Propaganda in gara
PROPAGANDE IN GARA
di Umberto Eco
LA MACCHINA comunicativa del regime di Bagdad con la liberazione dei sette inviati italiani fermati a Bassora, tra i quali il nostro Ezio Pasero, incassa un piccolo ma non trascurabile successo. Da questo punto di vista colpisce che i giornalisti dichiarino di essere stati trattati di gran lunga meglio, in una situazione di guerra, di quanto non possa aspettarsi un clandestino iracheno fermato in Italia. La rappresentazione da "liberalismo umanitario" di Saddam Hussein nei confronti dei reporter punta abilmente a smentire, o almeno a correggere, l'immagine completamente negativa del dittatore, che incessantemente gli uffici stampa dell'amministrazione americana hanno costruito sulla stessa logica di radicalizzazione del messaggio che caratterizza i linguaggi dei media e in particolare dello spettacolo televisivo. L'idea è semplice ed efficace nella sua disarmante logica. Essa consente al regime iracheno di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo: un piccolo gesto di buona volontà, per quanto interessato e viziato da propaganda, rischia di minare la legittimità della guerra contro un dittatore sanguinario. E mette a nudo, comunque, un peccato originale imperdonabile nella strategia comunicativa della Casa Bianca: la demonizzazione ad oltranza consente al leader iracheno di avere buon gioco presso le opinioni pubbliche occidentali ogni qualvolta è in grado di dimostrare che forse le cose non stanno così come vengono contrabbandate. Appare clamorosamente la debolezza di una linea comunicativa troppo rigida e senza alternative, e dunque poco flessibile rispetto al contesto che cambia e all'arcipelago di aspettative dell'opinione pubblica. Per di più, la cronaca segnala una sfortunata coincidenza: una troupe di Al Jazeera ha rischiato l'altro ieri a Bassora di rimanere sul terreno sotto i colpi di un tank alleato. A ben vedere, i comunicatori di Bagdad sembrano ricorrere ad un'intelligente appropriazione delle regole del gioco mediatico di casa nostra. A differenza di quanto avvenne nel '91, alle dichiarazioni trionfalistiche degli americani non corrisponde più solo l'innalzamento dei toni della propaganda irachena, ma sembrano efficacemente suggerire ai media occidentali la possibilità di una verifica sui fatti. Si spiega così che gli inviati a Bagdad vengono accompagnati con gentilezza dai funzionari del regime su "macerie altamente selezionate" per produrre resoconti che turbano le coscienze. E' così che di fronte alla rituale smentita degli stati maggiori americani si oppongono le immagini dell'elicottero Apache abbattuto addirittura da un contadino. E' ancora così che la liberazione dei giornalisti italiani mette in crisi l'idea di una censura tanto determinata da non fermarsi davanti a nulla. Una strategia che curiosamente ricorda la controinformazione dagli anni 70 in poi: anche i gruppi più estremistici trovavano un parziale riscatto quando riuscivano a mettere in scena l'esistenza di una violenza nella controparte. Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda dell'agente travestito da autonomo, svelata molti anni fa proprio da "Il Messaggero": si fece fotografare con una pistola in mano, correggendo clamorosamente l' interpretazione ufficiale sulla presenza di agenti armati in borghese dopo la morte di Giorgiana Masi. Il dolore della guerra rischia di impantanare anche la nostra razionalità. Per reagire all'emotività, è utile riconoscere che la linea comunicativa di Bagdad va osservata con freddezza ed obiettività. Essa sembra efficacemente tarata sulle tradizioni dei media occidentali e in particolare sulle aspettative e sullo sgomento delle opinioni pubbliche europee. E certo non ci devono sfuggire gli obiettivi profondi di una tale strategia: dimostrare che l'annunciata "cavalcata trionfale" non è affatto tale, che i militari angloamericani non hanno l'esclusiva delle buone maniere, e che persino il rispetto dello spazio di interposizione storicamente proprio dell'informazione giornalistica non è monopolio di una sola metà del cielo.
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