Rebus statistici, razze inesistenti
Pregiudizi, paure e strumentalizzazioni nel trattare i risultati del sondaggio di Eurobarometro. Eppure le statistiche sono leggibili per chiunque, se si usano gli strumenti giusti: quelli scientifici. Che smontano senza pietà anche le ricorrenti balle sull'esistenza delle «razze»
23 novembre 2003
Franco Carlini
Fonte: Il Manifesto - 23 Novembre 2003
«In tv non s'era mai sentito dire `razza ebraica': neanche
i capi palestinesi usano queste espressioni». Con queste parole Giorgio Rumi,
lo studioso cattolico inopinatamente proiettato nel ruolo dei consigliere di amministrazione
della Rai, ha criticato la trasmissione di Sabina Guzzanti. In quanto cattolico
egli probabilmente ha una grande coda di paglia, se si pensa all'antisemitismo
che ha percorso la cultura della chiesa fino agli anni più recenti (ricordate
la preghiera cattolica per i «perfidi ebrei»? Fu solo nel 1959 che Giovanni
XXIII finalmente disse «Non voglio più sentirle, queste parole»).
La stessa espressione usata da Guzzanti è stata criticata dalla comunità
ebraica milanese, ma per fortuna le due parti dialogheranno la settimana prossima.
Guzzanti spiegherà ciò che peraltro era già chiarissimo a chi non
avesse il pregiudizio negli orecchi, ma che vale la pena di esaminare in dettaglio
anche in queste pagine perché ha almeno due risvolti scientifici, l'uno genetico,
l'altro matematico-statistico. Con ordine dunque: un sondaggio di Eurobarometro,
realizzato da EOS Gallup Europe, è stato condotto per tastare il polso dei
cittadini europei a proposito di «Iraq e pace nel mondo» e i materiali
sono disponibili all'indirizzo Internet http://europa.eu.int/comm/public_opinion/flash/fl151_iraq_full_report.pdf.
Il sondaggio, come dice il titolo, cercava di evidenziare l'atteggiamento dei cittadini europei verso quella guerra e verso il dopo guerra. Tra le domande principali c'erano queste: «Oggi pensate che l'intervento militare degli Stati Uniti e dei loro alleati in Iraq fosse del tutto giustificato, abbastanza giustificato, abbastanza non giustificato, del tutto non giustificato ?». Il 68 per cento degli europei ha giudicato non giustificato o abbastanza non giustificato l'intervento (41+27). E ancora: «Secondo voi a chi deve essere affidato il compito di ricostruire l'Iraq?». E chi dovrebbe finanziarlo? Chi dovrebbe assicurare la sicurezza e chi gestire la transizione a un governo sovrano? La domanda finita sotto accusa era la penultima, la numero 10, e suonava così: «Per ognuno dei seguenti paesi dite, secondo la vostra opinione, se rappresenta o no una minaccia alla pace nel mondo». Seguiva una seguente lista di quindici paesi, ogni volta presentata in ordine diverso e casuale, per evitare effetti legati all'ordine di presentazione, e ogni intervistato poteva indicare come pericoloso più di un paese (al limite tutti), specificando se del tutto pericoloso, abbastanza pericoloso, abbastanza non pericoloso, niente affatto pericoloso.
Come noto i risultati sono stati questi (tra parentesi il numero percentuale di persone che hanno indicato quel tale paese come pericoloso alla pace nel mondo, del tutto o abbastanza ): Israele (41+18=59), Iran (53), Corea del Nord (53), Stati Uniti (53), Iraq (52), Afghanistan (50), Pakistan (48), Siria (37), Libia (36), Arabia Saudita (36), Cina (30), India (22), Russia (21), Somalia (16), UE (8). Questa domanda del sondaggio è stata giudicata ambigua (Renato Mannheimer e molti altri) o addirittura razzista e segnata da antisemitismo. Secondo alcuni il semplice fatto di inserire Israele nell'elenco era criticabile, ma questa obiezione non regge perché anche se si è convinti che una tal cosa sia buona e sana (un prodotto come un paese), i sondaggi si fanno proprio per capire se tale convinzione è suffragata dalla percezione altrui oppure no. Altri critici hanno invece giudicato allarmanti le risposte, perché segnate da antisemitismo. Sabina Guzzanti, nel programma ora incredibilmente sottoposto a censura preventiva da un unanime Consiglio di Amministrazione della Rai, aveva difeso la neutralità della domanda: essa sarebbe stata razzista e antisemita qualora avessero chiesto se la «razza ebraica» era un pericolo per la pace nel mondo, mentre invece la domanda, per Israele come per la Somalia e tutti gli altri, si riferiva al «paese». Certamente, aggiungiamo noi, sarebbe suonata razzista anche se avesse chiesto se gli ebrei (o gli arabi) sono una minaccia: molto meglio riferirsi ai paesi anziché ai popoli. Per queste parole Guzzanti viene criticata dallo storico Rumi e la critica è davvero paradossale perché l'attrice ha esattamente sostenuto quello che abbiamo imparato ormai da molto tempo e cioè che l'uso dell'espressione «razza» è esso stesso un fatto razzista.
