«L' ultimo quotidiano? Nel 2043» (ma c' è già l' elenco di chi si salverà)
«Who killed the newspaper?». «Chi ha ucciso il giornale?». Il punto interrogativo è lì, bello chiaro, fin dal titolo. Ma è come se non ci fosse. Per l' Economist, l' informazione su carta stampata è ormai in via di estinzione in (quasi) tutto il mondo. Destino certo. Solo questione di tempo. Tanto che al problema il settimanale britannico riserva un buon numero delle sue pagine di questo numero, dalla copertina al primo dei commenti fino al dossier d' apertura della sezione economica. E il suo ricordo va subito agli anni ' 70, quando due oscuri cronisti del Washington Post riuscirono con i loro reportages a far esplodere il Watergate e mandare sotto impeachment il presidente Richard Nixon. Bei tempi, appunto, quando «i giornali dettavano l' agenda per tutti gli altri media». Oggi, invece - commenta amaro l' Economist - «il business di vendere parole ai lettori, e vendere questi lettori agli inserzionisti pubblicitari, sta crollando». Persino uno come Rupert Murdoch, l' editore globale che fino a pochi anni fa definiva la carta stampata «un fiume d' oro», adesso ammette che «il fiume si sta prosciugando». E c' è anche chi ha già preparato la lapide con una data precisa. Come Philip Meyer, autore di «The vanishing newspaper» (ci risiamo con il giornale che «svanisce»), secondo il quale in America «il primo trimestre del 2043 sarà il momento in cui l' ultimo, esausto lettore getterà via l' ultimo, raggrinzito quotidiano». Una tesi quantomeno azzardata, replicano molti addetti ai lavori. Peter Kahn, giornalista da Pulitzer ed ex numero uno del gruppo Dow Jones (quello del Wall Street Journal), è da sempre convinto che il giornalismo stampato continuerà a navigare a lungo, purché sia consapevole di «rivolgersi a un' élite di pubblico intelligente», che pretende «informazioni e analisi di alta qualità». E purché «non si metta a inseguire tv e internet, trasformando le news in intrattenimento spettacolare». Ottimista sembra anche Rachel Smolkin, direttrice della American Journalism Review, che nel suo saggio «Adapt or die» vede i giornali ancora in grado di «imporre il proprio marchio» e di porsi come «motore centrale da cui espandere l' attività d' informazione verso altre piattaforme, internet o pubblicazioni specializzate». Nessuno, comunque, nega il declino. «Negli ultimi 10 anni la diffusione dei giornali è in forte calo in Usa come nell' Europa occidentale, in Australia come in Nuova Zelanda e in America latina», elenca l' Economist. In Svizzera e Olanda i quotidiani hanno già perso oltre il 50% della pubblicità. E negli Stati Uniti, secondo la Newspaper Association of America, dal 1990 al 2004 il numero di persone occupate nell' industria del settore è diminuito del 18%. Sempre negli Usa, all' alba del 2005, un gruppo di azionisti ha costretto la Knight Ridder (proprietaria di un' autentica galassia di quotidiani) a vendere tutto al miglior offerente, mettendo la parola fine a 114 anni di storia editoriale. Insomma: lo stato di grave malattia è accertato. Così come è ormai individuato il potenziale killer: non la tv, ma internet. Meglio: l' informazione via web. A rafforzare la tendenza, come spiega l' Economist, sono stati (e sono) gli stessi editori di carta stampata, con un' inesauribile raffica di errori. Esempio: il settimanale britannico la pensa come Kahn e accusa «molti editori» di «aver ignorato per anni le ragioni del declino dei giornali, concentrandosi solo sul taglio dei costi e riducendo le spese per i contenuti "giornalistici", e adesso cercano di attrarre nuovi lettori puntando sull' entertainment, sull' informazione per il tempo libero e altri generi che si supponga interessino alla gente più che gli affari internazionali o la politica». Cosa resterà alla fine? «Pubblicazioni come il New York Times o il Wall Street Journal saranno in grado, per l' alta qualità dell' informazione che offrono, di alzare il proprio prezzo di vendita e compensare così il calo degli introiti pubblicitari persi a causa di internet», pronostica l' Economist. Si salveranno, probabilmente, anche i giornali locali. Per tutti gli altri, invece, sarà dura. Una tesi che, pur con meno pessimismo, anche il Financial Times sembra appoggiare. Proprio ieri, in un commento intitolato «OldTube, NewTube» (gioco di parole fra le «condutture» per diffondere contenuti e il sito web YouTube) il quotidiano britannico ha sottolineato che «internet non sarà la fine dei media old-style». Ma, alla fine del ragionamento, arriva alle stesse conclusioni: che i giornali devono sviluppare la «qualità» di quello che offrono. E butta lì un paragone fra fra parole e cinema: «Il web non ha certo cambiato l' economia di Hollywood - osserva il giornale -. Per realizzare il Titanic serve gente che lo sappia fare e abbia 200 milioni di dollari di budget, non bastano i clip amatoriali diffusi via blog». Giancarlo Radice
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