Il punto su Indymedia Italia


Nel novembre scorso il nodo italiano della più grande rete di mediattivismo internazionale ha deciso di prendersi una 'pausa di riflessione', occasione per interrogarsi su obiettivi e metodi e discutere sulla situazione attuale del movimento sociale nel nostro paese.
28 febbraio 2007
Chiara Rancati

Indymedia era arrivata in Italia alla fine del 2000, con la creazione di un 'media center' che raccogliesse e divulgasse sulla rete informazioni dirette e non strumentalizzanti suIle proteste contro il vertice OCSE di Bologna. Nei mesi successivi, grazie anche all'entusiasmo dell'allora molto attivo movimento sociale italiano per questa nuova forma di comunicazione autogestita, l'esperienza si consolidò, dando il via alla creazione di una rete nazionale di progetti e attività di mediattivismo.

Il progetto che stava dietro a questa nuova branca del movimento, ispirata dal successo degli Independent media center (IMC) americani, primi fra tutti Seattle e Washington, era molto ambizioso: creare un prodotto mediatico “dal basso, autogestito, non profit e indipendente dai media istituzionali e commerciali”, che rappresentasse una rottura nel panorama dell'informazione italiana e un valido contraltare per i mezzi di comunicazione tradizionale nella creazione dele opinioni e del dibattito pubblico. “In un paese come l'Italia dove i 7 telegiornali nazionali sono la copia esatta l'uno dell'altro – recitava il messaggio di presentazione redatto dal primo collettivo editoriale - in cui l'informazione è ancora infeudata alle burocrazie di regime o ai grandi gruppi economici, Indymedia rapppresenta una rottura rivoluzionaria. Indymedia Italia e' un telegiornale quotidiano fruibile a qualsiasi ora da chiunque abbia un computer collegato a internet”.
Punto di partenza del progetto, come dell'intero network di Indymedia, il principio della pubblicazione aperta, per il quale chiunque può pubblicare notizie e commenti sul sito e vederli apparire online senza mediazioni, oppure entrare a far parte del gruppo che gestisce la pagina web e del processo di decision making editoriale. Un principio vagamente utopistico, ispirato al principio hacker della libera circolazione dei saperi, che ha tra i suoi primi promotori il professore universitario australiano Matthew Arnison, fondatore del network attivista Active (www.active.org.au) e membro del gruppo che nel 1999 a Seattle diede vita al primo IMC: “Pubblicazione aperta significa che il processo di creazione delle notizie è trasparente nei confronti del lettore. Il lettore può contribuire con una storia e vederla apparire istantaneamente tra la serie di storie pubblicamente disponibili. Quelle storie sono filtrate il meno possibile per aiutare il lettore a trovare le storie che vuole. Il lettore può vedere le decisioni editoriali che altr* prendono. Può vedere come partecipare ed aiutare altr* a prendere quelle decisioni. Se pensa di conoscere un modo migliore di usare il software di pubblicazione, può copiare il software, poichè esso è libero, cambiarlo e iniziare il suo proprio sito. Se vuole redistribuire le notizie, può farlo, preferibilmente su un sito a pubblicazione aperta.”

Il primo vero banco di prova per Indymedia Italia arriva appena un anno dopo, con il vertice G8 a Genova e la sua famigerata 'zona rossa', intorno a cui si muovono manifestazioni e scontri. In quei giorni il Media center improvvisato nella scuola Diaz (quella che sarà poi teatro del violento raid della polizia), in cui oltre a Indymedia sono presenti Carta e Radio Gap, raccoglie centinaia di filmati, foto, registrazioni e testimonianze di cortei, scontri e cariche della polizia. A partire da questo materiale gli attivisti realizzano due video-documentari, con lo scopo principale di denunciare le violenze e gli abusi compiuti dall forze dell'ordine: 'Aggiornamento 0.1', montato in tempi brevissimi per non far sparire troppo presto dalla memoria “una Genova che molti avrebbero voluto nascondere”, e 'I diritti negati', fornito come prova del cattivo comportamento di polizia e carabinieri italiani alla Commissione ONU per i diritti umani.
Un lavoro di documentazione enorme, la cui importanza per il movimento non sfugge però all'autorità giudiziaria: nel febbraio del 2002, infatti, i PM di Genova Canepa e Canciani, titolari delle inchieste per 'devastazione e saccheggio' durante le manifestazioni, ordinano perquisizioni in alcune presunte 'sedi di Indymedia', tra cui il Teatro Polivalente Occupato di Bologna, da cui vengono sequestrati tutti i computer e l'intero archivio video.