Luca Cavalli Sforza, il grande genetista delle popolazioni che opera alla Stanford university ha spiegato da tempo anche al grande pubblico e cioè che le razze semplicemente non esistono: tutti siamo figli di un unico ceppo che uscì dall'Africa per popolare il mondo e le differenze nei caratteri fisici che fanno molti svedesi biondi con i capelli lisci e molti nativi australiani scuri con i capelli crespi sono dovute a pochissimi geni: le somiglianze genetiche sono ben più grandi delle diversità, anche se l'apparenza del fenotipo può apparire vistosamente differente. Si potrà al massimo parlare di popolazioni, magari per indicare delle persone che condividono un sottoinsieme di geni più stretto, ma anche queste restano differenze da poco: tutti in realtà siamo meticci e bastardi. Ovviamente ci si può autodefinire come tirolesi o siculi, ebrei o Maori facendo riferimento alla propria storia e cultura, ma è sbagliato farlo in rapporto alle discendenze, patri- o matri-lineari che siano. Al massimo il comune patrimonio di geni è il contesto in cui una popolazione si costruisce e si rafforza, ma di tutti i fattori è certo quello meno significante. In ogni caso usare il termine razza serve soltanto a tracciare delle barriere tra sé e gli altri, offensive o difensive che siano (come fanno alcuni lumbard nei confronti del resto d'Italia e del mondo). E dunque, diversamente da quello che pensa Giorgio Rumi, l'uso del termine «razza ebraica», in televisione come su questa pagina, è certamente lecito e anzi opportuno, quando lo si faccia per stigmatizzare il razzismo e in particolare l'antisemitismo. Solo un sovrappiù di schieramento partitico che Rumi sembra avere fatto proprio, abbandonando il suo ruolo di consigliere indipendente, può far sì che uno studioso come lui sostenga l'insostenibile tesi enunciata all'inizio di questo pezzo.
Tra quelli che non hanno letto e studiato il questionario di Eurobarometro sembra esserci purtroppo anche il rabbino emerito Elio Toaff. Questa la sua dichiarazione recente: «Gli ebrei sono ritenuti dalla maggioranza degli europei intervistati la più grande minaccia per la pace». Anche in questo caso va ricordato che i sondaggi sono una cosa seria e che da quello condotto da Eurobarometro non si trae in nessun modo la conseguenza che Israele viene giudicato dalla maggioranza degli europei il paese più pericoloso. Non era stata chiesta infatti una graduatoria di pericolosità, ma bensì da dove venissero i pericoli per la pace, ammettendo risposte multiple. A questa domanda 59 europei su cento hanno giudicato che Israele lo sia, insieme ad altri, con percentuali anch'esse assai elevate.
