Due lampi illuminano all’improvviso il cielo grigio delle notizie che, in disordine, fanno ossessivamente il giro del mondo, narrano sempre le stesse storie e poi spariscono. È accaduto il 13 giugno 2007, quando è stato pubblicato il temerario discorso di accusa di Tony Blair, Primo Ministro a fine carriera del Regno Unito (in Italia La Repubblica, 13 giugno). È accaduto il 14 giugno quando il New York Times ha pubblicato un testo di Patricia Cohen che - basandosi sul lavoro di economisti e politologi come Michael Mandelbaum, Joseph Stieglitz (il premio Nobel per l’economia) e Bruce Scott (economista di Harvard) - si domanda se valga ancora il legame ritenuto inscindibile (e anzi garanzia reciproca) fra capitalismo e democrazia. E dunque fra capitalismo e libertà delle notizie.
Il legame fra i due sorprendenti interventi è chiaro e - per l’Italia di oggi - di rilevanza immediata. La domanda è: c’è ancora - e serve a qualcuno o a qualcosa - la libertà di notizie, informazioni, comunicazioni, dunque la mitica e celebrata “libertà di stampa” ritenuta finora il cuore della democrazia?
Tony Blair, forse il più carismatico e certo, per qualche tempo, il più popolare leader della sinistra europea in molti decenni, si assume un compito che condivide con tutta la classe politica occidentale ma che, dimostra Blair, in questo periodo tormenta soprattutto la sinistra.
Il senso del discorso di Tony Blair ormai è noto e ha suscitato la sua parte di plauso (dai politici di ogni denominazione) e di condanna (da parte dei più autorevoli giornali inglesi) fra l’indifferenza infastidita di una vasta opinione pubblica che si sente estranea all’uno e all’altro lato della polemica (e questa è la vera notizia sullo stato delle cose).
Tony Blair attacca, condanna e disprezza la stampa che descrive come una belva che azzanna per nutrirsi di scandalo, utilizzando senza scrupoli il sangue delle persone che sono in vista perché si sono assunti la responsabilità della politica e sono da distruggere perché sono in prima fila ed hanno successo.
I politici dunque sono la vittima ideale della belva e la belva risponde ai suoi istinti ferini, non alla missione di informare. Sostiene Tony Blair che la notizia è un trucco per tendere trappole mortali ai politici.
Il lettore non farà fatica a cogliere curiose analogie con la situazione italiana di questi giorni. La stampa italiana ha scelto di ospitare con abbondanza tutti gli spunti possibili di intercettazioni telefoniche che contano, forse, sul piano del buon gusto e delle buone maniere ma niente dal punto di vista dei processi di cui queste intercettazioni sono storie laterali. E ha scelto di farlo lasciando scorrere tutto senza alcun filtro critico o almeno qualche “guida alla lettura” che distingua il giudizio morale e politico (conta o non conta una certa frase?) dal fastidio mediatico e dal disturbo del gusto. In realtà fra la storia italiana e la storia inglese c’è una importante differenza. Tony Blair attacca “la belva” non perché infastidito da sgarbi e critiche malevoli, ma a causa di un violento scontro frontale che segna un’epoca. Lo scontro, di cui Tony Blair è stato iniziatore e protagonista, si è compiuto sulle ragioni della guerra in Iraq.
Quelle ragioni, come è noto al mondo erano false. Ovvero era falsa tutta (tutta) la proposta, la argomentazione e la prova dei fatti (se vi fossero in Iraq armi di distruzione di massa puntate sul mondo e pronte ad entrare in azione in 45 minuti), mentre era ovviamente aperta al dibattito la questione politica (se Saddam fosse il tiranno contro cui usare subito la potenza del mondo).
Dunque c’è qualcosa di unico in ciò che Tony Blair, leader carismatico e popolare della sinistra europea, ha scelto di fare. Ha usato, con piena conoscenza di causa, argomenti che gli sono stati messi a disposizione dalla destra politica e militare del mondo per sostenere una guerra che si è rivelata un immenso errore militare e politico le cui conseguenze, fino alla guerra civile in Iraq, in Libano, in Palestina, fino al rischio di sopravvivenza dello Stato di Israele, sono ancora in corso, lontano da ogni possibile esito positivo.
Tony Blair, ha usato e giocato con la stampa in due modi. Come dimostra il recente libro americano The italian letter di Peter Eisner e Knut Royce, si è avvalso di un documento falso preparato in Italia nella redazione di un settimanale politico italiano, usando personaggi periferici del sottomondo spionistico per pronunciare il famoso discorso: «Ci possono distruggere in 45 minuti». E ha esercitato tutte le pressioni politiche disponibili ad un potere democratico per ottenere che la diffusione della falsa motivazione della guerra non fosse ostacolata o intercettata da argomenti critici al tempo in cui il leader Blair chiedeva per la sua guerra il sostegno della opinione pubblica inglese. È il periodo in cui uno scienziato che non voleva offrire il suo sostegno alla tesi dei «45 minuti per distruggere il mondo» si è tolto la vita. E il Direttore Generale della BBC, responsabile dei servizi giornalistici inglesi che non si erano sottomessi, è stato costretto alle dimissioni. È con un record tutt’altro che esemplare che Tony Blair si presenta alla tribuna di accusatore della stampa persecutrice dei politici.
