Guerra e media, battaglia di libertà
«Liberate Giuliana, liberate l'Iraq»: con questo slogan 500.000 persone scesero in piazza a Roma il 19 febbraio 2005. Grazie alle grandi mobilitazioni, in Italia e altrove, e alla trattativa di Nicola Calipari, io sono libera. Il nostro impegno si deve ora concentrare sulla liberazione dell'Iraq. Un primo passo sarà il ritiro delle truppe italiane. Chi è sceso in piazza per liberarmi penso non fosse mosso solo da motivi umanitari e pacifisti ma anche dalla volontà di difendere un'informazione libera. Un dibattito che attraversa l'Europa e anche gli Stati uniti, dove l'informazione sulla guerra è, con rare eccezioni, blindata. Durante il mio recente viaggio a New York - peraltro la città più liberale degli Usa - ho potuto constatare i cambiamenti all'interno delle redazioni di importanti network durante la guerra in Iraq, i timori dei giornalisti a parlare di questioni imbarazzanti per il governo, la differenza tra edizioni locali e internazionali degli stessi network. E però non mancano eccezioni importanti come quella di Democracy nowcondotta da Amy Goodman (vedi accanto) che ha dato grande spazio alla mia esperienza. Ma i pochi giornalisti occidentali rimasti in Iraq sono embedded, a girare sono quasi solo gli iracheni, con gravi rischi, anche se spesso non vengono calcolati nelle liste delle vittime che, secondo dati recenti da loro diffusi, sarebbero 144. In occidente eravamo rimasti a una novantina.
Nei dibattiti di questi mesi ho potuto verificare la sete di notizie di un pubblico non più disposto ad accettare un' informazione omologata. Ho potuto anche vedere l'apprezzamento per il lavoro mio e dei compagni del manifesto. Chi è sceso in piazza per liberarmi sosteneva anche la libertà di informazione che il manifestoha sempre rappresentato e rischia di non poter più rappresentare. La brutta esperienza non ha cambiato la mia convinzione sul modo di far informazione: sul terreno, con la gente, per dar voce a chi rischia di essere soffocato dal fragore delle armi. La stessa convinzione che abbiamo sempre condiviso al manifesto. E che viene apprezzata non solo in Italia ma anche all'estero, persino negli Usa.
Perché questo lavoro possa continuare occorre però un nuovo impegno di tutti noi e soprattutto dei sostenitori di quell'anomalia rappresentata da il manifesto. Che in gran parte coincidono con quelli che si sono impegnati per la mia liberazione in Italia e all'estero: in Europa, nel mondo arabo, in oriente come in occidente. In fondo il compito è ora meno difficile di quello del febbraio 2005 - bastano un po' di soldi e l'impegno della redazione di essere all'altezza della fiducia accordatagli - ma la sfida è altrettanto ardua.
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