L'omaggio fuori tempo del «Time»
Tutti l'abbiamo letto, fin dai primi lanci stampa di sabato notte (Upi, ore 9.30 di Greenwich): un tutti noi, è stato proclamato persona dell'anno dal settimanale «Time». A conferma che il web è veloce e la stampa lenta, sui giornali di carta il fatto è arrivato soltanto ieri. Sul «manifesto», altrettanto inevitabilmente, solo questa mattina, il che consente, però, di leggerlo con qualche distacco.
La scelta di «Time» è un omaggio a tutti quelli che non solo leggono, guardano e ascoltano le pagine dell'internet, ma anche le alimentano con i loro pensieri, in forma di parole orali, immagini o suoni. Come accade per i Nobel, che premiano molti anni dopo un progresso fondamentale delle scienze, anche questo omaggio arriva in grande ritardo. Che qualcosa di importante stesse succedendo dal basso, grazie alle tecnologie di comunicazione digitale, era ben evidente, a qualsiasi giornalista di media curiosità almeno dal 1992. In quell'anno infatti si svolse a Rio il Summit della Terra (United Nations Conference on Environment and Development). Quell'evento, che avrebbe prodotto più tardi il protocollo di Kyoto e la Convenzione sulla diversità biologica, venne preparato dalle molte organizzazioni non governative con un'intensa elaborazione collettiva transnazionale, realizzata con posta elettronica e trasferimenti di file su e giù per il pianeta. Il web ancora non era nato come fenomeno di massa, ma c'era già molto del fenomeno che esso oggi rappresenta. Sociale e planetario, si badi bene, non tecnologico.
Contrariamente a quello che il settimanale americano scrive, parlando di una seconda ondata, un Web 2.0, l'idea c'era già tutta anche nelle parole dell'inglese Tim Berners-Lee, ideatore del world wide web nei primi '90: «Avevo (e ho) un sogno, che il web potesse essere meno un canale televisivo e più un mare interattivo di conoscenza condivisa. Immagino un caldo e amichevole ambiente fatto delle cose che noi e i nostri amici abbiamo visto, sentito, creduto o immaginato. Mi piacerebbe che rendesse più vicini i nostri amici e colleghi, sì che lavorando insieme su questa conoscenza, possiamo ricavare una migliore comprensione».
Capita talora che anche le utopie si realizzino, il che tra l'altro dovrebbe smentire tutti i realisti riformisti (i Fassino, per dirne uno a caso) secondo cui «bisogna andarci piano, la gente non capirebbe, sarebbe bello ma non si può». E fare arrossire le Apple, le Ibm e le Microsoft che di fronte a quel sogno dissero: «dov'è il beef?», inteso come il business. Clamorosamente una cosa nata un po' per caso (con fondi militari, ma non per fini militari - quante volte occorrerà smentire questa fasulla leggenda?) ha portato anche dollari, e tantissimi, a chi ci ha creduto e ha percorso creativamente quella strada e probabilmente questo fatto molto materiale ha spinto la direzione di Time a scegliere ruffianescamente tutti noi come protagonisti dell'anno 2006.
L'idea gli deve essere scattata nell'ottobre di quest'anno, quando Google, un'azienda web che vale 147 miliardi di dollari, ha acquistato YouTube per 1,65 miliardi, un servizio web per caricare e scaricare filmati che non aveva ancora fatto un centesimo di utili. «Allora questo web» è una cosa seria, si devono essere detti.
Per illustrare quel «siete voi» la rivista americana ha fatto comparire una successione penosa di fighetti, finti giovani alternativi, casalinghe al computer, ragazze con la pancia fuori e le cuffiette, un'idea di people da agenzia pubblicitaria anni '70. Il che conferma quanto distante sia la percezione della stampa tradizionale dalla realtà delle cose. Che è fatta anche di cose orribili, che succedono nel web come nella vita, ma soprattutto è un terreno di conflitto assai acceso tra chi le tecnologie le vuole usare per prendersi la parola che non ha mai avuto e chi lo considera solo un modo per riproporre conoscenza-merce, ancorché vestita di bit (e di copyright).
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