Per la prima volta il mediattivismo si scontra con pratiche giuridiche che faticano ad accettarne la natura intengibile e priva di vincoli. La prima, ma non l'ultima. Ad ottobre 2004, infatti, Indymedia Italia subisce un nuovo sequestro: ad essere portati via stavolta sono due server, Ahimsa 1 e 2, conservati a Londra negli uffici dell'agenzia di web hosting Rackspace. Ad eseguire il sequestro sono agenti dell'FBI, con un mandato internazionale di cui inizialmente non si conoscono né le motivazioni, né la provenienza, e la cui correttezza in termini di diritto internazionale e rispetto delle sovranità dei singoli paesi viene da più parti messa in dubbio. Solo una settimana dopo, quando i server vengono misteriosamente restituiti, si scoprì che l'azione era partita da una richiesta del pubblico ministero bolognese Morena Piazzi nell'ambito di un'inchiesta sull'estremismo di sinistra collegata alle indagini per l'omicidio di Marco Biagi. Per avere chiarezza totale sulla vicenda, con la de-secretazione della maggior parte dei documenti ad essa legati, occorrerà però aspettare ben 10 mesi, fino ad agosto del 2005.

Riacquisito il controllo dei propri server, pur senza sapere dove fossero stati nel periodo del sequestro né quali operazioni fossero state eseguite su di essi, l'attività di Indymedia Italia riuscì comunque a riprendere con rinnovato vigore, rivelandosi particolarmente importante in occasione di due drammatiche vicende di violenza su giovani ad opera delle forze dell'ordine.
La prima, avvenuta nel settembre 2005 ma divulgata solo a gennaio 2006, è quella di Federico Aldrovandi, morto in circostanze ancora da chiarire durante un controllo della polizia all'alba di una domenica a Ferrara. La vicenda, resa pubblica dalla madre della vittima tramite un blog (federicoaldrovandi.blog.kataweb.it) è stata fin da principio scrupolosamente seguita dal collettivo bolognese di Indymedia, che ha contribuito a creare e mantenere viva l'attenzione sulla vicenda nell'opinione pubblica locale e nazionale, offrendo una copertura costantemente aggiornata, organizzando manifestazioni(l'ultima appena cinque mesi fa, ad un anno dalla morte di Federico) e dando voce e spazio al comitato 'Verità per Aldro'.
Il secondo episodio è accaduto invece a Como, nel marzo 2006: un ragazzo di origine cingalese, Rumesh Rajgama Achrige, viene raggiunto alla testa da un colpo di pistola sparato da un agente della polizia locale in borghese, membro della 'squadra speciale anti-writer' fortemente voluta dal sindaco Stefano Bruni. Indymedia Lombardia è tra i primi a dare la notizia, e diventa punto di riferimento per la successiva mobilitazione dei giovani della città, annunciando prima e raccontando poi sit-in, manifestazioni e concerti.

A novembre 2006, però, arriva una nuova doccia fredda: la persona che da anni si occupa dell'hosting, ovvero di fornire i server che ospitano i siti, decide di tirarsi indietro. “La ragione principale di questo cambiamento – spiega in un messaggio inviato al collettivo editoriale – è che ai tempi avevo deciso di fornire servizi tecnici a Indymedia, ma senza finire invischiato in stronzate di process (processo decisionale collettivo, NdR.) ogni due secondi. Ma con Indymedia inevitabilmente bisogna spendere molto tempo su queste cose. Sono sorpreso di come gli anarchici si lascino ingabbiare da questa gran quantità di regole...”. Concretamente ciò vuol dire che Indymedia Italia si trova senza più lo spazio per il proprio sito, quindi sostanzialmente offline, e senza le risorse economiche necessarie per procurarsene un altro.
Una situazione di stallo che ha obbligato il collettivo editoriale, ma anche a livello più ampio il movimento sociale italiano che attraverso gli Independent media center si esprimeva, a riflettere seriamente sullo stato attuale dell'esperienza mediattivista in Italia e sulle prospettive per il suo futuro. La domanda centrale è semplice: esaminando la situazione attuale del sito it.indymedia.org, vale la pena di fare l'enorme fatica, economica e tecnica, di trovare un modo per tornare rapidamente online?

