I media della «nonmarket economy»
Che l'ultima copia di quotidiano di carta verrà stampata nel lontano 2043 è una bella battuta, ma solo quello. Ed è una battuta consolatoria e ingannevole, con la quale i gruppi editoriali e i giornalisti più tradizionali (anche quelli che si vantano di essere in Internet da decenni) si vogliono autoconvincere che c'è ancora tempo per rimediare, che il mondo dell'informazione non è davanti a un abisso e che alla fin fine si arriverà a un felice aggiustamento, dove i vecchi media non scompaiono, ma si adattano e convivono con i nuovi, ognuno trovando il meglio del suo linguaggio e del suo pubblico di elezione. Non è successo così per giornali e cinema di fronte alla radio e per la radio di fronte alla televisione? Perché non dovrebbe capitare lo stesso, virtuosamente, anche per questi old media di fronte all'Internet?
È un punto di vista che sembrarealistico e gradualistico, peccato che non sia affatto convincente, né dal punto di vista teorico, né da quello delle osservazioni empiriche. Intanto perché la crisi dei media tradizionali, nel rapporto con il loro pubblico e con il loro mercato è già ben profonda, solo che la si voglia vedere. Per i quotidiani sta nel numero di copie vendute in costante discesa, ovunque e per ogni tipo di giornale; per le case musicali nella parallela caduta di vendite dei supporti tradizionali, Cd e persino Dvd; per le tv nella crescente disaffezione del pubblico giovane e di quello professionale. I numeri sono chiari e coerenti nel tempo, da tempo.
Ma la causa qual è? Molto dipende dalla scarsa qualità di questi prodotti, dalle politiche predatorie dei prezzi, dalla scelta dei grandi media di avere come unici riferimenti i poteri (politico-economici) e gli inserzionisti. Il che produce distacco dalla vita delle persone, prodotti di minimo comun denominatore, scarsa credibilità e pensiero (quasi) unico.
Ma non solo di questo si tratta: in questa scena giàdi crisi, è dilagata, da 15 anni a questa parte, la rete Internet o meglio l'economia delle reti. E con essa ha preso spazio, credibilità ed efficacia anche economica un modello radicalmente diverso. Tutto il secolo ventesimo è stato dominato dal prodigioso dispiegarsi dell'economia industrialedei media le cui caratteristiche erano (e sono): 1) grandi capitali necessari per produrre informazione e conoscenza (stamperie, reti televisive, circuiti di distribuzione); 2) disseminazione dal centro verso la periferia, a scala di massa, dove ogni copia in più ha un costo aggiuntivo minimo o nullo; 3) fornitura di «prodotti finali» insieme completi e chiusi: un telefilm o un libro in questo senso non sono diversi da un paio di scarpe, si vendono e si comprano «così come sono». In questo modello informazione e conoscenza vengono prodotte, distribuite e consumate con le stesse caratteristiche industriali di ogni altra merce, anche se invece, per loro natura, sono un bene diverso dalle automobili, se non altro perché il possesso di un'idea non ne preclude l'uso e la circolazione da parte di altri, mentre una bibita o la bevo io o la bevi tu. E poi la conoscenza, anche quando firmata da un autore, è sempre un prodotto sociale. Per esempio molte delle cose qui scritte sono state dette molto bene e meglio da molti economisti dei media. E tutti, quando esprimiamo idee, lo facciamo innalzandoci «sulle spalle dei giganti» che ci hanno preceduto, come Newton ebbe a riconoscere con saggia modestia. E non solo dei giganti, ma dell'insieme di suggestioni, parole, conversazioni dei simili che ci circondano. Tutta la cultura, anche quella alta, è sempre anche folk.
Ma soprattutto, grazie alle tecnologie elettroniche, sono cambiate le condizioni materiali di produzione e fruizione. Sia chiaro la tecnologia non determina la rivoluzioni e che le stesse tecnologie dei media possono essere usate diversamente per favorire le democrazia o per deprimerla in un regime. Ma il nuovo che ci è arrivato addosso ha abbassato di molti fattori le barriere all'ingresso, rendendo possibile (abilitando) circa un miliardo di persone, quanti sono gli utilizzatori dell'Internet al mondo, a prendere la parola per i fini e interessi i più diversi. Insomma si è generato un felice incontro tra il desiderio delle persone a dire la loro in pubblico (un desiderio che caratterizza da sempre la nostra specie) con la possibilità di farlo facilmente e a costi pressoché nulli. Milioni di persone lo fanno, a prescindere e anche in contrasto critico con i contenuti informativi dei media tradizionali. Spesso di quelli fanno a meno e agisco o con modelli di condivisione delle conoscenze che spesso non sono quelli industriali e nemmeno di mercato. È una «nonmarket economy», come la chiama lo studioso americano Yochai Benkler. Non soppianta quella esistente, di stato e mercato, ma la obbliga a rifare i conti con se stessa, che si tratti di produzione di software, come di musica o di agende politiche. La sua caratteristica dominante è di portare in pubblico sia le chiacchiere da bar che le notizie scomode, sia i diari adolescenziali che le malefatte delle corporations. E di farlo in maniera più completa, globale e credibile, dei media storici, perché l'interesse di chi lo fa non è solo utilitaristico, ma sociale. Se le foto di Abu Graib o del Libano bombardato sono più su YouTube che sul Corriere, questo esalta la credibilità della rete e (fortunatamente) deprime quella dei Panebianco sostenitori della tortura.
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