Agenzie comunicative, crescete e proliferate
L’esperienza italiana mostra che, se si vuole evitare che la democrazia divenga un'etichetta a cui non corrisponde nulla, si deve limitare il potere di formazione del consenso da parte delle aziende mediatiche, e dei sistemi tecno-comunicativi privati. Ma per affrontare questo tema occorre porsi una domanda radicale: è possibile pensare politicamente l’Infosfera elettronica il cui carattere iperveloce e simultaneo sfugge al dominio sequenziale della legge? E' possibile regolare l’estensione infinita della proliferazione comunicativa contemporanea? E’ possibile costituzionalizzare il proliferante? Quando la complessità dei flussi di comunicazione diviene illimitata, la regolazione diviene impossibile. Il problema a questo punto va affrontato secondo procedure che non sono quelle del della regolazione e dell’interdizione.
Alla potenza proliferante delle grandi corporazioni mediatiche occorre allora contrapporre una potenza proliferante delle agenzie di comunicazione radicate nella pratica della società. Il principio reticolare va opposto come antidoto alla iperpotenza dei media proprietari. Esiste già una riflessione teorica e una pratica sociale che ha tentato di fare i conti con la novità delle tecnologie videoelettroniche e della rete: è il mediattivismo che negli ultimi decenni ha prodotto significativi esperimenti di comunicazione sociale autonoma dal dominio delle corporation, ma anche dai limiti regolativi dello stato.
La caratteristica essenziale del mediattivismo consiste nel rifiuto di considerare la società come audience, pubblico passivo di un flusso comunicativo unidirezionale, e nel proporre un modello infinitamente plurale di rete in cui ogni ricevente è anche un'emittente, o può diventarlo. Ripensiamo all’esperienza degli ultimi decenni in Italia, da quando le tecnologie mediatiche e le competenze tecnologiche della popolazione hanno fatto saltare il tappo del monopolio statale. La diffusione delle radio libere, negli anni Settanta, fu la prima manifestazione della difficoltà di un controllo politico sulla spontanea moltiplicazione degli strumenti di registrazione audiovisuale e degli strumenti di telediffusione elettronica. Sulla scia della rottura prodotta dalle radio libere, negli anni Ottanta esplose il fenomeno delle televisioni commerciali.
La deregolamentazione prodotta dalle radio aprì la strada all’invasione pubblicitaria e televisiva. La sinistra osteggiò le radio libere, avvertendo il pericolo dell'invadenza privatistica nel campo comunicativo, e ribadì la necessità di difendere il sistema pubblico come unica garanzia democratica, come unica possibilità di arginare la penetrazione del grande capitale nello spazio della formazione dell’opinione pubblica. Qualcuno potrebbe pensare col senno di poi che la sinistra aveva ragione a opporsi alle istanze libertarie espresse dalle radio libere. Ma la sinistra statalista non aveva ragione, per il semplice fatto che la strada della liberalizzazione era una strada obbligata. Le tecnologie di registrazione e trasmissione si stavano popolarizzando, l’elettronica abbassava i costi degli strumenti di trasmissione, un numero crescente di persone acquisiva competenze tecniche e culturali. Il sistema comunicativo usciva dalla preistoria statale, e si doveva cominciare a riflettere sul futuro in termini definivamente post-statali. La sinistra italiana non seppe farlo. Il risultato è sotto i nostri occhi: invasione della sfera politica da parte del sistema di produzione di ignoranza a mezzo di imbecillità. E’ possibile venirne fuori?
La comunicazione elettronica è proliferante e irriducibile a una regolamentazione restrittiva. Perciò occorre favorire la proliferazione senza pretese di regolamentarla, e al tempo stesso occorre liberarla dai limiti economici che rendono impossibile alla società una libertà di espressione paragonabile a quella delle grandi aziende private. Il sistema pubblico non deve entrare nel campo della comunicazione come soggetto culturale, secondo il modello fin qui seguito in Italia, dove ha finito per spartirsi il potere, ma ha il compito di mettere tutti gli attori potenziali della comunicazione in condizione di competere su una base di parità. E questo significa fornire gli strumenti per la diffusione e le risorse per la produzione a quelle agenzie di comunicazione di base che pur avendo le competenze e le idee non posseggono i capitali per competere con le grandi aziende mediatiche. E’ inutile parlare di pluralismo della comunicazione se le voci minoritarie, formalmente libere, non hanno la possibilità economica di esprimersi, perdono udibilità e alla fine si spengono perché non sono in grado di reggere in un campo in cui le posizioni di potere economico sono ormai consolidate, e gli spostamenti e le innovazioni possono verificarsi solo a patto di possedere enormi capitali di partenza. In questo modo il pluralismo si riduce a una formalità ipocrita, mentre sul piano sostanziale il monopolio delle grandi aziende private non può che consolidarsi.
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