Il nostro uomo a Baghdad
Tante novità aspettavo e tante cose avrei voluto fare, ma non certo quella di dover scrivere sul manifesto che Stefano Chiarini è morto. Ora che il pensiero va alla compagna Elena e ai due figli ancora bambini, tocca farlo anche a me che forse, qui al giornale, ero ancora la persona a lui più vicina e complice. Uso l'espressione complice, altro non saprei dire, perché partecipavo della sua testardaggine, nella quale mi riconoscevo anche se scoprivo che era più testarda della mia.
Per Stefano non c'erano ostacoli al bisogno di verità. La sua era una ricerca che non si fermava davanti al pericolo e all'orrore. Era uno stile che l'aveva portato sempre a non tirarsi mai indietro. Da questo punto di vista la nostra era un'amicizia di lunga data e conflittuale. Una specie di fratellanza, con io che recitavo la parte del fratello maggiore pur avendo la stessa età. Lo rimproveravo perché temevo per lui. L'avevo conosciuto prima nel movimento del '68 poi nel gruppo del manifesto, intervenivamo insieme nella realtà operaia della Tiburtina e per alcuni anni la sede di Ponte Mammolo fu intestata a noi due, partecipammo insieme alla rivolta per la casa di San Basilio. Ma già allora Stefano aveva a cuore la tragedia del popolo palestinese. Anche lui come me aveva visto con i suoi occhi, non per sentito dire, la ferocia delle uccisioni mirate da parte di Israele quando nel 1972 il rappresentante di Al Fatah, Wael Zwaiter, venne assassinato a Roma dal Mossad. Stupiva come quel popolo senza terra e senza stato fosse perfino più odiato da molti regimi arabi. Stefano fu tra i protagonisti della protesta dura contro la Giordania a Roma. E partecipò a tutte le traversie dei gruppi e intergruppi degli anni Settanta. Mai domo, con il manifesto ma sempre critico contro ogni pur necessaria mediazione, fino a promuovere una occupazione «critica» del giornale nel 1980 con altri compagni.
Poi lo persi di vista per un po', per ritrovarlo ancora tra le scrivanie del 1983 ancora con le Olivetti e senza computer. Era più preparato, sapeva benissimo l'inglese - un particolare questo che poi sarebbe stato decisivo per capire quanto avevamo in comune - andava spesso come inviato a Londonderry dove aveva scoperto e raccontato la lotta dei cattolici dell'Irlanda del nord contro l'occupazione britannica e fu allora che entrò in contatto diretto con lo Sinn Fein e il suo leader Gerry Adams, prima di tanti inviati altolocati. Ma era sempre attento ad ogni novità che nel mondo si muoveva. Fisso all'orrore che dal mondo veniva, scoprì e narrò per il giornale l'episodio che forse lo avrebbe segnato per il tempo a venire: la strage di Sabra e Chatila del 1982 a Beirut ad opera delle milizie maronite aiutate dall'esercito israeliano e in prima persona da Ariel Sharon. Nel 1986 il giornale lo mandò a Manila a seguire la rivoluzione «gialla» di Cory Aquino. E nell'87 fu uno dei pochi ad occuparsi del rapimento del tecnico israeliano Mordechai Vanunu, avvenuto a Roma e con il beneplacito dei servizi italiani ad opera del Mossad.
Poi nel 1990-1991 c'è un vero exploit professionale quando, contro tutte le raccomandazioni, ci aveva convinto che era giusto rimanere a Baghdad per descrivere quello che sarebbe accaduto con i bombardamenti americani sulla città. E rimase. Lui e Peter Arnett furono gli unici due giornalisti occidentali a raccontare il terrore delle bombe che arrivano dal cielo e i loro «effetti collaterali» sulla popolazione civile. Sento ancora il suo reportage mentre cominciano i raid: il Tg3 proprio per questa straordinarietà decise di mandarlo in onda in apertura del telegiornale, e ripeté con sicurezza «Stefano Chiarini, inviato a Baghdad del manifesto...». E Baghdad non l'avrebbe più lasciato, gli era entrata negli occhi e nel cuore. Del resto come poter dimenticare quello che il mondo intero avrebbe poi scordato: la fine sanguinosa degli sciiti abbandonati da tutti, America compresa, e i bambini e le donne irachene sottoposte per dieci anni al più infernale degli embarghi?
La metà degli anni Novanta è decisiva per un suo ulteriore salto. Perché costruisce la preziosa e raffinata casa editrice Gamberetti che, tra le altre cose, propone al pubblico italiana per la prima volta la forza del pensiero di Edward Said, il grande intellettuale palestinese di "Orientalismi". E in quel periodo scoprii che c'era un ulteriore vincolo che mi legava a lui. Era alle prese con le vicende del padre e della madre, malati e anziani. Come accadeva a me. E in quei giorni raccontai a mio padre che c'era un Chiarini che «sapeva bene l'inglese» che lavorava con me. Mio padre recuperò da un suo misterioso album di foto della Seconda guerra mondiale e del fronte della Cirenaica, l'immagine di un campo di concentramento inglese in India, a Yol sotto l'Himalaya, dove era stato rinchiuso per quattro anni e mi fece vedere la foto di lui e del «tenente Chiarini» che sapeva bene l'inglese, tanto che era diventato il suo insegnante d'inglese nel campo dove mio padre faceva «animazione teatrale» e il padre di Stefano faceva corsi di lingue. Così quando litigavo con lui per i ritardi nel consegnare gli articoli con quella mania che aveva di controllare fino alla fine tutte le notizie, mi chetavo pensando a quello strano legame del passato.
Era duro Stefano, ma era anche gentile e aperto. Era chiuso e timido, quanto pronto all'assalto. Mi piace immaginarlo mentre le autorità di Beirut lo ricevono come promotore del giorno del ricordo di Sabra e Chatila e rilascia dichiarazioni a... Robert Fisk. E mentre attorniato da una miriade di ragazzini per le strade di Ramallah, in Cisgiordania, cerca di ripararsi dai soldati israeliani durante la prima Intifada, non prima naturalmente dell'avere assaggiato frittelle e roba untuosissima nell'ultima bancarella incontrata. In quei giorni ricordo che telefonò al giornale Ettore Mo, che con la voce delicata e serena che gli è propria ci disse: «Leggo sempre Stefano Chiarini per quelle terre, ditegli che è bravo...». E come dimenticare che due anni fa, proprio di questi giorni, appena partito dall'Iraq dove aveva seguito le cosiddette prime elezioni, alla notizia del rapimento di Giuliana Sgrena, venne immediatamente rimandato a Baghdad a scrivere e a cercare Giuliana? Coraggio, passione, testardaggine, consapevolezza, disponibilità, arroganza, durezza violenta, timidezza, profondità, acume, ricerca. Il sorriso di Stefano aperto come un mare. Tutto questo stava dentro di lui e lo rappresentava bene.
Resto ancora incredulo che una tale caparbietà sia potuta venire meno. Si parla della nostra generazione della quale il seme potrebbe essere perso una volta per tutte. Così voglio ricordare l'amico e il comunista, il giornalista e l'intellettuale. Dicono che è stato il cuore a spezzarsi. All'improvviso. Nonostante fosse a casa, sereno con i figli. In questi giorni non riuscivamo quasi a scambiare parole. Guardavamo con impotenza e silenzio gli avvenimenti della guerra intestina di Gaza. Non è escluso che anche questo deve essere stato per lui un peso insopportabile, un dolore difficilmente non comunicabile. Addio Stefano.
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