Immagini strette tra il simbolo e la marca

Un simbolo immaginario perde irreversibilmente la sua funzione di indicare, di fare cenno a un significato, a un valore riconoscibilePer quanta legittimità possa avere l'affermazione che «tutto è immagine», non tutte le immagini hanno lo stesso statuto. Un percorso di lettura per addentrarsi nelle loro diverse declinazioni, in tempi in cui la dimensione simbolica conosce la sua crisi più profonda
17 settembre 2006
Massimo Recalcati
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Oggi, si dice, tutto è immagine. Ma questa immagine che diventa «tutto», o meglio, la moltiplicazione smisurata delle immagini che sembra ricoprire «tutto», non esigerebbe uno sguardo capace di scomporre questa pretesa uniformità? Vi sono in effetti statuti differenti dell'immagine. Intanto la ribalta contemporanea del registro dell'immaginario è strettamente legata alla crisi del simbolico nell'epoca determinata da quel che Jacques Lacan aveva chiamato, in una conferenza tenuta a Milano nel 1972, il «discorso del capitalista». Con questa formulazione anticipava gli sviluppi più recenti che hanno investito la natura del legame sociale nel tempo della cosiddetta globalizzazione. Qual era per Lacan la caratteristica principale del legame sociale strutturato dal discorso del capitalista? Che «tutto si consuma». A significare che l'illusione provocata da questo discorso risiede nel promettere una soddisfazione generalizzata, la soppressione di ogni mancanza che però produce l'apertura continua di nuove mancanze e, di conseguenza, di nuovi oggetti immaginari capaci illusoriamente di colmarle. Sino al paradosso per cui l'oggetto si rivela, nel momento stesso del suo consumo, già segnato da una obsolescenza fatale. Come in quella barzelletta di Woody Allen nella quale un tale sta uscendo da un negozio tenendo nelle mani l'ultimo modello di computer appena acquistato quando s'imbatte in un nuovo acquirente che sta precipitosamente entrando nello stesso negozio per richiedere un nuovissimo modello, così che il computer comprato dal primo è già diventato un pezzo di archeologia industriale.
Inedite declinazioni del potere
Il discorso del capitalista si struttura, sempre secondo Lacan, intorno a questa astuzia: produrre costantemente nuove mancanze attraverso l'offerta infinita di oggetti, i quali, dunque, più che rispondere a una domanda perseguono lo scopo assai più sottile di generare sempre nuove domande. È, questa, in particolare, la funzione della marca e della sua alchimia sociale. In essa i cosiddetti consumatori trovano sempre più ciò che offre non tanto un semplice oggetto di consumo, quanto un'identificazione sociale, un'identità possibile.
Il potere aggregativo della marca sembra cioè prendere il posto del comando autoritario e carismatico del padrone proprio della psicologia tradizionale delle masse, producendo identificazioni non più verticali e idealizzanti ma orizzontali e ciniche. Nell'ambito di questa inedita declinazione del potere - dal potere del padrone al potere della marca - il ricorso all'immagine appare come una possibile soluzione al disorientamento innescato dalla grande crisi del simbolico contemporaneo (della funzione normativa ed etica della Legge, del Padre, di una gerarchia definita di valori, della definizione rigida dei confini tra bene e male, tra verità e menzogna).
Più precisamente, questa crisi genera, tra gli altri suoi effetti possibili, una evidente proliferazione dell'immaginario. Anche questa tesi è sviluppata da Jacques Lacan agli esordi del suo insegnamento: quando viene a mancare il perno del Nome del Padre - ovvero la funzione di un principio normativo che installa la funzione simbolica come funzione guida per gli esseri umani - si possono verificare fenomeni di espansione disordinata dell'immaginario. Ma questo immaginario che prolifera non ha nulla a che vedere con l'immaginazione o con la fantasia, bensì con due forme prevalenti di immagini entrambe prive di dialettica. La prima forma è quella dell'immagine-narcisistica, la seconda è quella dell'immagine-marca. L'immagine-narcisistica ha come suo presupposto quella funzione che Lacan ha approfondito in modo particolare nella prima fase del suo insegnamento e che ha dato origine alla celebre formulazione dello «stadio dello specchio».