Ma a questo punto i dati andrebbero esaminati da vicino, per capire di più e soprattutto per trovare degli indizi (in statistica non si hanno prove, ma solo delle probabilità) che questo giudizio così severo non sia attribuibile solo alla politica del governo Israeliano, ma contenga anche un antisemitismo, recente o di fondo. Facciamo un'ipotesi certamente estrema e irrealistica, ma teoricamente possibile: immaginiamo che molti europei (53) giudichino Stati Uniti, Corea del Nord, Iran e Israele pericolosi; immaginiamo anche che a questi voti di biasimo se ne aggiungano quelli di altri 6 europei critici verso Israele, magari di persone di destra che invece appoggiano gli Stati Uniti, ma sono profondamente antisemite. Le cose certamente non sono andate così, ma lo si potrebbe eventualmente capire solo scavando nelle risposte, ossia vedendo quali altri voti negativi hanno dato quelli che hanno giudicato Israele pericoloso. La tecnica per farlo si chiama correlazione. Anche dalla tabelle pubblicamente disponibili emergono comunque degli indizi: le risposte che vengono da alcuni paesi danno percentuali di critica elevate, ma simili, a Stati Uniti e Israele; è il caso di Svezia, Finlandia, Irlanda. Per esempio i finlandesi sono addirittura sopra la media europea nel giudizio negativo su Israele (62), ma sono altrettanto critici verso gli Usa (60). In questo caso non sembra probabile che l'antisemitismo sia il fattore prevalente. Più preoccupante, probabilmente il caso della Germania, dove i voti per Israele sono 65 e quelli per gli Stati Uniti 45; si tratta di ben 20 punti di scarto, ovvero ci sono 20 persone che criticano Israele e non gli Stati Uniti e questo scarto è probabile che abbia radici nell'antisemitismo e non già nella critica alla attuale politica israeliana. Un'analisi di dettaglio da parte dello stesso Eurobarometro o la messa in pubblico dei risultati completi servirebbe a disinquinare il dibattito da interpretazioni pregiudiziali e aiuterebbe tutti a capire dove intervenire.
Amos Luzzatto è tra quelli che sembra attribuire almeno in parte la responsabilità di un così critico giudizio verso Israele a un'informazione europea non equilibrata. «Se in televisione si fa vedere un carro armato israeliano e un bambino palestinese, allora è chiaro dove va la simpatia dello spettatore». Purtroppo le cose non vanno così. Le posizioni più critiche verso Israele nel sondaggio derivano dalla fascia di popolazione più colta e in ogni caso tutte le televisioni d'Europa hanno fatto vedere correttamente e puntualmente tutte le immagini, anche le più crude, delle stragi di civili israeliani innocenti compiute in questi anni. Il bilancio dei morti è sempre tragico e semmai andrebbe riconosciuto onestamente che poco abbiamo visto di Jenin e meno ancora di Rachel Corrie, la pacifista americana schiacciata da un bulldozer mentre cercava di impedire una demolizione di case. In quei giorni, per esempio, il sito della Cnn dedicava 15 pezzi alla giovane donna soldato Jessica Lynch, ferita e liberata in Iraq, mentre l'altrettanto giovane e altrettanto americana Rachel Corrie, compariva due volte soltanto. Di quella morte e dei suoi responsabili nulla si è più saputo e questa è anche colpa di tutti noi che facciamo i giornalisti.
Il fatto è che i media sono troppo spesso la prima scusa che dirigenti d'azienda e politici assumono volentieri come responsabili del fatto che «non sono capiti» o adeguatamente rappresentati. In questo caso sono tutti uguali, Berlusconi come D'Alema, Bill Gates come Luzzatto. Noi giornalisti di fronte a queste critiche non dobbiamo indignarci: fanno parte del mestiere, ma sarà utile far notare a chi le formula che a parte i casi gravi di consapevole disinformazione, attribuire ai media la colpa della propria cattiva immagine sarà forse consolatorio, ma è del tutto inutile. I giornali magari saranno prevenuti verso la tale marca di tortellini, ma se anche i sondaggi danno risultati negativi, forse è il ripieno che va ripensato e non solo l'immagine.
Il sondaggio, come dice il titolo, cercava di evidenziare l'atteggiamento dei cittadini europei verso quella guerra e verso il dopo guerra. Tra le domande principali c'erano queste: «Oggi pensate che l'intervento militare degli Stati Uniti e dei loro alleati in Iraq fosse del tutto giustificato, abbastanza giustificato, abbastanza non giustificato, del tutto non giustificato ?». Il 68 per cento degli europei ha giudicato non giustificato o abbastanza non giustificato l'intervento (41+27). E ancora: «Secondo voi a chi deve essere affidato il compito di ricostruire l'Iraq?». E chi dovrebbe finanziarlo? Chi dovrebbe assicurare la sicurezza e chi gestire la transizione a un governo sovrano? La domanda finita sotto accusa era la penultima, la numero 10, e suonava così: «Per ognuno dei seguenti paesi dite, secondo la vostra opinione, se rappresenta o no una minaccia alla pace nel mondo». Seguiva una seguente lista di quindici paesi, ogni volta presentata in ordine diverso e casuale, per evitare effetti legati all'ordine di presentazione, e ogni intervistato poteva indicare come pericoloso più di un paese (al limite tutti), specificando se del tutto pericoloso, abbastanza pericoloso, abbastanza non pericoloso, niente affatto pericoloso.
