Di chi è la stampa, bellezza? Industrie, banche e voglia d'antitrust
Precari e flessibili. Più in nero che in regola. Pagati poco e saltuariamente. I giornalisti dell'anno 2006 - per lo meno nella fascia delle nuove leve - somigliano tanto ai loro colleghi che entrano nel mondo del lavoro industriale. Sarà perché comune è la controparte: il padrone, in altri termini, che in Italia ha una caratteristica ormai consolidata e non scalfita negli anni, ossia la contemporanea presenza nel settore industriale e in quello editoriale. E' la vecchia, annosa questione dell'assenza dell'«editore puro». Questione che è tornata di attualità con le vicende del Corriere della Sera dopo la calda estate della tentata scalata dei «furbetti del quartierino» e dopo il libro-denuncia del suo vicedirettore Massimo Mucchetti, intitolato «Il baco del Corriere». E che è stata posta anche dal vicepremier Massimo D'Alema che, in una recente intervista con il Sole 24 Ore, ha buttato lì l'idea di introdurre anche in Italia una normativa antitrust che vieti l'intreccio tra editoria e industria (e, a maggior ragione, tra editoria e banca).
Lo stato delle cose è riassunto in due numeri impressionanti, citati dall'economista Luigi Zingales in uno scritto di pochi anni fa: se la presenza di interessi industriali nei primi cinque grandi giornali è pari al 30% nella media internazionale, in Italia raggiunge il 100%. Ossia: i primi cinque grandi gruppi editoriali, quelli che editano i primi cinque giornali, sono tutti di proprietà di soggetti che nella vita fanno anche altro. E nell'«altro» c'è di tutto: automobili, energia, immobili, assicurazioni, cliniche, case di riposo, e banche. La novità degli ultimissimi tempi è proprio nel ruolo preponderante delle banche - che, così come hanno aumentato il loro peso in tutta l'economia reale, hanno allungato gli artigli anche sui giornali. Tornando alla impietosa classifica fatta da Zingales, vi si legge che, quanto a presenza dell'industria nei giornali, siano in linea solo con altri due paesi dell'area Ocse: Cile e Singapore.
Come ciò sia potuto accadere, è scritto nella storia dell'economia italiana e anche della politica. Da un lato, la concentrazione dei gruppi industriali ha fatto sì che fosse «concentrata» anche la proprietà dei giornali, dall'altro, l'abnorme emersione del duopolio televisivo e, poi, lo sbarco di Mediaset in politica hanno fatto sì che tutta l'attenzione pubblica si rivolgesse alla separazione (eventuale) tra controllo della tv e controllo dei giornali. Dalla Mammì in poi, tutte le leggi e le proposte di legge - nonché i referendum - si sono concentrate sul caso-Berlusconi. La questione del rapporto tra imprese editoriali ed imprese «altre», e del loro impatto sulla trasparenza e correttezza dell'informazione, è così passata in second'ordine. In altri paesi, invece, ci sono norme specifiche che regolano l'intreccio proproetario tra mezzi di informazione e industrie, regole che - insieme a differenti tradizioni industriali - spiegano perché gli editori «impuri» siano meno presenti o addirittura assenti.
Sull'antica questione della «purezza» dell'editore è poi piombata, nel caso italiano, l'evoluzione dei rapporti banca/impresa. Lo ricorda il vicedirettore del Corsera Mucchetti: «La presenza delle banche nel capitale delle imprese editoriali era, sostanzialmente, vietata fino al '93 in ottemperanza della legge bancaria del '36 (..) che decretava la separazione tra banche e imprese», spiega Mucchetti in un'intervista sul sito www.lavoce.info, ricordando che tale divieto valeva «a maggior ragione» per le imprese editoriali. Con la caduta della barriera tra banca e imprese, e con il passaggio, che sta avvenendo, «a un regime liberalizzato», la stampa rischia di cadere nel controllo «del potere più forte dell'economia», più forte del padrone solitario perché non controlla una sola impresa ma un complesso di imprese. «Oggi non c'è ancora un'emergenza», ma presto potrebbe esserci: pensiamoci per tempo, conclude Mucchetti.
La questione, sebbene sottotraccia, accompagna in questi mesi la durissima vertenza contrattuale dei giornalisti. Forse la presenza di qualche editore «puro» di rilievo aiuterebbe la soluzione della vertenza, forse potrebbe aprirsi una piccola breccia - o forse no, non abbiamo la controprova. Quel che è certo è che, negli stessi anni nei quali si configurava il nuovo volto del «padrone in redazione» (titolo del famoso libro di Giorgio Bocca, di parecchi anni fa), cambiavano i connotati anche i suoi bilanci, e il lavoro dei giornalisti «puri» veniva a pesare sempre meno sul risultato finale. Com'è noto a tutti i frequentatori delle edicole che - a meno che non siano acquirenti «puri» del manifesto - sborsano più soldi per i prodotti collaterali allegati al giornale che per la «materia prima». La percentuale di ricavi derivanti dalla vendita di prodotti collaterali, secondo gli ultimi dati dell'Auturità delle comunicazioni, è pari quasi a un terzo del totale. Ma per i primi due giornali, il Corriere della Sera e Repubblica, il pareggio è già cosa fatta: i ricavi dei collaterali sono pari agli incassi dalle vendite del quotidiano.
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