Katrina vanden Heuvel: «Da Bush attacchi durissimi contro la libertà di stampa»
«Conversazioni telefoniche nelle redazioni dei quotidiani e dei notiziari televisivi sorvegliate da agenti del governo, pressioni per far licenziare i giornalisti non allineati e costringere a ritrattare servizi scomodi. Inchieste bollate come attentati alla sicurezza nazionale o addirittura favoreggiamento dei terroristi. New York Times, Cbs, Time Magazine, tutti i più grandi mezzi d'informazione sono stati oggetto di attacchi senza precedenti da parte di questa amministrazione». Dopo le polemiche scoppiate in seguito allo scoop del New York Times sui controlli segreti delle operazioni bancarie internazionali, Katrina vanden Heuvel, direttrice di The Nation, il più antico e autorevole settimanale politico americano, traccia un bilancio di quel che resta della libertà di stampa negli Stati Uniti.
In questo clima di emergenza perenne e di caccia alle streghe, è ancora possibile fare un'informazione libera?
«Nonostante i sistematici attacchi, resta un nutrito numero di organi d'informazione indipendenti che rimangono vigili, ma è un esercizio sempre più difficile. Chiunque abbia per le mani una storia esplosiva, come è capitato al New York Times, è inevitabilmente portato a riflettere due volte prima di pubblicarla. L'atmosfera è pesantissima: oggi fare un'informazione libera comporta il rischio di finire nella lista dei nemici. Non ho elementi per affermare che io o altri giornalisti a The Nation siamo stati spiati dal governo, ma sappiamo per certo che è accaduto ad altri colleghi. Sono soprattutto i grandi media a finire nel mirino. Il fatto inquietante è l'apparato di vigilanza che l'amministrazione Bush ha messo in piedi dopo l'11 settembre. L'obiettivo è di mettere a tacere le voci dell'opposizione e di delegittimare una componente fondamentale della vita democratica: il controllo dei media nei confronti del potere esecutivo.
Come giudica le reazioni dei media agli attacchi al New York Times? Il Wall Street Journal si è schierato dalla parte del presidente.
«Il caso del Wall Street Journal è scandaloso, una vera disgrazia per il mondo dell'informazione. È lo specchio del baratro che si è aperto fra una redazione con una tradizione di eccellenza e un gruppo di editorialisti che prendono istruzioni direttamente dalla Casa Bianca. In generale posso dire che c'è mancanza di solidarietà tra i media, come se il primo emendamento della Costituzione, quello che garantisce la libertà di espressione, fosse diventato una questione secondaria. Bisogna dire che questa è un'amministrazione abituata ad agire in segretezza e che ha dato prova costante di comportamenti vendicativi. C'è paura di essere tagliati fuori dalle fonti di informazione ufficiali. E molti giornali e televisioni fanno parte di multinazionali all'interno delle quali i mezzi d'informazione sono entità relativamente piccole. E le multinazionali fanno business a Washington, hanno interessi da proteggere. Senza contare che c'è meno rispetto per i media da parte dell'opinione pubblica, una situazione a cui hanno senz'altro contribuito le reticenze e la timidezza nel denunciare le menzogne con cui l'America è stata trascinata nella sciagurata avventura irachena».
L'amministrazione Bush giustifica provvedimenti estremi con il fatto che l'America è in guerra. È accaduto anche in passato?
«Durante tutti i conflitti i governi hanno manovrato per controllare l'informazione, per imbavagliare la stampa. Basti pensare agli attacchi di Nixon al Washington Post durante la guerra in Vietnam. Ora però siamo arrivati a tutt'altro livello, i giornalisti liberi vengono chiamati traditori. Tutto l'impianto della guerra al terrorismo dichiarata da Bush si è tradotto in una sistematica negazione di diritti fondamentali. Ora il congresso domanda maggiore controllo sull'esecutivo, ma è tardi. È inquietante che la fascia di popolazione più giovane, quella di età compresa fra i 18 e i 25 anni, come ci dicono i sondaggi, non abbia problemi con le intercettazioni del governo nelle comunicazioni dei cittadini e sia sostanzialmente indifferente alle limitazioni dei diritti civili. Credo che sia un problema culturale, riflette una mancanza di comprensione delle realtà che è anche conseguenza di un'informazione distorta».
A novembre si vota per le elezioni di medio termine, c'è da sperare che qualcosa cambi?
«La leadership democratica sinora ha avuto paura persino della sua ombra. Su tutti i temi qualificanti del dibattito politico, dall'Iraq, alle torture dei prigionieri, sino agli attacchi all'informazione, solo pochi esponenti dell'opposizione hanno avuto il coraggio di far sentire la propria voce. Gli altri hanno taciuto per timore d'essere chiamati codardi o traditori. Se il Partito democratico - come penso accadrà - avrà la maggioranza alla Camera, sono convinta che assisteremo finalmente a una svolta. Alla presidenza di tutte le commissioni parlamentari chiave ci saranno esponenti progressisti come Henry Waxman e George Miller che potranno dare davvero un segno di rottura. Sono stati i primi a denunciare la corruzione e il malaffare nella ricostruzione in Iraq e le manovre segrete del governo per calpestare le regole della nostra democrazia. Mi aspetto audizioni che chiamino l'esecutivo a rispondere delle sue azioni. Sarà la migliore rivincita per la stampa indipendente, perché le nostre denunce sono sempre state fondate.
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