La Rai deve ritrovare lo spirito di servizio pubblico. E la politica può aiutarla
Il servizio pubblico radiotelevisivo è ad un passaggio cruciale della sua storia. Molte volte, nella sua lunga vicenda, gli avvenimenti Rai hanno rappresentato una sorta di cartina di tornasole degli equilibri politici, dei rapporti di forza tra i vari partiti, fra maggioranza e minoranza e incarnato la capacità egemonica, o meno, di uno schieramento sul piano sociale e culturale. L’interesse diretto della politica, per le vicende interne dell’azienda, è stato certamente asfissiante e, nel contempo, anche una copertura utile a giocare partite, professionali e di potere, all’interno del gruppo dirigente aziendale, spesso immobile o disposto a ripetuti giri di valzer gattopardiani.
Oggi, però, la realtà si è complicata. Il tentativo, fatto da Berlusconi nella scorsa legislatura, di estendere e consolidare il potere comunicativo del Giano bifronte rappresentato dalla sua organizzazione (da un lato il monopolio di risorse nel settore di Mediaset e, dall’altro, il controllo politico del servizio pubblico attraverso la gestione della ex maggioranza di governo e della Presidenza del Consiglio), si scontra oggi sia con il cambio di maggioranza nel paese, sia con l’avvento di nuovi soggetti imprenditoriali nel campo televisivo, possibile attraverso le innovazioni tecnologiche e di mercato. E’ sufficiente pensare, infatti, alle novità - non certo positive - delle convergenze potenziali di gruppi come quelli di Sky e di Telecom.
Il servizio pubblico, in questi nuovi scenari, sembra aver perso la strada, smarrito la sua missione e la sua funzione, ancora oggi, invece, fondamentale. Emergono, prepotentemente, da una parte ipotesi di “normalizzazione” del suo fare azienda - di trasformazione, cioè, della Rai in azienda di tipo commerciale - o, dall’altra, di spezzettamento e conseguente privatizzazione di pezzi fondamentali necessari alla costruzione o al rafforzamento di grandi gruppi editoriali e di comunicazione. Queste ipotesi, non solo non sono contenute nel programma sottoscritto dai partiti dell’Unione, ma sono sbagliate e inefficaci. La privatizzazione di parte della Rai non andrebbe a rafforzare un nuovo polo comunicativo privato, ma ridurrebbe l’area pubblica indebolendo i settori più esposti al monopolio della pubblicità esistente nel nostro paese, come la carta stampata.
La Rai, invece, potrà continuare ad esistere solo alla condizione di trovare, di fondare, di progettare l’ispirazione di servizio pubblico nella nuova era delle comunicazioni digitali. Questo è il terreno sul quale la politica deve contribuire a produrre un salto di qualità. Le nomine, la scelta delle donne e degli uomini, sono importanti perché devono corrispondere a questa ricerca, non alla fedeltà ad una corrente o ad un partito e, nella loro complessità, rappresentare concretamente un pluralismo di idee, di culture, di linguaggi, di punti di vista.
Riflessi condizionati, invece, sembrano spingere la politica ad intervenire sugli “effetti a breve termine” e alcuni comportamenti sembrano incoraggiare una visione così miope. Un rapporto del Censis rivela, infatti, che nelle ultime elezioni politiche del 2006 il 74 per cento degli italiani si è orientato in base alle informazioni apprese dalla Tv e che, a detta dello studio, dimostra una progressiva «personalizzazione del potere, con sfumature pre-politiche, emozionali o quasi antropologiche». Il retroterra che consente tali possibilità però, a mio avviso, è il processo di sedimentazione di comportamenti e modelli di consumo che si stratificano nel tempo e sul quale il servizio pubblico in particolare dovrebbe avere il coraggio di produrre pratiche innovative. Tali pratiche, inoltre, farebbero stemperare la corsa verso alcune poltrone e renderebbero più autonome le professionalità esistenti.
Allora la vicenda delle nomine può divenire più interessante, più esplicita e trasparente. Quale è la missione che si vuole affidare a quell’incarico? Come lo si intende incarnare? Quale ispirazione porta a scegliere una persona invece che un’altra, anche all’interno di una stessa cultura o appartenenza? In altre parole, come si forma la nuova classe dirigente della Rai in un momento di così forte trasformazione dell’intero mondo delle comunicazioni? Quali curricula e quali adesioni allo spirito di servizio pubblico accompagnano i nomi di cui il CdA deve discutere? E’ sufficiente aver prodotto ascolti o è meglio aver provato a sperimentare linguaggi e forme di servizio pubblico alla ricerca di una offerta di massa? E come si costruisce il pluralismo comunicativo dentro l’intera offerta della Rai, dai canali televisivi tradizionali a quelli via satellite passando per la radiofonia, ridotta solo in Rai a forma di comunicazione minore e omologabile al punto di avere responsabilità centralizzate come per i Gr?
La riunione del CdA della Rai di martedì è, perciò, un passaggio cruciale. Non è sufficiente che la politica, come ha affermato Gentiloni, si tenga fuori, ma è necessario che indichi una inversione di rotta, la suggerisca, la sostenga e inizi a produrre comportamenti concreti in sintonia con le affermazioni di principio. Va indicata una strada, anche se difficile, tentando di impedire giochi e alleanze personali, come se la Rai non sia né di tutti e neanche di più di una semplice intrapresa privata.
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