Si risveglia la stampa «Tutti a casa»
«E' giunto il momento per gli Stati uniti di lasciare l'Iraq senza altri rinvii che non siano quelli necessari al Pentagono per organizzare un ritiro ordinato». Così il New York Times ha preso - tardivamente - il coraggio a due mani e in un lungo editoriale ha constatato il disastroso fallimento dell'avventura militare lanciata con motivazioni false e pretestuose quattro anni fa da Cheney, Rumsfeld e Bush ed ha indicato l'unica via di uscita, il ritiro delle forze armate Usa.
La presa di posizione dell'importante quotidiano segue di pochi giorni la defezione di autorevoli sostenitori repubblicani della guerra come i senatori Lugar e De Domenici e un ulteriore crollo della popolarità del presidente al di sotto del 29 per cento, ma la procedura suggerita si presenta lunga, tortuosa e grondante altro sangue.
Il testo dell'editoriale pubblicato ad uso europeo dall'International Herald Tribune non è lo stesso dell'originale apparso sul quotidiano newyorchese, ma l'uno e l'altro coincidono su un allarmante corollario: «Il Pentagono dovrà lasciarsi dietro forze sufficienti a sostenere incursioni di terra efficaci e attacchi aerei contro le forze del terrorismo in Iraq».
Si ritorna così alla formula del «decente intervallo» di nixoniana memoria che dal 1973 al 1975 provocò la morte di altri settecentomila civili vietnamiti e cambogiani e di altri 18.000 militari Usa.
Nessuna menzione nell'editoriale della drammatica incognita di un'offensiva aeronavale contro l'Iran sostenuta a spada tratta dai dirigenti israeliani e programmata in ogni dettaglio propagandistico e militare dall'amministrazione Bush come «soluzione finale» che con una nuova fiammata di patriottismo tipo 9/11 salverebbe i neo e teo-cons repubblicani dalla debacle elettorale del novembre 2008. Nessun accenno alla bomba ad orologeria di Gaza, all'insorgenza sempre più estesa in Afghanistan e ad una più che probabile ripresa dell'aggressione israeliana contro gli Hezbollah libanesi.
L'editoriale del New York Times è accompagnato sulla sua «pagina delle opinioni» da un articolo di Frank Rich dal significativo titolo «Un profilo in codardia»: è la codardia palesata da George W. Bush non solo quando ha commutato l'altro giorno la condanna al carcere di Scooter Libby in una multa di 250.000 dollari, ma in ogni altra occasione della sua carriera politica sin da quando appoggiava la guerra in Vietnam e si imboscava nella Guardia nazionale del Texas.
Codardo o meno Bush e il principe delle tenebre Dick Cheney continuano a fare affidamento - sempre che l'opposizione democratica del Congresso non diventi meno invertebrata - sulla scadenza del 15 settembre , quando un rapporto dei militari sul campo dovrebbe registrare l'improbabile successo del surge in Iraq. Si dice anche che il presidente sia molto preoccupato dalla difficoltà di preservare il suo buon nome nella storia del paese.
Sono comunque in molti sulle rive del Potomac ad attribuire un altro intento ai comportamenti di Bush: sic et simpliciter il timore della galera che turberebbe i suoi sonni e quelli di una trentina di alti esponenti della sua amministrazione.
«L'Iraq in vendita», il documentario di Robert Greenwald menziona con dati inconfutabili e mai confutati la corruzione che ha accompagnato e condizionato l'impresa irachena con la rapina di miliardi di dollari di compagnie legate alla famiglia Bush e a Cheney, quali ad esempio la Halliburton, la Blackwater, la Bechtel, la Flour, la Bearingpoint e la Dyncorps; e poi a carico di Bush c'è l'accusa di alto tradimento per aver violato la costituzione americana e il Bill of rights con il Patriot Act I e II.
Risulterà pressocché impossibile per chiunque sloggerà nel 2008 dalla Casa bianca il suo presente inquilino concedergli un'immunità preventiva dalle inevitabili incriminazioni delle magistrature statali e federali.
Ecco perché la soluzione finale contro l'Iran non è solo un'ipotesi, ma una quasi certezza.
Sociale.network