Questa povera America
Alla pompa di benzina, qui sulle rive del lago Michigan la super costa 3.59 dollari al gallone (3,785 litri), ma sulle rive del Pacifico, in California, ha varcato la soglia simbolica dei 4 dollari al gallone, cioè ha superato quota un dollaro (71 centesimi di euro) a litro: sempre assai meno che in Italia, ma una cifra spropositata per uno statunitense. Se a un californiano glielo avessero detto quattro anni fa, quando la super costava 1,6 dollari al gallone, non ci avrebbe mai creduto. Anzi, allora molti profetizzavano che la benzina a questi livelli avrebbe decretato la fine della civiltà suburbana.
Il prezzo della benzina dipende dalla quotazione del petrolio, da più di due settimane stabilmente sopra gli 80 dollari al barile. A sua volta il prezzo del petrolio è salito a causa della debolezza del dollaro, il cui cambio con l'euro è passato in pochi mesi da 1,27 a 1,41, con una perdita dell'11% (dato questo che dovrebbe imporre un po' più di pudore ai petrolieri nostrani che parlano di «petrolio alle stelle»: vero, ma calcolato in dollari che invece sono alle stalle: in euro il greggio è rimasto più o meno stabile).
La debolezza del dollaro è dovuta ai decisi tagli dei tassi di sconto operati dalla Banca centrale Usa, la Federal Reserve (Fed), e dal suo presidente Ben Bernake, dopo il crollo dei mercati azionari in agosto, mentre invece la Banca centrale europea manteneva inalterati i propri tassi d'interesse primari )ma iniettava molta più liquidità nell'economia). Da allora Wall Street si è ripresa alla grande: «Agosto è solo un ricordo lontano» (Usa Today), «Verso nuovi record» (Wall Street Journal). Vuol dire forse che lo scoppio della bolla immobiliare si è esaurito, o che si sono diluiti i suoi effetti? «No, la crisi non è passata, mi dice nel suo ufficio downtown Chicago Geoffrey Smith, direttore di ricerca del Woodstock Institute, un importante centro di studi mirati a favorire gli investimenti nei quartieri a basso reddito e abitati da minoranze etniche. Cioè il gruppo sociale che negli Usa più è stato colpito dalla fine della bolla immobiliare, e dalla crisi dei mutui.
«Quando George Bush vinse le elezioni contro Al Gore alla fine del 2000, la bolla hi-tec stava già scoppiando. A questo si aggiunse l'11 settembre 2001 che minacciava una recessione serissima. Per contrastare questo rischio, l'allora presidente della Federal Riserve, Alan Greenspan, decretò una serie di riduzioni dei tassi d'interesse a raffica, fino alla soglia dell'1%. Poiché l'inflazione era ben sopra il 2%, significava che il tasso d'interesse reale era negativo. Se uno chiedeva in prestito il denaro e semplicemente lo restituiva l'anno dopo, ci guadagnava l'1% sull'inflazione. A questi tassi d'interesse, ognuno poteva attingere dalle banche denaro a man bassa. Lo hanno fatto i grandi investitori che si sono lanciati in una serie di acquisizioni e Opa, tutte basate sul credito facile. Ma furono in particolare i mutui delle case a divenire più a buon mercato, per cui molta più gente si precipitò a comprare casa a tassi bassissimi (anche se variabili). Questa domanda fece salire a dismisura il prezzo degli alloggi (la «bolla immobiliare»). Non solo, ma con i prezzi che salivano allo sproposito, un proprietario di casa poteva ricontrattare un nuovo mutuo ai nuovi, e molto più alti, valori di mercato, ricevendo così in contanti la differenza tra il vecchio valore e il nuovo.
Questi contanti hanno alimentato le spese di consumo per circa quattro anni. Per mantenere alti i prezzi, bisognava però che ci fosse sempre nuova domanda, ma andava esaurendosi il numero di aspiranti proprietari che dessero le necessarie garanzie economiche per ricevere un mutuo. Così le agenzie convinsero a comprare casa anche una fascia di clientela che non poteva permetterselo: si offriva loro un mutuo vantaggiosissimo per i primi due-tre anni, e poi col tasso variabile l'interesse schizzava su. E le banche accettavano di prestare i soldi anche a questi clienti che in prospettiva erano chiaramente insolventi. Lo stesso fenomeno è avvenuto con le carte di credito, che sono state rilasciate con lassismo, permettendo scoperti assai alti, senza chiedere nessuna garanzia finanziaria. Il risultato finale è che tutta l'America ha cominciato a galleggiare su una montagna di debiti. Si ricordi che qui tutto è comprato a credito: le cure dentarie, le vacanze, l'università dei figli, oltre che naturalmente l'auto, la casa, gli elettrodomestici. L'unica possibilità per non affondare era che i prezzi delle case si mantenessero alti e che il costo del denaro restasse basso».
