Dov'è finito il giornale? L'«edicola» del futuro
Che cosa si fa quando le vendite calano e gli inserzionisti spariscono? Nella grande confusione che si è creata sotto il cielo dei media stampati dopo l'affermazione di Internet la corsa ad inventarsi dei «nuovi modelli di business», più che dei nuovi modelli di giornali e riviste, è stata piuttosto affannosa. Il «rapporto speciale» pubblicato da The Economistquesta settimana delinea i contorni della crisi, a livello planetario, della carta stampata. I dati sono chiari. In America la stessa associazione di categoria, la Newspaper Association of America (Naa, che però tende a dipingere ad uso degli inserzionisti un quadro molto roseo) parla di un calo di percentuale di lettori sulla popolazione totale nell'ordine del 7% in sette anni, con una forte accentuazione del calo nelle fasce di età più giovani.
Un quarto della pubblicità sui quotidiani stampati è destinata a spostarsi sul web entro 10 anni. La fetta della torta pubblicitaria a livello globale che conquistano i quotidiani era del 36% nel 1995, è di circa il 30% oggi e scenderà al 25% tra dieci anni (in Italia, grazie allo strapotere del duopolio tv siamo già a cifre molto più basse). Stesso discorso per i periodici. La pubblicità sulle riviste dirette al consumatore (non quelle professionali di settore) crescerà quest'anno negli Usa del 3% contro un aumento della pubblicità su Internet del 27% con un investimento totale di 14.5 miliardi di dollari, per la prima volta nella storia superiore a quello per le pagine di pubblicità sulle riviste.
Le vie di uscita dalla crisi tentate dagli editori di giornali e riviste sono molte. La più ovvia, e la prima tentata, è stata quella della creazione di edizioni online delle pubblicazioni cartacee.
Prima come imitazioni abbastanza piatte, poi con idee e impostazioni un po' più innovative, con diversi modelli di pricing, dal «tutto gratis» al tutto a pagamento (modello Wall Street Journal), passando per vendita di articoli di archivio, special reportsecc. E le edizioni online hanno cominciato a fare quattrini per gli editori.
L' Economistricorda come La Repubblicaabbia raggiunto il milione di visitatori e abbia registrato quest'anno un aumento del 70% negli introiti pubblicitari online. E ancora la Naa esalta l'aumento del 35% della pubblicità sui siti web dei quotidiani, ma altri osservano come questo «boom» sia abbastanza marginale rispetto alle perdite complessive di fatturato pubblicitario e come gli inserzionisti stessi chiedano multipli di lettori web (dieci, ma anche 20 o 100) per compensare la perdita di un lettore printche dedica alla lettura più tempo e più attenzione.
Si ricorre allora ad altre strade, ad altri «modelli». Come quello di utilizzare il marchio, il branddella testata per fare tutt'altro. Un po' come i nostri maggiori quotidiani che tendono a diventare appendici (a volte non volute) per vendere libri, enciclopedie, Dvd, collezioni musicali, all'estero si usa la edizione online per vendere un po' di tutto. In Scandinavia il quotidiano Aftonbladetha lanciato un club per dimagrire che ha raggiunto i 54.000 soci paganti e l'inglese Daily Telegraphvende online ogni sorta di prodotto e servizio (e queste vendite rappresentano un terzo dei profitti dell'editore). Per le riviste i percorsi sono simili. Dai rispettivi siti si vendono con gran successo le melodie per suonerie di cellulari. Ma sono anche nate sotto-testate (è il caso di OfficePirates.com per Time) molto mirate a segmenti di lettori di particolare interesse per gli sponsor, che diventano partner della pubblicazione (in questo caso le auto Dodge e il rum Bacardi).
C'è poi chi percorre altre strade, come quelle della vendita selettiva di contenuti giornalistici o para-giornalistici via web. Due casi di successo: quello della rivista per chi corre Runner's Worldche ha visto 23.000 lettori scaricare un podcast di consigli per allenarsi alle maratone di Boston e New York. Gratis per i lettori, ma riccamente pagati alla rivista da due sponsor.
L'altro è Epicurius.com, sito «gastronomico» del gruppo Condé Nast, che consente l'invio di ricette dal sito al cellulare, con la lista degli ingredienti da leggere mentre si fa la spesa. Gratis anche qui, grazie allo sponsor American Express. Si capisce che questi siano solo tentativi, esperimenti, forse non cambio di strategia.
Ma quando queste sembrano delinearsi non vanno nel senso della maggior qualità, come suggerisce qualcuno degli intervistati da The Economist, ma verso, come visto, la totale commercializzazione del giornale oppure verso la iper-localizzazione del quotidiano.
Tra le poche testate che sembrano aver successo (e tra le poche nuove che nascono) sono quelle iper-localistiche, una pagina di notizie nazionali, una di internazionali e le altre a raccontare di feste di laurea, balli di debuttanti e gattini impigliati sugli alberi. E che peraltro non si capisce come si potranno difendere, in prospettiva, da siti e blog locali.
L'impressione generale è che modelli di business credibili non si vedano all'orizzonte su nessuno dei due lati dell'Atlantico. E che quelli tentati scontino una valutazione della crisi ben al di sotto della sua dimensione e profondità.
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