Milano, su cui il nostro governo si è ben guardato dal far pressione, com'era suo dovere. Così come il nostro governo si è ben guardato dal rendere pubblico quel rapporto e di contestarlo, come era nel suo diritto.
In quel rapporto è contenuta la versione ufficiale e definitiva dello Stato di Israele sui fatti di Ramallah del 13 marzo 2002. E si tratta di una versione di comodo, l'ennesima, che cozza spudoratamente con l'evidenza dei fatti e dei filmati che li documentano. La riassumo brevemente, in esclusiva per i lettori del Manifesto, perché possano giudicare da soli.
Secondo l'IDF la morte di Raffaele Ciriello è stata uno sfortunato e tragico incidente. Ciriello sarebbe morto infatti per errore, in quanto i soldati israeliani lo avrebbero scambiato per un palestinese armato, pronto a sparare con un RPG (ndr: un lanciagranate che si punta a spalla). L'IDF precisa a questo proposito che non è stato possibile identificare Ciriello come un cameraman. Ed aggiunge che, esaminate tutte le circostanze, è evidente che da parte dei nostri soldati non c'è stata alcuna infrazione. Come dire: il caso è chiuso.
Non si può non restare allibiti di fronte a questa ricostruzione dei fatti. E' vero infatti che, sotto tutte le latitudini e con tutti gli eserciti, quando viene ucciso un cameraman la scusa ufficiale è che la sua telecamera è stata scambiata per un lanciagranate. Ed è vero anche che a occhio nudo e a una certa distanza non è sempre facile distinguere fra i due oggetti. Ma in questa circostanza la giustificazione è ridicola. Perché Raffaele Ciriello aveva fra le mani una piccola telecamera amatoriale: una palmare, poco più grande di un pacchetto di sigarette. Non era dunque una telecamera grande, professionale. E non la si poteva nemmeno imbracciare a spalla, nel gesto classico del cameraman, che può indurre in equivoco. Inoltre, il soldato che gli ha sparato aveva sulla sua mitragliatrice un mirino di precisione, che ha usato con grande perizia, tant'è che cinque dei suoi sette colpi hanno centrato Raffaele. L'ha visto bene, dunque, e non può aver visto un RPG che non c'era.
Ma il problema vero è che ai militari israeliani non interessa più di tanto fornire una versione credibile dell'accaduto, quanto evitarne a tutti i costi le possibili conseguenze. Ciò che conta cioè è poter garantire ai propri soldati la più totale impunità, evitando problemi di carattere legale, tanto più se internazionali. Com'è già successo a Sharon con la giustizia belga, a proposito di Sabra e Chatila. Non c'è perciò da stupirsi della girandola di versioni fornite sulla morte di Ciriello: prima l'ammissione dell'errore, a caldo, poi la ritrattazione sbalorditiva - "non ci sono prove che siamo stati noi a sparare", disse nell'agosto 2002 il portavoce dell'IDF - infine questa versione ridicola dell'incidente, per scambio di persona.
Un iter analogo hanno seguito d'altronde le inchieste interne svolte dall'IDF sulla morte degli altri 4 giornalisti uccisi da fuoco israeliano in Palestina dall'inizio della seconda Intifada. Erano tutti professionisti dalla lunga esperienza sui fronti "caldi" del Medio Oriente, uccisi in circostanze quantomeno sospette, nonostante fossero chiaramente identificabili come giornalisti, dai giubbotti antiproiettili e dalle scritte stampigliate sopra. Secondo Reporters sans Frontieres su nessuna di queste morti c'è mai stata un'inchiesta seria, né sono mai state prese sanzioni, disciplinari o amministrative, nei confronti dei soldati che hanno aperto il fuoco. Ne consegue, sottolinea l'ultimo rapporto di Rsf, "un sentimento di impunità generalizzata", in totale contraddizione con il rispetto della vita umana a cui l'esercito israeliano afferma di ispirarsi.
Resta infine il rigetto, gravissimo, della rogatoria avanzata dai giudici di Milano. E' una pietra tombale, che rischia di vanificare ogni speranza di verità e di giustizia per Raffaele Ciriello.
Finora nessuno ha avuto il coraggio, civile prima che politico, di protestare. Non si sono mossi i politici italiani, del governo come dell'opposizione. E non hanno proferito verbo, fatto ancora più grave, né l'Ordine dei Giornalisti né la Fnsi, che pure della libertà di stampa - e del rispetto di chi muore in suo nome - dovrebbero essere i primi paladini. Il rischio è che la morte di Raffaele venga archiviata come uno dei tanti incidenti sul lavoro.
Una morte bianca, senza colpevoli.
E sarebbe una vergogna.
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