Il primo dei due fattori è venuto meno. La domanda è diminuita drammaticamente: ad agosto il numero di nuove case costruite è crollato dell'8,3% rispetto a luglio e del 21% rispetto all'anno prima. Il crollo della domanda ha fatto scendere la quotazione: il prezzo mediano di una casa è calato del 7,5% in un mese. Nel frattempo, per evitare i rischi d'inflazione, il presidente della Fed, Bernake, faceva risalire, seppur lentamente, i tassi d'interesse. Risultato: è cresciuto a dismisura il numero dei mutui in sofferenza (in cui i mutuarii sono in ritardo almeno di tre mesi sulle rate). Queste insolvenze hanno mandato in tilt le banche che più si erano esposte sul mercato dei mutui secondari. Ed è per rispondere a questa crisi finanziaria che la Fed ha fatto riscendere a precipizio i tassi. Il che ha permesso alle borse di tirare il fiato e di riprendersi. Ma che effetti hanno avuto questi sconti sull'economia reale?
«A me sembra che non abbiamo superato affatto la crisi, ma che siamo nel bel mezzo», dice Geoffrey Smith: «le inadempienze continueranno ancora per un anno o due. Quando il proprietario di una casa è dichiarato inadempiente, la casa torna di proprietà della banca che ha due alternative: o se la tiene sul groppone aspettando tempi migliori, oppure - caso più probabile in questi tempi difficili - la mette sul mercato. Così i prezzi scendono ulteriormente. Qui a Chicago gli sbalzi sono stati minori che sulle due coste, est e ovest: le quotazioni erano salite assai, ma con regolarità, senza le follie di New York o della Silicon Valley, e quindi anche la ricaduta è stata meno brusca. Ma il punto decisivo è che fa fascia più debole dei consumatori, quella che aveva potuto spendere e rilanciare l'economia Usa grazie ai liquidi ricavati dall'aumentato valore della propria casa, ebbene costoro non hanno più nulla da spendere. Non basta. La Fed può far scendere i tassi d'interesse, ma comunque la politica del credito sarà meno lassista, per esempio sulle carte di credito.
C'è la seria possibilità che ci sia una contrazione dei consumi, soprattutto nella fascia più debole, a reddito più basso, la prima a vedersi portare via la casa. Senza contare il prezzo del greggio che pesa moltissimo nelle famiglie suburbane: la stragrande maggioranza di americani abita in casettine unifamiliari (di legno, n. d. r.) che non hanno isolamento termico e consumano carburante per raffreddarsi d'estate e scaldarsi d'inverno, e la spesa in benzina è altissima se devi pendolare ogni giorno da casa in ufficio o in fabbrica. Per me il problema non si pone perché vengo al lavoro in bici, dato che vivo in centro. Ma molti miei amici cominciano ad aver male al portafoglio».
Negli Stati uniti è in corso una discussione accanita se il petrolio a 80 dollari al barile è sostenibile o meno, e se il dollaro debole provocherà inflazione. Secondo il Wall Street Journal l'economia Usa può reggere anche il petrolio a 100 $ al barile. Le ragioni degli ottimisti, sviluppate anche sul New Yorker e sul New York Times, sono essenzialmente due. Da un lato, i prezzi dei prodotti manufatti importati dall'estero non salgono anche se il dollaro s'indebolisce, perché le industrie straniere fanno dumping, cioè tengono artificialmente bassi i prezzi dei propri prodotti negli Usa. Così uno stesso software, comprato sul sito americano di Amazon (amazon.com) costa il 27% in meno rispetto al sito tedesco (amazon.de). Così le auto di lusso europee, Bmw, Audi, Mercedes, costano molto meno qui che in Europa. La seconda ragione addotta dagli ottimisti è che se l'economia Usa entra in recessione, subito i prezzi del petrolio crolleranno perché gli Usa sono il maggior consumatore al mondo di greggio (bruciano un quarto della produzione mondiale). La terza ragione è che quel che conta è l'inflazione percepita, non quella reale: e negli Usa la Federal Riserve e gli economisti usano come indice quello della Core Inflation, cioè un indice il cui paniere è depurato dai prezzi degli alimentari e da quelli dell'energia. Ma intanto, l'importanza relativa degli Usa come consumatori è scesa negli ultimi anni con l'apparire sulla scena di nuove potenze economiche come l'India o la Cina (che da sola consuma il 9% del greggio mondiale): non è quindi detto che una recessione americana faccia automaticamente ribassare il petrolio, tanto più se - come ormai sembra sempre più probabile - vi sarà in primavera un attacco all'Iran con il conseguente terremoto del mercato petrolifero. E poi, per me che vado a fare la spesa nei supermercati, mangio nei ristoranti medi e dormo negli alberghi economici,e non ho nessuna Audi o Bmw da comprare, da un anno all'altro l'inflazione la sperimento di persona. E per la middle class, più soldi spesi in benzina e riscaldamento significano minori possibilità di consumo e quindi, in fin dei conti, un rallentamento dell'economia che non può essere escluso dalla recente altalena dei dati sull'occupazione.
Il prezzo che Bernake rischia di far pagare agli Stati uniti, per salvare il sistema bancario e gli azionisti, è di portare gli Usa nel bel mezzo di una «stagflazione», termine un tempo assai alla moda, e che sembrava relegato in soffitta: mentre di solito l'inflazione è l'effetto indesiderato di un boom economico, e la recessione di solito va di pari passo con la deflazione, con la stagflazione si ha insieme stagnazione e inflazione: «Ecco perché - conclude Geoffrey Smith - credo che le prossime elezioni presidenziali, tra un anno, si giocheranno sull'economia molto di più di quanto sia avvenuto nel 2004 quando, eccezionalmente, i temi centrali furono di società, di cultura, di guerra».
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