La risposta è, almeno per il momento, negativa: Indymedia Italia chiude, ma non è una decisione definitiva. Chiude per ricominciare, per adattare metodi, procedure e strumenti al nuovo contesto, per molti aspetti diverso da quello in cui il network è nato. Spiega una degli organizzatori dell'ultimo meeting in un messaggio a tutti i partecipanti alle mailing list italiane: “indy non e' piu' vista come un punto di riferimento, come una necessita' del movimento. Non esiste piu' la soggettivita' che aveva bisogno di indy come strumento ne' quella che lo voleva proporre come strumento per focalizzare una comunita'. Pertanto oggi c'e' una quasi totale assenza di progettualita' e indymedia e' sopravvissuta indipendentemente delle energie e della volonta' di chi la fa, portando ad una deresponsabilizzazione rispetto al progetto iniziale (...). Indy non era il media di movimento, non era un blog, non era un'agenzia stampa, non era web 2.0, non era My space. Era tutte queste cose e completamente il contrario. L'abbiamo maltrattata, non capendo mai il suo reale potere rivoluzionario, di ribaltamento degli schemi dei media, non della politica. Cosa puo' essere ora?”.

Le difficoltà di Indymedia Italia hanno radici profonde, che affondano negli stessi principi guida della rete degli Independent Media center: la pubblicazione aperta e il metodo del consenso nel processo decisionale. “L'open publishing – si spiega sempre nel messaggio di chiusura - cosi' com'e' non funziona. Indy andava bene quando esisteva un movimento politico, sociale che faceva, produceva... Forse l'errore è stato di non 'lavorare' sul territorio come fonte di informazione dal basso, l'abbiamo forse 'inconsciamente preteso ed atteso' da chi postava 'notizie', ma noi tranne per quello che era il nostro mondo (quello che gravitava attorno al 'movimento dei movimenti') non abbiamo sviluppato informazione dal basso. Il 70% dei post su indy sono repost da media mainstream, il 20% comunicati di movimento, il 10% stronzate di pazzi invasati. non lo era ma e' diventata una triste bacheca di movimento in cui viene lasciato fin troppo spazio allo sbroccato e pochissimo alla produzione di relazioni (prima ancora che di informazione”. Il controllo che dovrebbe essere esercitato dal collettivo editoriale, d'altra parte, è reso inefficace dalla macchinosità del 'metodo del consenso', per cui è necessario che tutti si dichiarino d'accordo con una decisione perché essa venga adottata. Cosa che, in un movimento che, per stessa ammissione dei suoi membri, è sempre più “litigioso, cazzaro, asociale e spesso alienante”, porta, in alcuni casi, ad un sostanziale immobilismo decisionale, e in altri all'aggiramento della discussione collettiva con l'adozione della regola del silenzio-assenso (ovvero 'se nessuno si oppone in tempo utile vorrà dire che sono tutti d'accordo').
Una delle peggiori conseguenze di questa impasse è l'imperversare di un gran numero di utenti molesti, detti in gergo tecnico 'troll', che regolarmente inondano la colonna del sito a pubblicazione aperta con messaggi insultanti, volgari o anche solo inutili o ripetuti. Disturbatori talmente attivi che non è bastata nemmeno la chiusura del sito per fermarli: negli ultimi mesi, infatti, hanno trovato un nuovo bersaglio nella pagina in lingua italiana di Indymedia Svizzera (ch.indymedia.org/it), costringendo il piccolo collettivo ticinese a modificare la politica editoriale in senso più restrittivo. “Il motivo principale del cambiamento – spiegano – e che da quando Indymedia Italia si è autosospesa molto spam si è riversato sul nostro sito. Sono aumentati i post privi di contenuto informativo, carichi di provocazioni e spesso di insulti. Si voleva quindi avere uno strumento (la policy) che permettesse di filtrare meglio i contenuti per aumentare la qualità di Indy, senza ricorrere a 'censure' di diversi livelli caso per caso”.

A questo punto viene però da chiedersi se il vero problema, più che nei metodi o nella presunta mancanza di impegno, non sia piuttosto da cercare in un progressivo allontanamento di Indymedia Italia e dei suoi utenti da motivazioni e obiettivi originali del progetto mediattivista, provocato forse anche dalla chiusura su se stesso di un movimento sociale sempre meno capace di raccontarsi. Forse allora ha ragione l'autrice del citato messaggio di chiusura quando dice che i fautori della produzione mediatica dal basso dovrebbero tornare “per strada”, a spiegare che cos'è un 'Independent media center', come funziona e soprattutto perché: “non saranno la innovazioni tecniche che faranno un Indy nuova (anche, ma non per prime), sarà l'approccio nuovo che avremo nel parlare di lei e nel rifare un processo di informazione con la gente, prima di tutto sullo strumento e sul suo utilizzo, su come si fa un media indipendente nel 2006”.

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