La strada di Abilene
Grande agitazione della politica, e assai strumentale, attorno all'ennesimo affare Telecom, e grande diluvio di opinioni liberiste, con elogi spropositati al mercato che si autoregola: «Fermiamo il dirigismo» esclama Luca Cordero, proprio lui che spiccò il volo gestendo per conto dello stato i mondiali di calcio del '90. Ma dove mai, quando mai? Quale mercato? Con qualche veritiera malignità La Repubblica si è chiesta se Guido Rossi vorrà tutelare solo il 18 per cento con cui i Tronchetti-Benetton controllano Telecom oppure (e anche) il restante 80 per cento. Sul tutto poi viene agitato quel fantasma inesistente, che un disastroso e incolto senso comune, dilagante anche nel centrosinistra, chiama statalismo, Iri e Iretto (Rutelli), partecipazioni statali, intervento del governo nell'economia. Nel parossismo berlusconiano, un tipo che notoriamente ama le esagerazioni, diventa addirittura esproprio.
Ma parliamo di cose serie, per favore e cioè della domanda decisiva su cui sarebbe utile che il governo riferisse al parlamento: è l'Italia all'altezza dei bisogni di telecomunicazione necessari a un paese avanzato? C'è qualcuno nella Confindustria, nei ministeri o nei partiti che si sta ponendo l'obbiettivo di fare come la Corea del sud o la Finlandia? O almeno come l'Inghilterra? Queste sono state finora le nazioni più avanzate nel dotare il famoso sistema paese di infrastrutture di comunicazione larghe (quanto a banda) e diffuse su tutto il territorio. Nella primavera scorsa, un ministro sud coreano, invitato dall'allora ministro Stanca, fece vedere a Roma i videogiochi interattivi che correvano sulla sua broadband, e i risolini in sala degli industriali e dei politici presenti si sprecarono: tanta fatica per videogiocare? Ovviamente la Corea non mette in rete soltanto i giochi (che peraltro sono un'industria dai grandi fatturati e un tassello fondamentale della narrazione collettiva), ma tutte le virtù di una connessione veloce, al servizio dei bit di affari e di comunicazione sociale. Delle sue industrie, delle sue scuole e persino dei cittadini, se non dispiace.
Quale sia il progetto Italia per questi orizzonti nessuno dice. Non l'ha detto Tronchetti che ha solo delineato un'architettura finanziaria e di strutture societarie(per risolvere un suo legittimo problema) e chissà se lo dirà Guido Rossi, dopo che avrà placato le ansie degli investitori e delle banche creditrici. Malgrado lo «scandalo» agitato dai finti ingenui, andrà persino apprezzato che il lobbista principe di Telecom Italia, Riccardo Perissich, e il consigliere di Prodi, Angelo Rovati, si parlassero, discutendo di tutti i possibili scenari di quel problema. Lo facevano e fanno anche Fedele Confalonieri e Gina Nieri di Mediaset. Trattano eccome. Ma che questa consultazione avvenga è utile, e ancora di più che se ne conoscano i temi, senza aspettare intercettazioni o scoop pilotati. Si scelgano i luoghi e si pubblichi tutto. E malgrado le vesti stracciate di Francesco Giavazzi, una delle ipotesi serie che un serio paese capitalista come la Corea o gli Usa possono valutare e del caso utilizzare, è quella di supplire lui stato, anche con i suoi soldi e con i suoi strumenti, alla carenze dell'imprenditoria privata nella capacità di investire per il futuro comune. La storia dell'Internet americana è questa: essendo evidente ai governanti, pur così liberisti, che da lì poteva venire una grande leadership mondiale, essa venne finanziata dal Pentagono prima e dal sistema universitario poi finché non fu abbastanza matura da lasciarla al mercato. Lo stesso sta avvenendo con la famosa Internet2, dal fantasioso nome di Abilene. I modelli americani, coreani, inglesi, sono diversi e ognuno forse vale solo nel suo contesto, ma esplorare la strada di una mano pubblica attiva per un bene pubblico non solo ha senso, ma è obbligatorio, specialmente quando il privato non ce la fa perché deve ancora tamponare i debiti della sua seconda telecom-scalata.
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