Pubblicità senza progresso sul volto delle metropoli
Nella prima fase della sua vita, l'affissione dei manifesti pubblicitari non doveva rispettare regole precise. A partire dalla fine dell'Ottocento, le città furono così progressivamente invase da cartelloni sempre più grandi, tanto che in Parigi, capitale del XIX secolo Walter Benjamin annotava con un certo divertimento come a qualcuno potesse addirittura capitare di svegliarsi la mattina e di trovare la propria finestra coperta da un manifesto. Oggi, invece, le norme esistono, ma spesso non vengono rispettate, o si rivelano inadeguate e arretrate rispetto alla rapida evoluzione del mercato. Lo spazio urbano si presenta perciò sempre più inquinato da un eccesso di stimoli sensoriali, legati soprattutto alla crescente intensità del traffico automobilistico, ma anche all'insolente invadenza dei messaggi pubblicitari. Come una sorta di velo che copre lentamente ma inesorabilmente edifici e spazi urbani, i manifesti danno vita a una fastidiosa «cacofonia» visiva.
Il segnale di un problemaHa fatto notizia, nei mesi scorsi, la decisione del consiglio comunale di San Paolo del Brasile, una città di venti milioni di abitanti, di eliminare i cartelloni pubblicitari dalle strade a partire dal primo gennaio 2007. Come era prevedibile, questa misura ha suscitato proteste e cause legali per la difesa degli interessi economici che ne venivano disturbati, con il risultato che oggi la pubblicità nei luoghi pubblici della megalopoli brasiliana non è scomparsa, sebbene sia meno invasiva di prima. Il tentativo di San Paolo, e l'eco che ne è derivata in tutto il mondo, rappresentano comunque un segnale che il problema esiste, e che è necessario trovare soluzioni adeguate.
In Italia, in particolare, la presenza dei grandi pannelli pubblicitari assume una particolare rilevanza perché si trova a coesistere con gli importanti segni delle città storiche, spesso occultandoli. Non a caso, il comune di Roma ha da tempo avviato una serie di interventi in questa direzione, sia lottando contro le numerose affissioni abusive (soltanto nel 2006 è stato eliminato più di un milione di manifesti), sia vietando i pannelli più grandi, sia infine allestendo in alcune aree cittadine speciali rivestimenti a raggiera che dovrebbero impedire le affissioni «non controllate».
Città come palcoscenico
Solo pochi giorni fa anche il ministero dei beni culturali, all'interno di una serie di provvedimenti che dovrebbero essere rivolti alla riqualificazione delle periferie, ha citato il ruolo spesso negativo che la pubblicità gioca nella definizione dei panorami urbani. Del resto, persino alcuni pubblicitari si sono posti il problema di una armonica collocazione dei materiali promozionali all'interno del contesto storico e architettonico italiano: ancora a Roma, infatti, la Agat (Associazione Grandi Affissioni Temporanee) ha organizzato nei primi giorni di marzo una mostra fotografica a Palazzo Venezia, Pubblicittà, con l'obiettivo di promuovere intorno a questo tema una riflessione pubblica. Il problema però è complesso e merita di essere affrontato tenendo conto anche delle sue origini storiche.
Il manifesto pubblicitario ha sempre avuto bisogno dello spazio urbano come palcoscenico in cui potersi esprimere. Se questo era vero già per le prime forme elementari di propaganda, comparse nelle città alla fine del quindicesimo secolo (ai tempi in cui gli avvisi ufficiali erano ancora composti soltanto di testi verbali), il fenomeno è diventato soprattutto evidente nell'Ottocento, quando il progressivo sviluppo dell'industrializzazione e un intenso processo di urbanizzazione che riguardava grandi masse di persone provenienti dal mondo rurale hanno trasformato le piazze e le strade di maggiore transito dei centri cittadini nel luogo fondamentale di espressione della comunicazione pubblicitaria.
È nato così il poster, che ha incominciato a utilizzare le immagini e ha invaso le città con formati sempre più giganteschi. E il passante ha dovuto abituarsi alla lettura di questi «quadri stradali» nuovi e sorprendenti, manifesti espressamente progettati per inserirsi con decisione entro la scena urbana.
Contemporaneamente, il crescente utilizzo di nuovi mezzi di trasporto veloci, come il tram o l'automobile, ha imposto agli individui di imparare a vedere in tempi sempre più rapidi i manifesti pubblicitari. E a loro volta i mezzi pubblici sono diventati strumenti per l'esposizione di «manifesti» in movimento, svolgendo una funzione analoga a quella che era stata un tempo dei cosiddetti «uomini sandwich», le persone cioè che giravano per le strade portando sul davanti e sul retro del corpo dei cartelloni pubblicitari.
Già a partire dall'Ottocento, insomma, la pubblicità non si è limitata a aumentare le proprie dimensioni, ma ha progressivamente moltiplicato i luoghi della sua presenza. A quell'epoca qualche voce si era levata per protestare contro questa infiltrazione sempre più capillare, ma si trattava di reazioni ancora isolate: in quanto simbolo del progresso economico e sociale in corso, la pubblicità non poteva che essere pienamente accettata, nonostante gli sconvolgimenti che portava nella vita urbana.
