Manifesto degli editori, l'ombra dell'economia sul libro
L’Italia è uno dei paesi europei in cui si legge di meno. In genere si tira la croce addosso alla scuola. Ma le cose sono più complesse, e hanno radici remote. In Italia è mancata da sempre una borghesia forte e colta, amante della lettura. Inoltre la tradizione della Controriforma ha allontanato dal rapporto diretto con il libro, e persino con i Vangeli (a contare, infatti, deve essere la mediazione del sacerdote), mentre quella della Riforma ha incoraggiato la libera lettura e l’interpretazione personale dei testi sacri. Anche oggi, andando a Londra o a Toronto, a Copenaghen o a New York, capita spesso di incontrare sulla metropolitana passeggeri che leggono Kafka o Dostoevskij; in Italia, come si sa, in treno o a casa, si legge tutt’al più la Gazzetta dello sport.
Una politica rivolta a far crescere la domanda di lettura, quale quella richiesta dagli editori, è dunque auspicabile. Qui però nascono vari problemi, neppure sfiorati nel punto 4 delle richieste, in cui si accenna, fra l’altro, all’apertura di nuove librerie. In realtà il condizionamento sulle librerie dei grandi editori è schiacciante. Gli editori piccoli e medi non riescono neppure a farsi vedere. Allo strozzamento rappresentato dalla diffusione (controllata anch’essa dalla grande editoria e, dati i costi, interdetta di fatto a quella minore) si aggiunge infatti il controllo sulle librerie, nonché sulla informazione libraria della stampa e della televisione. La catena di potere economico e politico che unisce grande editore-TV-stampa quotidiana e settimanale-librerie non lascia scampo. La libera concorrenza è dunque un miraggio, mentre molta produzione di qualità (per esempio, in campo artistico e saggistico) affidata al piccolo editore è destinata a restare sconosciuta a tutto vantaggio del grande editore che spesso della qualità si disinteressa totalmente per puntare solo sul profitto immediato (la storia del best seller all’italiana è da tale punto di vista assai istruttiva).
Per quanto riguarda lo sviluppo editoriale (proposte 6-9) si accenna alla collaborazione fra università e imprese. Questa è già in atto, seppure in misura nettamente inferiore che in altri paesi occidentali. Presenta sicuri rischi e qualche potenziale vantaggio. Può aiutare la ricerca quando vi sia una convergenza di obbiettivi ma può anche condizionarla e subordinarla a esigenze di profitto che non hanno nulla in comune con la sua libera dialettica. Si può arrivare per tale via anche ai pesanti condizionamenti che l’impresa esercita (e ancora più in futuro vorrebbe esercitare, come ha informato la stampa qualche giorno fa) sulla ricerca negli Stati Uniti, influenzandone in modo decisivo - attraverso finanziamenti, assunzioni, acquisto dei libri e adozioni dei medesimi - gli ambiti e le direzioni di sviluppo. In Italia fu il primo governo Prodi e il ministro dell’istruzione e della ricerca Berlinguer a immaginare addirittura che il modello dell’industria e della impresa venisse assunto dalla università; fu allora che si cominciò sciaguratamente a parlare di università-azienda, di presidi manager, dello studente quale imprenditore di se stesso e di altre risibili amenità. La pretesa di ridurre l’uomo intero a uomo economico - questa utopia del capitalismo settecentesco - ignorando che la scuola, la sanità, la giustizia hanno fini diversi, questo zelo di neofiti americanizzati (ma in America alcune grandi università conservano tradizioni di serietà e persino di austerità, e una difesa del loro prestigio, del tutto ignote nel nostro paese) ha già prodotto troppi danni. Solo se la università e la ricerca potranno svilupparsi nella loro piena autonomia, secondo la dialettica propria di tali istanze, le convergenze con il mondo economico e produttivo potranno essere utili tanto agli studi quanto alle loro applicazioni pratiche.
Un atro aspetto controverso è rappresentato dal punto 8 che vorrebbe estendere la logica di mercato alla produzione dei contenuti nel mondo della scuola e della università. E’ singolare che tale richiesta venga da editori che da tempo hanno cessato di rischiare sul mercato e che ormai pubblicano libri di saggi destinati al mondo universitario solo se già prepagati dalle università stesse, riducendosi così di fatto da editori a semplici stampatori su commissione. E d’altra parte il controllo sui contenuti culturali e formativi e sulla loro produzione è troppo delicato perché venga lasciato nelle mani di imprenditori che tendono unicamente al profitto e che talora sono anche proprietari di televisioni e uomini politici di primo piano.
Si torna così al punto di partenza del nostro discorso. Come in altri settori della imprenditoria, anche in questo si invoca la libera concorrenza solo per accaparrarsi altre fette di mercato, ma poi ci si guarda bene dal realizzarla quando si occupano posizioni di potere di fatto monopolistico (in Italia quattro o cinque editori controllano l’80% del mercato)
Una politica del libro, va bene. Ma deve essere, appunto, una politica. Una cosa è incoraggiare la lettura, un’altra i profitti. Fra le due cose si può auspicare una convergenza, ma bisogna vigilare anche perché la seconda non finisca per determinare le sorti della prima. Una politica del libro non può essere semplicemente una sua subordinazione a quella del mondo economico-produttivo.
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