Una metamorfosi distruttiva
Il lettore italiano potrà leggere a questo proposito la conferenza dell'8 luglio del 1953, titolata Il simbolico, l'immaginario e il reale,appena edita per Einaudi (nel volumetto titolato Dei Nomi del padre e il Trionfo della religione) con la quale Lacan inaugura ufficialmente la topica dei tre registri -simbolico, immaginario e reale, appunto - per vedere come assuma il termine immaginario quale campo delle identificazioni narcisistiche che bloccano le tendenze più vitali dell'esistenza in alienazioni successive. Termini come «immagine» e «immaginazione» vengono cioè sganciati da ogni eco critica, da ogni istanza di liberazione, perché non sarebbero tanto il prodotto dell'attività creativa dell'essere umano, quanto ciò che la imprigiona e la mortifica. Non a caso, rispondendo a un suo interlocutore nel dibattito che ha seguito la conferenza, Lacan afferma che se ci si vuole accostare all'immaginario, uno dei «modi più accessibili è quello della riproduzione artificiale». Per questa ragione egli potrà descrivere il percorso di un'analisi come una «simbolizzazione progressiva dell'immaginario», una «disalienazione» dall'immaginario, uno scioglimento delle identificazioni narcisistiche entro le quali la vita del soggetto rischia di perdersi, un processo di disidentificazione del soggetto (je) dalla falsa autonomia dell'io (moi). Allora per Lacan - siamo negli anni Cinquanta - il riferimento fondamentale era la clinica delle psicosi, la quale mostrava come la non efficacia della funzione simbolica colpita da forclusione apriva le brecce a un inondamento di immagini narcisistiche, connotate da una maligna carica mortifera. Ma spostando la prospettiva dalla clinica al campo del legame sociale, si può pensare che, come accade nelle psicosi, quando vacilla il mondo della Legge (delle norme e dei valori che orientano simbolicamente una civiltà), il rischio è sempre quello della emergenza di un reale distruttivo e di uno scatenamento dell'immaginario nella sua confusività narcisistica, che non integra i confini, le differenze, le discontinuità, ma misconoscendole, semplicemente le ignora, le nega.
Funzioni puramente identitarie
L'immagine-marca indica e definisce una sorta di irrigidimento dell'immagine, di privazione di ogni sua risonanza emotiva. Si tratta di quelle immagini che intasano il nostro spazio mentale e che, pur nella loro infinità varietà fenomenica, si caratterizzano per una strano «fondo» comune: sono autoreferenziali, non rinviano ad altro che a se stesse. È quel qualcosa che costituisce probabilmente il tema centrale del lavoro artistico di Andy Whorol, laddove riduce la potenza virtuale dell'immagine in una sua moltiplicazione anonima e cinicamente apatica; o è quel che possiamo incontrare negli adolescenti come tratti identificatori capaci di definire la possibile appartenenza a un gruppo: sono questi i temi privilegiati dall'ultimo libro di Fulvio Carmagnola titolato Il consumo delle immagini(Bruno Mondadori, 2006). Una delle sue tesi maggiori concerne proprio l'idea che una sorta di metamorfosi abbia attualmente investito il concetto di «immagine». Più precisamente, si affermerebbero nell'attualità «simboli immaginari», o se si preferisce, vi sarebbe un uso «immaginario delle immagini» tale da separare l'immagine da ogni forza vitale per ridurla al rango di semplice marca che rinvia solo a se medesima. Questo uso immaginario delle immagini - è un'altra tesi dell'autore - si distingue profondamente da un loro possibile uso simbolico il quale mantiene invece l'immagine come ponte verso l'altro da sé. Se la sfera politica o quella religiosa preservavano questa dimensione eterologa dell'immagine, nell'epoca della crisi del simbolico (della «perdita del sacro», del declino «dell'aura» o della «post-politica» per usare altri modi di dire la stessa cosa), l'immagine ridotta a marca finisce per irrigidire feticisticamente in se stessa una dimensione simbolica ormai smarrita. È il caso, ci ricorda Carmagnola, di immagini come quelle del Che stampato sulle t-shirt, dell'orecchino a forma di croce diffuso da Madonna, degli angioletti di Fiorucci, ovvero di immagini che non significano più niente al di là del loro valore di marca mediale, di puro non-senso. In questa prospettiva, per usare le parole di Carmagnola, un simbolo immaginario è un simbolo che perde irreversibilmente «la sua funzione di indicare, di fare cenno a un significato, a un valore riconoscibile. La sua funzione di rappresentanza diventa opaca, intransitiva o indifferente, indiscernbile, e la stessa domanda sul significato ('che cosa significa quello che vedo, che mi sta davanti?') diventa irrilevante per l'utente».