Come noto i risultati sono stati questi (tra parentesi il numero percentuale di persone che hanno indicato quel tale paese come pericoloso alla pace nel mondo, del tutto o abbastanza ): Israele (41+18=59), Iran (53), Corea del Nord (53), Stati Uniti (53), Iraq (52), Afghanistan (50), Pakistan (48), Siria (37), Libia (36), Arabia Saudita (36), Cina (30), India (22), Russia (21), Somalia (16), UE (8). Questa domanda del sondaggio è stata giudicata ambigua (Renato Mannheimer e molti altri) o addirittura razzista e segnata da antisemitismo. Secondo alcuni il semplice fatto di inserire Israele nell'elenco era criticabile, ma questa obiezione non regge perché anche se si è convinti che una tal cosa sia buona e sana (un prodotto come un paese), i sondaggi si fanno proprio per capire se tale convinzione è suffragata dalla percezione altrui oppure no. Altri critici hanno invece giudicato allarmanti le risposte, perché segnate da antisemitismo. Sabina Guzzanti, nel programma ora incredibilmente sottoposto a censura preventiva da un unanime Consiglio di Amministrazione della Rai, aveva difeso la neutralità della domanda: essa sarebbe stata razzista e antisemita qualora avessero chiesto se la «razza ebraica» era un pericolo per la pace nel mondo, mentre invece la domanda, per Israele come per la Somalia e tutti gli altri, si riferiva al «paese». Certamente, aggiungiamo noi, sarebbe suonata razzista anche se avesse chiesto se gli ebrei (o gli arabi) sono una minaccia: molto meglio riferirsi ai paesi anziché ai popoli. Per queste parole Guzzanti viene criticata dallo storico Rumi e la critica è davvero paradossale perché l'attrice ha esattamente sostenuto quello che abbiamo imparato ormai da molto tempo e cioè che l'uso dell'espressione «razza» è esso stesso un fatto razzista.
Luca Cavalli Sforza, il grande genetista delle popolazioni che opera alla Stanford university ha spiegato da tempo anche al grande pubblico e cioè che le razze semplicemente non esistono: tutti siamo figli di un unico ceppo che uscì dall'Africa per popolare il mondo e le differenze nei caratteri fisici che fanno molti svedesi biondi con i capelli lisci e molti nativi australiani scuri con i capelli crespi sono dovute a pochissimi geni: le somiglianze genetiche sono ben più grandi delle diversità, anche se l'apparenza del fenotipo può apparire vistosamente differente. Si potrà al massimo parlare di popolazioni, magari per indicare delle persone che condividono un sottoinsieme di geni più stretto, ma anche queste restano differenze da poco: tutti in realtà siamo meticci e bastardi. Ovviamente ci si può autodefinire come tirolesi o siculi, ebrei o Maori facendo riferimento alla propria storia e cultura, ma è sbagliato farlo in rapporto alle discendenze, patri- o matri-lineari che siano. Al massimo il comune patrimonio di geni è il contesto in cui una popolazione si costruisce e si rafforza, ma di tutti i fattori è certo quello meno significante. In ogni caso usare il termine razza serve soltanto a tracciare delle barriere tra sé e gli altri, offensive o difensive che siano (come fanno alcuni lumbard nei confronti del resto d'Italia e del mondo). E dunque, diversamente da quello che pensa Giorgio Rumi, l'uso del termine «razza ebraica», in televisione come su questa pagina, è certamente lecito e anzi opportuno, quando lo si faccia per stigmatizzare il razzismo e in particolare l'antisemitismo. Solo un sovrappiù di schieramento partitico che Rumi sembra avere fatto proprio, abbandonando il suo ruolo di consigliere indipendente, può far sì che uno studioso come lui sostenga l'insostenibile tesi enunciata all'inizio di questo pezzo.
Tra quelli che non hanno letto e studiato il questionario di Eurobarometro sembra esserci purtroppo anche il rabbino emerito Elio Toaff. Questa la sua dichiarazione recente: «Gli ebrei sono ritenuti dalla maggioranza degli europei intervistati la più grande minaccia per la pace». Anche in questo caso va ricordato che i sondaggi sono una cosa seria e che da quello condotto da Eurobarometro non si trae in nessun modo la conseguenza che Israele viene giudicato dalla maggioranza degli europei il paese più pericoloso. Non era stata chiesta infatti una graduatoria di pericolosità, ma bensì da dove venissero i pericoli per la pace, ammettendo risposte multiple. A questa domanda 59 europei su cento hanno giudicato che Israele lo sia, insieme ad altri, con percentuali anch'esse assai elevate.