Nel corso del Novecento, il processo di occupazione di tutti gli spazi urbani e sociali da parte della pubblicità ha continuato a svilupparsi, tanto che oggi il nostro orizzonte appare ormai saturo. Accanto ai luoghi (almeno all'apparenza) più consoni alla diffusione dei messaggi promozionali - lo schermo televisivo, innanzi tutto, ma anche, e ora soprattutto, gli schermi grandi e piccoli legati ai nuovi media, dal computer al telefonino - la pubblicità tende giorno dopo giorno a espandersi occupando molti luoghi sociali dove in precedenza non era presente: dalla superficie esterna delle impalcature degli edifici in ristrutturazione, alla superficie (interna ed esterna) dei taxi, dei treni e degli aerei, fino addirittura ai gusci delle uova e alla fronte delle persone disponibili a cedere in affitto un pezzo del loro corpo.
Perfino il luogo privato per eccellenza, la toilette, ha subito l'assalto inesorabile della pubblicità: proprio di recente la campagna promozionale del film Borat ha trovato nei bagni dei locali pubblici un inedito campo di azione.
Di fronte a una presenza tanto eccessiva e ingombrante, appare naturale che le reazioni di rifiuto e di protesta siano diventate più forti. Ma i risultati almeno finora hanno portato il contrario degli effetti voluti. Proprio nel costante tentativo di inseguire i consumatori, ormai scaltriti e insofferenti nei confronti dei «consigli per gli acquisti», le imprese non solo cercano di occupare spazi sempre maggiori, ma investono tutte le loro energie allo scopo di trovare modi efficaci e originali per farsi notare: è nato così il cosiddetto «guerrilla marketing», che cerca di colpire il target nei contesti e nei momenti in cui meno se l'aspetta. Ne è un esempio recente la campagna promozionale di una nuova serie televisiva americana, per la quale sono stati collocati nella metropolitana e nelle strade di Boston piccoli pupazzi luminosi che sono stati scambiati per pacchi bomba. Il paradossale risultato di operazioni come queste è che hanno stimolato nei potenziali consumatori reazioni difensive più potenti, che a loro volta inducono la realizzazione di nuove pubblicità ancora più aggressive. Abbandonato a se stesso, insomma, il mercato non solo non si autoregola, ma si trasforma in una spirale viziosa che continua ad avvitarsi su se stessa.
E sebbene nell'epoca di Internet e dell'onnipotenza mediatica che mette fortemente in discussione l'importanza delle «piazze» e dei centri cittadini, sia forse lecito aspettarsi in tempi non troppo lontani, se non la scomparsa, per lo meno un forte ridimensionamento della funzione del manifesto tradizionale, così come avevamo imparato a conoscerlo dall'Ottocento in poi, questo non significa che gli spazi pubblicitari verranno presto cancellati dai luoghi pubblici urbani. Anzi, forse proprio perché si sta avvicinando una fase di declino, non si può escludere che la pubblicità si faccia, se possibile, ancora più aggressiva di quanto sia stata finora.
I «fiori» di Marinetti
In passato i sostenitori della presenza della pubblicità nelle città affermavano con baldanza che essa contribuisce a rendere lo spazio urbano più bello, colorato e allegro. Celebre in questo senso è la lettera che Filippo Tommaso Marinetti scrisse nel 1927 a Mussolini per difendere le insegne luminose di Piazza Duomo a Milano, che alcuni volevano eliminare in nome della salvaguardia dell'estetica della piazza. Secondo Marinetti, infatti, gli avvisi luminosi andavano salvaguardati perché erano «i fiori eccitanti, i frutti succosi e i putti danzanti della nuova estetica futurista del ferro veloce e dell'audace cemento armato» ed erano «belli d'una nuovissima ma sicura bellezza».
Pochi sono oggi i fautori del ruolo «estetizzante» della pubblicità, anche se è innegabile che esistano luoghi urbani importanti la cui identità si è formata soprattutto grazie alle immagini, ai colori e alle luci dei neon e dei grandi cartelli che li «adornano»: piazze celebri come Times Square a New York e Piccadilly Circus a Londra, quartieri come Ginza a Tokyo, intere città come Las Vegas non sarebbero neanche immaginabili senza la pubblicità. Ma questo ragionamento non si può applicare indiscriminatamente, e tanto meno in presenza degli edifici importanti dell'architettura storica.
La necessità di difendersi
Eppure, proprio partendo dal presupposto che attualmente - come dimostrano gli esiti del caso di San Paolo - la pubblicità non si può eliminare da un giorno all'altro perché rappresenta uno strumento indispensabile per lo sviluppo economico (senza tenere conto del fatto che le stesse amministrazioni locali ne hanno bisogno per sostenere le loro sempre più esangui finanze), appare necessario tentare di fare convivere le esigenze della pubblicità con quelle della qualità della vita delle persone.
Si tratta, cioè, di difendere i manifesti, ma anche di difendersi dai manifesti, regolando il ruolo sociale della pubblicità e creando nuove forme che, come avviene con il consumo sostenibile, riescano a conciliare esigenze diverse e aprano la strada verso una vera e propria «pubblicità sostenibile».
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