La proliferazione attuale di questo genere di immagini non corrisponde affatto a un ritorno spaesante del reale nell'epoca della crisi del simbolico e della sua funzione normativa - come invece sembra indicare la sociologia radicale di Zizek, che pure Carmagnola evoca come un suo riferimento teorico - ma indica, al contrario, una modalità perversa di negazione nei confronti dell'alterità del reale, un trattamento solo immaginario di quell'emergenza del reale (il vuoto di senso, l'abisso, il terrificante, lo spaesamento...) che lo sfaldamento del simbolico contemporaneo amplifica. In questo contesto la ripetitività seriale dell'immagine-marca appare come sconnessa dall'inconscio: una tra le tesi di Lacan sulla perversione è che il perverso rigetta l'esperienza del conflitto psichico, dunque dell'inconscio come tale, nel senso che essa ritorna non come immagine che sconcerta, che spiazza provocando effetti perturbanti (come accade per le immagini di un sogno particolarmente enigmatico) ma come espressione degradata del declino dell'immagine-aura, del suo tramonto irreversibile. Dunque, come un'immagine già costituita, già conosciuta, già vista.
Esiste però un'altra possibile declinazione della funzione dell'immagine che risulta irriducibile sia all'immagine-narcisistica, sia all'immagine-marca. Attraverso la lettura di quel geniale storico dell'arte e padre dell'iconologia contemporanea che è Abi Warburg e del suo tormentato percorso, Didi-Huberman, in uno straordinario libro titolato L'immagine insepolta(Bollati Boringhieri, 2006), giunge a formulare una idea dello statuto dell'immagine diversa sia da dall'immaginario lacaniano, sia dalle metamorfosi della funzione dell'immagine nell'epoca del discorso del capitalista, studiate con precisione da Carmagnola. Intanto, l'operazione base del Warburg utilizzato da Didi-Huberman consiste nel porre il tempo dell'immagine come un tempo irriducibile sia a quello del particolarismo biografico del loro autore (per esempio la vita degli artisti di Vasari, ma anche certe disgraziate applicazioni della psicoanalisi cosiddetta ortodossa all'arte) sia a quello hegeliano della storia universale, che inghiotte nel suo ventre ogni particolare. In secondo luogo, l'immagine per Warburg non è affatto in opposizione al simbolico, come l'ideologia è, secondo il lacanismo di Althusser, in opposizione alla scienza (marxista), o come l'immagine-narcisistica è in opposizione all'azione del simbolico in Lacan. Piuttosto essa si configura come un luogo eminentemente culturale, come un «fenomeno antropologico totale», che ha il potere di condensare efficacemente lo spirito proprio di una intera civiltà. La parola chiave è Nachleben, «sopravvivenza».
Quando l'antico viene dopo il recente
Il tempo delle immagini è il tempo di una sopravvivenza. Ma cosa è in gioco in questa «sopravvivenza»? È in gioco innanzitutto un modello temporale che si oppone alla concezione rettilineo-evolutiva del tempo storico. L'azione dell'immagine che non si lascia seppellire è quella di «anacronizzare» la storia: essa risulta sfasata, disarticolata, disorientata dal sedimento sopravvivente che può far sì, come scrive lo stesso Warburg, che «le cose più antiche vengano a volte dopo cose meno antiche» (come avviene nel ritorno imprevisto di motivi geco-romani negli stilemi del rinascimento o quando egli scopre sopravvivenze di un'antica e sepolta astrologia araba sui muri di una palazzo del rinascimento ferrarese).