Ma a questo punto i dati andrebbero esaminati da vicino, per capire di più e soprattutto per trovare degli indizi (in statistica non si hanno prove, ma solo delle probabilità) che questo giudizio così severo non sia attribuibile solo alla politica del governo Israeliano, ma contenga anche un antisemitismo, recente o di fondo. Facciamo un'ipotesi certamente estrema e irrealistica, ma teoricamente possibile: immaginiamo che molti europei (53) giudichino Stati Uniti, Corea del Nord, Iran e Israele pericolosi; immaginiamo anche che a questi voti di biasimo se ne aggiungano quelli di altri 6 europei critici verso Israele, magari di persone di destra che invece appoggiano gli Stati Uniti, ma sono profondamente antisemite. Le cose certamente non sono andate così, ma lo si potrebbe eventualmente capire solo scavando nelle risposte, ossia vedendo quali altri voti negativi hanno dato quelli che hanno giudicato Israele pericoloso. La tecnica per farlo si chiama correlazione. Anche dalla tabelle pubblicamente disponibili emergono comunque degli indizi: le risposte che vengono da alcuni paesi danno percentuali di critica elevate, ma simili, a Stati Uniti e Israele; è il caso di Svezia, Finlandia, Irlanda. Per esempio i finlandesi sono addirittura sopra la media europea nel giudizio negativo su Israele (62), ma sono altrettanto critici verso gli Usa (60). In questo caso non sembra probabile che l'antisemitismo sia il fattore prevalente. Più preoccupante, probabilmente il caso della Germania, dove i voti per Israele sono 65 e quelli per gli Stati Uniti 45; si tratta di ben 20 punti di scarto, ovvero ci sono 20 persone che criticano Israele e non gli Stati Uniti e questo scarto è probabile che abbia radici nell'antisemitismo e non già nella critica alla attuale politica israeliana. Un'analisi di dettaglio da parte dello stesso Eurobarometro o la messa in pubblico dei risultati completi servirebbe a disinquinare il dibattito da interpretazioni pregiudiziali e aiuterebbe tutti a capire dove intervenire.
Amos Luzzatto è tra quelli che sembra attribuire almeno in parte la responsabilità di un così critico giudizio verso Israele a un'informazione europea non equilibrata. «Se in televisione si fa vedere un carro armato israeliano e un bambino palestinese, allora è chiaro dove va la simpatia dello spettatore». Purtroppo le cose non vanno così. Le posizioni più critiche verso Israele nel sondaggio derivano dalla fascia di popolazione più colta e in ogni caso tutte le televisioni d'Europa hanno fatto vedere correttamente e puntualmente tutte le immagini, anche le più crude, delle stragi di civili israeliani innocenti compiute in questi anni. Il bilancio dei morti è sempre tragico e semmai andrebbe riconosciuto onestamente che poco abbiamo visto di Jenin e meno ancora di Rachel Corrie, la pacifista americana schiacciata da un bulldozer mentre cercava di impedire una demolizione di case. In quei giorni, per esempio, il sito della Cnn dedicava 15 pezzi alla giovane donna soldato Jessica Lynch, ferita e liberata in Iraq, mentre l'altrettanto giovane e altrettanto americana Rachel Corrie, compariva due volte soltanto. Di quella morte e dei suoi responsabili nulla si è più saputo e questa è anche colpa di tutti noi che facciamo i giornalisti.
Il fatto è che i media sono troppo spesso la prima scusa che dirigenti d'azienda e politici assumono volentieri come responsabili del fatto che «non sono capiti» o adeguatamente rappresentati. In questo caso sono tutti uguali, Berlusconi come D'Alema, Bill Gates come Luzzatto. Noi giornalisti di fronte a queste critiche non dobbiamo indignarci: fanno parte del mestiere, ma sarà utile far notare a chi le formula che a parte i casi gravi di consapevole disinformazione, attribuire ai media la colpa della propria cattiva immagine sarà forse consolatorio, ma è del tutto inutile. I giornali magari saranno prevenuti verso la tale marca di tortellini, ma se anche i sondaggi danno risultati negativi, forse è il ripieno che va ripensato e non solo l'immagine.
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