spionaggi

Imprese globali col «vizietto»

28 settembre 2006
Sarah Tobias
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Tra i controllati dalla squadra Tavaroli-Cipriani sembra dunque ci fosse anche il giornalista Massimo Mucchetti. Già importante firma economica dell'Espresso, egli è da qualche anno al Corriere della Sera, dove continua il suo lavoro meticoloso di analisi dei bilanci delle aziende. Come tale Mucchetti si è occupato diverse volte, sempre in maniera documentata e mai faziosa, ma talora anche critica, di Telecom Italia. E' per questo che è finito sotto esame? Fu un'iniziativa del volonteroso Tavaroli che pensava di rendersi utile in questo modo al suo datore di lavoro? E' una domanda da fargli. Certamente Tronchetti Provera non avrà gradito che nel giornale di cui è azionista uscissero argomenti critici, ma «questa è la stampa bellezza», e la libertà di scrittura di Mucchetti va a onore dei direttori che l'hanno garantita.
Se la cosa può consolare, cose del genere capitano purtroppo anche in America, a conferma che questo è un mondo globale e che la stampa può essere fastidiosa e indigesta per le imprese. Succede dunque, laggiù in California, che una storica casa di computer, la Hp (già Hewlett Packard) si trovi coinvolta in un caso di spy story a danno dei giornalisti. In due operazioni successive, chiamate Kona I e Kona II, tra il 2005 e il 2006, i vertici della società commissionarono a studi legali e agenzie investigative un lavoretto sporco. Si trattava di scoprire chi, dall'interno dell'azienda, parlava con i giornalisti di Business Week, del Wall Street Journal e di Cnet, un famoso sito internet di notizie hi-tech. Le confidenze, a ben vedere, non erano particolarmente gravi, né contenevano notizie così segrete. Si riferiva per esempio che in gennaio il consiglio di amministrazione aveva discusso, in un seminario chiuso all'Esmeralda Resort, di come trasformare l'azienda. Sai che scoop.
Durante le indagini vennero anche ottenuti i numeri della Social Security di 4 giornalisti e di 3 consiglieri, usati poi per ottenerne illecitamente i tabulati telefonici. La tecnica era quella del cosiddetto pretexting, che consiste nel fingersi qualcun altro e chiedere per telefono informazioni su altre persone, magari il loro numero di cellulare o cose del genere. Con questa tecnica qualcuno aveva telefonato all'azienda telefonica At&t e, fingendo di essere la giornalista Dawn Kawamoto e il dirigente Tom Perkins, membro del consiglio di Hp, aveva potuto accedere all'elenco delle loro telefonate nei mesi precedenti. Un altro sistema, tentato senza successo, prevedeva l'uso di e-mail taroccate: si manda a un giornalista un documento che contiene, nascosto, un piccolo software il quale dovrebbe segnalare al mittente se quel testo è stato girato ad altri, e a quale indirizzo. Malgrado Hp sia una rinomata azienda di computer, il trucchetto si impallò e non diede i risultati voluti. Nelle operazioni attivata anche l'agenzia responsabile della sicurezza Hp, la Security Outsourcing Solutions - qualcosa di simile alla nostrana Polis d'Istinto del signor Cipriani.
Queste attività erano state volute direttamente dalla presidente del consiglio di amministrazione Patricia Dumm, la quale nelle settimane scorse si è infilata in un penoso tunnel di mezze conferme, fino a essere costretta alle dimissioni. La linea difensiva era del tipo: ho chiesto a uno dei nostri studi legali di indagare, quello si è rivolto a degli investigatori privati, ma io non ho mai saputo né chiesto che si usassero tecniche illegali. Non ha retto tuttavia di fronte ai fatti e alle testimonianze. Quanto al pretexting, lo studio legale Wilson Sonsini Goodrich & Rosati, uno dei più rinomati della Silicon Valley, ha virtuosamente sostenuto che sia lecito (segue parcella).
Le inchieste sono condotte dalla Sec, commissione di controllo sulla borsa, dal procuratore generale della California e da agenzie federali e hanno finito per coinvolgere anche il chief executive officer di Hp, Mark Hurd, che venerdì scorso si è offerto a una «conferenza stampa». Le virgolette sono d'obbligo perché parlò solo lui, senza che alcun reporter potesse fare domande. La registrazione audio del suo intervento è disponibile anche in rete (http://podcast-files.cnet.com/podcast/092206_hp_leaks_01.mp3) e questo è un buon esempio di libertà di stampa. Ma cosa ha riferito, difensivamente, Mark Hurd? Secondo la stessa Cnet si è trattato di «una delle più imbranate autocritiche immaginabili». «Non ha detto niente, ma l'ha detto molto bene», ha scritto il New York Times. Il capo della Hp ha sostenuto che l'indagine interna era doverosa, perché le fughe di notizie nuocciono alla reputazione dell'azienda, che lui era a conoscenza dell'inchiesta organizzata da Patricia e che veniva aggiornato sugli sviluppi sia con delle mail interne che con dei rapporti più voluminosi, ma «non ho avuto il tempo di leggerli». Infine una deliziosa curiosità. Hp è sponsor del Privacy Innovations Awards, premio annuale per gli innovatori nel campo della privacy. E sul fatto che abbia innovato non ci sono dubbi.

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