Malgrado la sua arroganza debole (non c'è nulla di peggio che esibire i muscoli e poi non reggere) Romano Prodi, dopo gli arresti di ieri, ha qualche elemento in più per ricordare ai deputati che le reti di telecomunicazione sono un assetto pubblico troppo importante perché un governo (un qualsiasi governo) se ne possa disinteressare. Non solo di posti di lavoro si parla (importantissimi), né soltanto di debiti e fatturati e nemmeno solo di discutibile italianità, ma di quegli strumenti, essenziali come l'acqua e persino più delle ferrovie, attraverso i quali circolano sia gli affettuosi messaggini che le transazioni miliardarie, le soap opera come le notizie di Google.
Gli arresti decisi a Milano concludono (per ora) delle indagini di cui, grosso modo e per fortuna, sapevamo già molto, specialmente grazie ai giornalisti dell' Espressoe della Repubblica, verso i cui computer la procura di Brescia ha emesso prima un sequestro e poi un ordine di copiatura file per file, in spregio a deontologia e diritto all'informazione. In spregio anche al codice, sembrerebbe. Non si sono raccolte finora vigorose proteste e solidarietà da parte degli avvocati Ghedini e Pecorella.
Dunque ci viene ricordato che personale dirigente e non diligente di Telecom Italia, usando le attrezzature dell'azienda, copiava tabulati alti un palmo, o direttamente intercettava. Lo faceva, sembra di capire, lasciando il lavoro sporco a un service privato, un'agenzia di investigazioni fiorentina dal nome ridicolo, la quale lavorava per clienti diversi, nei campi più disparati, dal campionato di calcio ai pneumatici, dai politici ai giornalisti. Il massimo dirigente della sicurezza, mister Tavaroli, venne lasciato al suo posto per troppo tempo da Telecom Italia, anche quando i dubbi sulla sua correttezza erano più che noti. In seguito la stessa società prese le distanze dai «dipendenti infedeli», dicendosi vittima di un attacco mediatico immeritato, ma in un'audizione in parlamento i suoi dirigenti hanno lasciato intendere che lo tennero in organico perché qualcuno glielo aveva chiesto insistentemente. Dovrebbe essere agli atti, ancorché secretati.
Insomma, un groviglio che forse nemmeno i magistrati riusciranno mai a chiarire, ma la cui lettura sociale è evidente: nel bene come nel male, le reti sono un'utilità pubblica. Nel bene, per far girare la comunicazione, nel male per controllarci (l'ultima trovata è quella delle telecamere di strada per vigilare sulle prostitute e i loro clienti). Ingenue propagande a parte, il quasi default di Telecom, pone a tutti il problema di una rete fissa e mobile che sia al nostro servizio, con robusti azionisti privati e pubblici. Non ha da essere la nuova Iri, possono essere le molte utilities locali, assai dotate di cavi, condotte e cavidotti, le fondazioni bancarie già si avanzano, Mediaset accenna: con tutti si parli liberamente all'interno di una cornice fatta di obiettivi chiari, che tocca a un governo lungimirante proporre a un parlamento un po' meno politicante eventualmente approvare. Non usiamo l'espressione «obiettivi strategici» e meno che mai «politica industriale» per non irritare i professori Zingales e Giavazzi, gli ultimi rimasti a sostenere un liberismo che nemmeno a Chicago. Ma soprattutto perché non si tratta solo di industriale ma di vita civile.
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