Una scorciatoia (illusoria) tira l'altra. Il marketing virale è già un flop?
Sembrava l'uovo di Colombo: pubblicità facile, meno costosa, che si insinua senza apparire invasiva, che si riproduce attraverso il contagio nutrendosi della capacità di suscitare curiosità e simpatia. Parliamo del marketing virale, quel fenomeno che porta in rete video, immagini e motti che, a volte divertenti, a volte di dubbio gusto e sempre costruiti per carpire l'attenzione, navigano sfruttando la corrente incostante del passaparola e si diffondono in modo analogo a un virus, patologico o informatico che sia. E proprio come la bottiglia con il suo foglio arrotolato che senza vento e senza correnti marine resta in mare aperto, anche lo spot virale può non giungere mai a destinazione. Che nel suo caso sono le grandi masse.
A tirare le fila di un decennio di più o meno presunte epidemie è intervenuta un'analisi della società di ricerca Jupiter Research, che snocciola numeri tali da giustificare il termine fallimento: il 40% dei professionisti pubblicitari in attività nella grande rete cercano l'effetto virale, ma lo scorso anno solo il 15% di lanci pensati per ottenerlo ha raggiunto l'obiettivo prefissato. Di conseguenza nel 2008 l'uso di questa tattica diminuirà del 55%. Di fronte a queste cifre lo studio propone anche una nuova via, perchè il messaggio della bottiglia non vada alla deriva. Uno degli esempi storici di marketing virale è «l'esperimento Mentos», una serie di video che mostrano l'unione infausta tra le omonime caramelle e la Coca-Cola: ovvero una reazione chimica che culmina nell'eruzione della bevanda a mo' di geyser. Video di cui peraltro, esistono diverse versioni grazie alla partecipazioni di sventurate cavie che sperimentano sulla propria pelle. Divertente? Su questo si può discutere; tuttavia accattivante, tanto che l'effetto virale fu assicurato e i due prodotti (e relativi marchi) cercarono di sfruttare la popolarità di quelle produzioni amatoriali, organizzando successivamente degli eventi ad hoc. Spesso insomma sono contenuti che si mascherano da «user generated», ma per trasformare l'individuo in agente pubblicitario inconsapevole sono sufficienti anche solo una riga in calce alle e-mail, un'immagine che invogli a cliccare, una barzelletta, un tasto consiglia a un amico», un test. La ragione dei fiaschi documentati da Jupiter è tattica più che strategico. A rendere complesso un compito a prima vista piuttosto banale interviene per esempio l'inquinamento pubblicitario: il sovraccarico visivo, uditivo e cognitivo del navigatore che per le troppe distrazioni spesso opta più o meno consapevolmente per ignorare in blocco ciò che non riguarda l'obiettivo della navigazione. Ma, soprattutto, a danneggiare le campagne è la mancata considerazione del profilo individuale di chi frequenta i luoghi più fertili per l'attecchimento del "virus": i siti di network sociale, che aggregano ogni giorno milioni di persone. Quali uomini e quali donne, quali caratteristiche personali si nascondono dietro ai profili di pixel e ai personaggi virtuali? La personalizzazione, insomma, è il segreto per il futuro: i profili, persino dell'aspetto psicologico, sono probabilmente la nuova frontiera di questo tipo di marketing. E, naturalmente, ogni prodotto deve individuare il proprio obiettivo e affidare alle correnti, a seconda della direzione e dell'intensità, diverse bottiglie. Attenzione però anche al palcoscenico scelto: i siti di social networking come MySpace e YouTube, per esempio, sono in continua trasformazione proprio in virtù della loro natura e attualmente l'età media degli utenti è in discesa. E qui sta il tranello: non appena si crede di aver inquadrato il pubblico, che invece rimane sfuggente o perlomeno in continua metamorfosi, si elaborano strategie che rischiano di essere obsolete fin dalla nascita.
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