Prove di limitazione della libertà di informazione cavalcando uno scandalo

La password di Amato

Un ministro che non conosce il massimario della Cassazione se la prende con i «patti occulti» tra giudici e cronisti ma tace sulla disinformazione di stato
20 luglio 2006
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Al ministro Giuliano Amato la definizione di «dottor Sottile» piace assai e se ne è compiaciuto con il giornalista Giuseppe D'Avanzo: «Son Sottile perché distinguo» ( La Repubblica, 14 luglio 2006). Sarà anche, ma c'è da dire che distingue male e lo fa a partire da una conoscenza grossolana dei fatti e persino del diritto.
Tutto comincia con un'audizione dello stesso Amato alla commissione Affari costituzionali della Camera, durante la quale si è detto «esterrefatto da ciò che accade in Italia e mi dicono che accade da molto tempo». Ovvero? «Alcuni giornalisti mi dicono che esistono contratti di fatto tra giornalisti e chi fornisce le notizie e collegamenti tra procure e giornali per cui viene data al giornalista una password per entrare nel momento in cui un atto viene dato ai difensori». La notizia, che compare anche in una nota della prefettura di Potenza, è stata passata al ministro di Giustizia Mastella perché mandi di nuovo i suoi ispettori a Potenza a scoprire questo traffico di password.
Da Potenza hanno già fatto sapere che in procura non esiste una rete locale di computer e che è impensabile che un pubblico ministero faccia entrare nel suo Pc degli estranei. La possibile spiegazione dell'equivoco (che rivela anche la persistenza ignoranza digitale dei nostri governanti e di molti giuristi) l'ha adombrata il Gip di Potenza Alberto Iannuzzi. Potrebbe trattarsi di questo: quando gli atti delle intercettazioni telefoniche vengono consegnati alle parti, tra cui gli avvocati difensori, si evita ormai, per ragioni di costi, di fotocopiare intere risme di carta; si dà loro invece un Compact Disc che contiene le verbalizzazioni. Questi Cd hanno il pregio di essere esenti da manipolazioni e, a ulteriore prudenza, vengono protetti con una password; così anche se un avvocato dimenticasse il Cd sull'autobus nessuno (salvo alcuni specialisti) potrebbe leggerlo. L'accoppiata Cd e password è dunque più riservata e sicura di un fascicolo di fotocopie.
D'altra parte i difensori è bene che conoscano tutto il registrato perché alcune telefonate, apparentemente poco importanti, potrebbero chiarire il contesto e illuminare di altra luce quelle che gli inquirenti considerano prova di reato. E' una garanzia per gli imputati. L'ex garante della privacy Stefano Rodotà ha proposto di recente che accusa e difesa segnalino ognuno ciò che vogliono sia conservato per essere portato in aula e che il resto venga distrutto ed è un'idea più che ragionevole. Che una parte del processo fornisca fotocopie o password è la stessa cosa; quando non secretati si tratta di materiali legittimamente in suo possesso che è utile e buono che l'opinione pubblica conosca.
Ma che dire dei «contratti di fatto tra giornalisti e chi fornisce le notizie e collegamenti tra procure e giornali» di cui ha parlato Amato? Ovviamente un cronista ha rapporti con tutti: accusa, gip, avvocati, imputati e parti lese. Ognuno di loro è interessato a fornire alla stampa i propri fatti e la propria versione e ciò vale anche per chi si occupi di finanza o di moda. Il cronista sa di ricevere sempre delle notizie inevitabilmente interessate e sa che deve incrociare le fonti e fornire ai suoi lettori una sintesi corretta, sottraendosi al gioco dell'una o dell'altra parte.
Poi ci sono i sedicenti giornalisti che accettano di fare interviste sotto commissione: è il caso di quel signore che riceveva dal Sismi le domande da porre ai pubblici ministeri di Milano e puntualmente riferiva al Sismi stesso come era andata. O che pubblicava senza verifiche delle soffiate dello stesso Sismi volte a mettere in cattiva luce il presidente Prodi. Questo non era un contratto di fatto, ma un contratto vero e proprio, con tanto di ricompensa monetaria, vietato dalla deontologia professionale e, sul fronte del Sismi, dalle legge che gli proibisce di reclutare giornalisti. Che Giuliano Amato di questo non sia esterrefatto e non abbia speso parole al riguardo rivela non la sua sottigliezza ma il suo cinismo.
Infine: lo stesso ministro dichiara che la disciplina in vigore prevede che «la pubblicazione di una sentenza passata in giudicato non indichi il nome, ma soltanto le iniziali, del condannato». In questo caso Amato «sbaglia in maniera clamorosa», come scrive Franco Abruzzo, presidente dell'ordine dei giornalisti di Milano. Nel gennaio scorso, infatti, il primo presidente della Cassazione, Nicola Marvulli, ha confermato con una circolare che la Corte di Cassazione può rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati (si veda http://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=1882). Il motivo è evidente: un processo, con tanto di condanna o di assoluzione è un fatto pubblico, da quando esiste lo stato moderno.
Non per caso deve essere celebrato in aule aperte perché il diritto penale viene esercitato in nome della comunità intera. Tutti dunque devono poter conoscere, con i mezzi che sono disponibili: la presenza fisica, i giornali, le radio, le televisioni, la rete Internet. Non occorre essere sottili per saperlo e per tutelare questo valore.

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