Qui l'incrocio con la psicoanalisi si impone nuovamente. Il suo insegnamento non ci dice forse come le cose che appaiono morte da tempo immemorabile possano essere in realtà le più vive e sospingerci pericolosamente a ripeterle senza tregua? Qualcosa in latenza - ecco il potere della sopravvivenza - spettro o fantasma che sia, bussa incessantemente alla nostra porta. Lo straniero ci appartiene direbbe Freud, non esita ad appartenerci. Il problema è che le impronte del passato non si possono mai cancellare del tutto. Il passato non è chiuso in un baule a cui la memoria renderebbe possibile l'accesso. Per questa ragione, secondo Freud, la rimozione è un processo necessariamente fallimentare; esso non può allontanare il passato una volta per sempre, perché il rimosso tende per la sua stessa struttura a ripresentarsi.
Quando Lacan ha prelevato e ridato importanza cruciale al termine freudiano Nachträglichkeit, traducibile in italiano con «retroazione» o «a posteriori», lo ha fatto per illustrare la stranezza dell'archeologia di Freud: non c'è un passato che si deposita in modo inerte alle nostre spalle, ma vi sono stratificazioni successive, spiraliformi, di modo che il passato può acquistare significato solo a partire dalle nostre progettualità future, solo dal nostro avvenire, a posteriori, retroattivamente; come quando, parlando o scrivendo, è la scelta dell'ultima parola a chiudere la frase dandole senso nella sua interezza, conferendole significato retroattivamente. Non c'è dunque una origine a cui risalire ma un passato che non si è ancora realizzato. Come direbbe Bion, il problema non è nel trauma originario, inteso come qualcosa di già avvenuto, e nei suoi eventuali effetti, ma in ciò che non è ancora stato pensato, in ciò che non è ancora avvenuto.
In questo senso, fa notare Didi-Hubermann, la «verità classica» - secondo Warburg - si svela meglio retroattivamente «in Donatello, in Rembrandt, persino in Manet, che in uno stato di purezza arcaica che si rivela, in tutti i modi inesistente.»
Una questione di vita più che di gusto
Cosa significa allora un'immagine che sopravvive? Qual è il suo significato? La direzione presa da Warburg è perentoria. Il valore di un'immagine non consiste nel suo significato, un'immagine non è lì per essere decifrata. Diversamente dalla ricerca del suo più prestigioso allievo Panofsky, ispirata al tema del significato simbolico delle immagini, quella di Warburg più nietzschianamente si concentra sulla «vita», sulla potenza evocativa, sulla forza intrinseca delle immagini. Come per Nietzsche anche per Warburg, l'arte non è una questione di gusto ma una questione vitale, che ci implica direttamente. E come per la filologia del giovane Nietzsche alle prese con i misteri relativi alla nascita greca della tragedia e all'opposizione tra Apollo e Dioniso, anche la storia dell'arte non può limitarsi all'asetticità del sapere universitario, alla semplice classificazione delle immagini del passato, le quali vengono osservate senza cogliere, come direbbe Lacan, ciò che dell'immagine ci guarda, ciò che di quella immagine ci concerne.
Per questo, come ricorda puntualmente Didi-Huberman, l'immagine è vitale non tanto perché si può scomporre nei suoi significati simbolici trovando così la soluzione del rebus che essa incarna, ma proprio perché è in grado di « produrre un rebus». Dunque, la raffigurazione plastica di un'immagine non significa - precisa sempre Didi-Huberman - che «un'idea astratta abbia trovato la sua brava metafora visiva o la sua immagine letteraria. Vuol dire che un'energia ha preso corpo per sedimentazioni di tempo, che si è fossilizzata pur conservando tutto il suo potere di muoversi, di trasformarsi.» Questa facoltà è la facoltà metamorfica dell'immagine, ovvero la sua forza trasformativa, la sua intrinseca plasticità. Se allora la sopravvivenza indica l'incidenza del passato indimenticabile, la plasticità delle immagini consiste nel loro possibile sciogliere di continuo questo motivo di fissazione nella creazione di sempre nuove immagini. È ciò che Nietzsche chiamava «l'eroismo della creazione». Non dimentichiamo che in Freud stesso la dialettica tra fissazione e plasticità, tra passato e avvenire, è al centro di un concetto fondamentale com'è quello di sublimazione al quale la psicoanalisi riconduce il mistero della creazione artistica e, più in generale, la capacità di utilizzare la spinta della pulsione per realizzazioni sociali inedite rispetto allo schema della ripetizione.

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