L'incredibile storia di Europa7 e Rete4

Questa è la storia di Francesco Di Stefano, proprietario di Europa 7. Di Stefano aveva un sogno e una convinzione. Il sogno era una tv nazionale tutta sua, per fare vera concorrenza ai giganti Rai e Mediaset. La convinzione era che i partiti non possono rovesciare le leggi dello Stato
Paolo Dimalio

Prima parte

La storia inizia nel luglio 1997, quando il governo Prodi vara la legge Maccanico sul sistema televisivo. Tre anni prima la Consulta disse che tre reti per il Cavaliere sono troppe. L’etere è un bene pubblico, e deve ospitare quante più voci possibili. Entro due anni, sentenziò la Corte, Rete 4 deve cedere le frequenze e andare sul satellite.

Quando passa la Maccanico (luglio ’97) la terza rete del Biscione dovrebbe già essere sul satellite. Invece è sempre lì, avvinghiata all’etere. Il provvedimento quindi serve a mettere una pezza al ritardo dei partiti dando lo sfratto a Rete 4.

La legge Maccanico impone limiti antitrust draconiani: nessun privato può controllare più del 20% delle frequenze, massimo due canali. Mediaset ne ha uno di troppo. Rete 4 quindi è “eccedente” (eccede le soglie antitrust) e deve trasferirsi sul satellite, proprio come stabilito dalla Consulta. La legge, però, dimentica di specificare la data. Fede &_amp; Co lasceranno l’etere quando l’Agcom (l’autorità garante delle comunicazioni) avrà accertato un “congruo sviluppo” della TV satellitare. Questo è tutto, nessuna scadenza.

Grazie a questo escamotage, Rete 4 esce dalla porta per rientrare dalla finestra. L’Agcom infatti è una struttura superlottizzata. Al vertice c’è una commissione di 9 membri, tutti di nomina politica: 4 all’opposizione, 4 alla maggioranza, più il presidente scelto dal Premier. Saranno i partiti a decidere il destino di Rete 4, senza “lacci e lacciuoli” legislativi. All’epoca della nostra storia, a capo dell’Authority troviamo Enzo Cheli, nominato da D’Alema.

La legge Maccanico bandisce una gara per le concessioni a trasmettere su scala nazionale. Per Francesco Di Stefano, una vita spesa nella tv locale, è l’occasione della vita. La gara è aperta a tutti: in palio la possibilità di trasmettere da Bolzano a Palermo.

Il 12 dicembre ’98 l’Agcom mette il regolamento nero su bianco. Tra i requisiti, “il rispetto delle disposizioni sul divieto di posizioni dominanti” (art. 7). La Maccanico impone il tetto del 30% alla raccolta pubblicitaria. Alla vigilia della gara, come vedremo, Mediaset divora il 36% della reclame. Lo accerterà l’Agcom nel giugno 2000, a giochi fatti e a concessioni già assegnate. Se Cheli avesse fatto le verifiche per tempo, il Cavaliere sarebbe stato fuori gara.

Il regolamento si occupa anche delle reti “eccedenti”, cioè Rete 4: “Se collocate utilmente in graduatoria – è scritto all’art. 17 - possono proseguire in via transitoria nell’esercizio delle trasmissioni”. Traduzione: se Rete 4 otterrà una concessione, nessuna la caccerà dall’etere. Per la verità, ci resterà anche senza la concessione. Ma questo Di Stefano non poteva proprio immaginarlo. Nel regolamento è anche scritto che “le concessioni determinano altresì le frequenze”. E come potrebbe essere altrimenti? Le concessioni senza le frequenze sono carta straccia. Ma nella patria del “diritto e del rovescio”, tutto può accadere.

Le frequenze dovrebbero trovarsi nella delibera Agcom del 30 ottobre ‘98. Il titolo e’: “Piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva”. Un mese prima della gara Antonio Micciarelli, direttore generale del Ministero delle Comunicazioni, scopre che nella delibera Agcom le frequenze non ci sono. E’ il 28 giugno ‘99. Il 24 luglio Micciarelli deve rilasciare le concessioni. Così prende carta e penna e scrive a Cheli:

L’atto amministrativo con cui questo ministero deve rilasciare le concessioni dovrebbe indicare, nell’apposito allegato tecnico, le postazioni e le caratteristiche tecniche degli impianti pianificati nonché le relative frequenze [...] tenuto conto che tali dati non sono contenuti nel “Piano nazionale di assegnazione delle frequenze” [...]si prega di far conoscere le frequenze attribuite alle undici reti nazionali individuate dal citato piano di assegnazione, da assegnare ai concessionari privati e alla concessionaria di servizio pubblico radiotelevisivo”.

Cheli risponde il 23 luglio, a 24 ore dalla gara. Il presidente dell’Agcom ammette che il Piano non è pronto. E dov’è il problema? Intanto date le concessioni, suggerisce Cheli a Micciarelli, per le frequenze si vedrà. Nella lettera dell’Authority, infatti, si parla di “opportunità, in fase di rilascio delle concessioni alle emittenti operanti in ambito nazionale, di non assegnare i canali di funzionamento dei singoli impianti, onde evitare disagi e complicazioni al momento dell’attuazione del piano”.