La storia dimostra che invece - come è accaduto per George W. Bush negli Stati Uniti, per la stessa ragione (le false motivazioni di una guerra presentata come urgente e necessaria) - la vera salvaguardia della democrazia, e dunque della libertà delle notizie, sta nel tempo. Anche nella pienezza delle garanzie democratiche, un leader politico può imporre notizie false. Ma si tratta di un atto soggetto a scadenza. Evidentemente entrambi i leader hanno scommesso su una vittoria così rapida e clamorosa da trascinare l’opinione pubblica a ignorare la libertà di stampa. Brutta scommessa. Comunque, a causa del grave insuccesso, non ha funzionato. Adesso la stampa esige il risarcimento di un minimo di verità. Curiosamente Bush si è mostrato più cedevole del Primo Ministro inglese che ha scelto come difesa l’accusa ed esce di scena inseguito dalle denunce della stampa inglese che - a causa di quella accusa - gli ripetono e consegnano al futuro, con prove dettagliate, la sua fama di leader che mente.
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Come si vede una garanzia contro la falsità della politica c’è, finché un Paese è democratico. Ma democrazia e capitalismo si sostengono a vicenda, come ci è stato sempre detto (i mercati vogliono la libertà come i partiti, per le stesse ragioni di competizione) oppure il capitalismo può, oggi, fare a meno della democrazia senza soffrirne, anzi sviluppandosi a ritmi sempre più stretti?
La domanda posta dall’intervento di Patricia Cohen sull’International Herald Tribune del 14 giugno ha molte motivazioni. Sono nei testi allarmati e dubbiosi di alcune grandi firme della politologia e dell’economia, ma anche nella constatazione del rapido e grandioso sviluppo economico di Paesi industriali e capitalistici tutt’altro che liberi, come la Cina e la Russia. Nella Russia di Putin, invece di fermarsi all’invettiva di Blair («la libera stampa è una belva») la belva viene uccisa. Il mondo momentaneamente appare costernato quando la belva ha il volto della coraggiosa giornalista Olga Politovskaia. Ma, dopo un po’, dimentica. La Cina conduce un controllo preventivo che - prima che portare alla morte - impedisce la nascita di una Olga Politovskaia. Ma intanto si sviluppa, si arricchisce - e arricchisce una parte dei suoi cittadini, lungo tappe successive di una espansione mai vista. Due studiosi americani, il politologo Scott e l’economista Stieglitz non pensano alla Cina ma all’Occidente quando dicono «è un errore pensare che tutto quel che ti serve per vivere in democrazia siano una costituzione e un voto» (Bruce Scott) e «abbiamo riflettuto su quanto sia facile, oggi, manipolare una elezione?» (Joseph Stieglitz). I due studiosi non si voltano indietro a ripensare il Cile, dove, sotto Pinochet, si sono fatte “riforme” (come quella delle pensioni, che viene raccomandata anche a noi, anche oggi, come quella della flessibilità del lavoro suggerita dai “Chicago Boys”, che a quel tempo non si chiamavano ancora “Neocon”). Li angoscia la impenetrabilità della Cina e della Russia capitalistica alla democrazia.
Ma li impressiona ancora di più la fragilità delle più grandi e celebrate democrazie. Da un lato si intravede la crepa dell’imbroglio (abbiamo appena parlato di Blair, ma per l’Italia si veda la denuncia ripetuta da Enrico Deaglio con il film dvd Gli imbroglioni, a proposito di molti punti strani e oscuri nelle elezioni politiche italiane del 2006; ma anche le prove di broglio denunciate da Leoluca Orlando dopo le recenti elezioni comunali a Palermo; ma anche la questione sollevata invano dagli interessati, di otto senatori forse spariti dalla lista di eletti alla “camera alta” italiana dopo contestati e mai discussi scrutinii delle ultime elezioni politiche). Dall’altra una stampa esangue che negli Usa ha risposto tardi (con le scuse formali e congiunte ai lettori dei direttori del New York Times e del Los Angeles Times e la pubblicazione, a cura di Frank Rich, delle notizie omesse per non dispiacere al governo di Bush). In Inghilterra si reagisce adesso. E in Italia si continua a sentire il fiato caldo del potente politico-editore Berlusconi sul collo di chi fa informazione. E si preferisce, anche adesso, non imbarcarsi in argomenti sbagliati o pericolosi, lasciando che siano Bruno Vespa o Minzolini a dirci, anche adesso, anche oggi, qual è il menù delle notizie del giorno.
Se Berlusconi dice che per togliere di mezzo Prodi lo strumento più adatto è il regicidio, cioè il delitto, ti dicono di non disturbare, ti avvertono che si tratta solo di “uno scherzo”.
Ricordate le violente accuse a questo giornale, definito, esclusivamente per le sue critiche politiche, “testata omicida” da tutta la stampa e le televisioni di proprietà o sotto controllo di Berlusconi? Se poi la Lega occupa i banchi del governo ostentando il giornale da statisti di quel Gruppo, che intitola “Fuori dalla balle”, compiendo dunque un gesto probabilmente non consentito in Guatemala, tutto viene narrato (e molto brevemente) come una ragazzata. Dice festosamente il Tg1 del 15 giugno: «È subito baruffa» notare la parola bonariamente goldoniana. Segue, regolare, per tutti coloro che si indignano, si scandalizzano, protestano, o anche solo si sentono imbarazzati, la raccomandazione «ad abbassare i toni».
La fine della storia è nell’iniziativa della nascente leader politica Brambilla, il nuovo cyborg di Berlusconi, che fonda un giornale “della libertà” nel giornale di Berlusconi e una televisione “della libertà” nella televisione di Berlusconi. Altrove democrazia e libertà di stampa rischiano il loro destino nel dramma. Da noi nel ridicolo.
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