«Le bombe contro la tv? Normale in tempo di guerra»

Sei reporter israeliani si dimettono dall' Ifj che aveva condannato il raid sull' emittente sciita. I giornalisti italiani ne discutono
29 luglio 2006
Monica Ricci Sargentini
Fonte: Il Corriere della Sera (http://www.corriere.it)

Non appena, lo scorso 12 luglio, è iniziata la guerra, gli aerei israeliani hanno preso di mira Al Manar, la televisione dell' Hezbollah che dal 1991 trasmette via satellite il verbo del Partito di Dio. Un obiettivo legittimo o un attacco alla libertà di stampa? «Una chiara dimostrazione di come Israele utilizzi la politica della violenza per mettere a tacere i media dissidenti» è stato il commento lapidario di Alden White segretario generale della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj). Parole pesanti come pietre per i reporter israeliani membri dell' associazione che hanno chiesto il ritiro della dichiarazione. Ma White si è rifiutato. E, per protesta, i sei israeliani si sono dimessi: «Non ho intenzione di far parte di un' organizzazione disposta a tesserare militanti di Hezbollah - ha detto uno dei reporter -. Un terrorista non è un giornalista e se un' organizzazione internazionale preferisce averne tra le sue fila allora noi ce ne tiriamo fuori». Distruggere i centri di comunicazione del nemico è la prassi in tempo di guerra. La pensano così molti giornalisti e opinionisti italiani. Furio Colombo, senatore Ds ed ex direttore de l' Unità non ha dubbi: «Io credo che non abbiamo mai rimproverato gli americani e gli inglesi per aver colpito i centri di comunicazione nazisti. Stiamo parlando di un esercito, l' Hezbollah, che ha una struttura tale da riuscire a tenere a bada gli israeliani grazie alla tecnologia. Intere batterie missilistiche vengono attivate da computer situati in luoghi lontani dall' esplosione. E questo sistema di comunicazione lo garantisce la televisione». Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e direttore editoriale di Mediaset, fa notare che «durante la guerra del Kosovo anche noi bombardammo la sede della televisione serba a Belgrado. Non è possibile pensare che in tempi di guerra non si tenti di neutralizzare l' antenna più pericolosa». Non si scandalizza Khaled Fouad Allam, islamista e deputato della Margherita: «Al Manar non è una televisione indipendente ma di propaganda di un partito, di una milizia islamica e in tempi di guerra è normale che venga distrutta. Non c' è niente di nuovo sotto il cielo». Fuori dal coro Piero Ottone, editorialista di Repubblica ed ex direttore del Corriere: «Qualsiasi intervento violento contro i mezzi d' espressione è da condannare anche se la propaganda è un' attività discutibile. Ma i limiti non sono chiaramente definibili, sono più nel cuore di ogni giornalista. Al New York Times qualche tempo fa si è discusso se la news analysis fosse propaganda o informazione obiettiva». Ma qual è il confine tra libertà di espressione e promozione di convinzioni «discutibili»? Anche Al Jazeera, la tv del Qatar, è stata spesso accusata di essere il megafono di Osama Bin Laden e di alimentare un sentimento anti-americano nei Paesi arabi. «Non scherziamo sulla libertà di espressione, - dice Enrico Mentana - Al Jazeera è una tv all news. Altra cosa sono le emittenti combattenti. In realtà dovrebbero essere i giornalisti i primi avversari della propaganda, io non ho mai visto prese di posizioni come quella dell' Ifj contro chi inneggia ai kamikaze o costruisce falsi sull' 11 settembre. Mi piacerebbe che in tempo di pace si parlasse di questo e anche dell' uso disinvolto che l' esercito israeliano fa delle notizie che passa agli organi di stampa».

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