Dare concessioni televisive senza le frequenze è un assurdo logico. E’ come autorizzare qualcuno a stampare un giornale senza la carta. I conti tornano solo se chi ottiene la concessione una frequenza già ce l’ha. Strana coincidenza: tutti i vincitori della gara ne hanno una. Tranne Di Stefano.

Il verdetto del Ministero arriva il 24 luglio. 13 i concorrenti in gara, 8 le concessioni in palio (in tutto sono 11, ma 3 spettano alla Rai). Due vanno a Canale 5 e Italia1. Cecchi Gori fa il bis con Tmc1 e Tmc2. Tre concessioni invece se le spartiscono Europa 7, Tele + chiaro e Telemarket Elefante. In tutto fanno 7. Una infatti resta nel cassetto, visto che le altre emittenti non rispettano i requisiti. Rete4 e Tele + nero sono “eccedenti”. ReteCapri e 7 Plus (l’altra tv di Di Stefano) non hanno i bilanci a posto. Mentre la proprietà di Rete A e Rete Mia è extracomunitaria.

Di Stefano gioisce a metà. E’ salito nell’olimpo della tv nazionale, ma senza 7 Plus. Il 24 luglio, quando vince la gara, questo è il suo grande cruccio: dover rinunciare ad una delle sue creature. Del carteggio fra Cheli e Micciarelli, Di Stefano è all’oscuro. Ancora non sa che di aver ottenuto una concessione senza frequenza. E come potrebbe, visto che il regolamento dell’Agcom parla chiaro: “le concessioni determinano altresì le frequenze”.

L’inghippo viene a galla tre mesi dopo, il 28 ottobre ‘99, quando le concessioni sono rilasciate con decreto ministeriale. Il patron di Europa 7 pensa di trovarci le frequenze e le postazioni dove collocare gli impianti. Cioè il necessario per andare in onda. Non è così. Nel decreto è scritto solo che la rete di trasmissione dovrà essere “ubicata nei siti individuati nel Piano nazionale di assegnazione delle frequenze”. Ma del Piano non c’è traccia. Verrà messo a punto “entro il termine di 24 mesi”, dice il documento ministeriale. Ma “potrà essere prorogato di altri 12 mesi, qualora esistano impedimenti oggettivi”.

Identico decreto arriva alle sei emittenti che come Europa 7 hanno vinto la gara. Nulla di preoccupante. Loro le frequenze ce l’hanno già. Da anni trasmettono su scala nazionale e continueranno a farlo. L’unico con un pugno di mosche in mano è Di Stefano, proprietario di un tv fantasma.

A Rete4 non arriva alcun decreto di concessione. Negli uffici del Biscione, viene recapitato un documento che gli azzeccagarbugli ministeriali chiamano “abilitazione speciale”. C’è scritto che la terza rete del Biscione è “eccedente”, quindi deve abbandonare il campo. Ma in via transitoria, può tenersi le frequenze continuando ad occupare l’etere.

La situazione è questa. Si è svolta una gara pubblica, in palio la televisione nazionale. Europa 7 vince, Rete4 perde. Quindi fuori Berlusconi, dentro Di Stefano. Invece no. il Ministro delle Comunicazioni, in virtù di una “abilitazione speciale”, ribalta il risultato a tavolino: chi ha la concessione resta al palo, chi non ce l’ha va in onda.

Piccola parentesi. Nel governo D’Alema il Ministro delle Comunicazioni è Salvatore Cardinale. Chi è costui? Un passato nella Dc siciliana, negli anni ’80 fu segretario provinciale dello Scudo crociato a Caltanissetta. In poco tempo scala le vette della politica nazionale facendo la spola tra destra e sinistra: senatore ai tempi della “balena bianca”, col crollo della Prima Repubblica si accasa nel Ccd di Casini al fianco di Berlusconi. Poi nel ‘98 passa nell’Udr di Cossiga e dà la fiducia a D’Alema, che lo ricompensa col Ministero delle Comunicazioni. Nel ’99 transita per l’Udeur di Mastella e l’anno dopo per il Ppi, prima di contribuire alla nascita della Margherita in Sicilia. Infine, il grande salto nel Partito Democratico, alla corte di Veltroni. Con Mastella e Cuffaro, Cardinale era tra gli invitati alle nozze del boss di Villabate Francesco Campanella (ora pentito). Chiusa parentesi sul Ministro Cardinale. Solo per tracciare l’identikit di chi rilasciò a Rete4, priva di concessione, l’ “abilitazione speciale” ad andare in onda.

E’ questa la pezza legale che consente al Biscione di tenersi le frequenze, condannando Di Stefano all’esilio dall’etere. Ma può un atto ministeriale rovesciare l’esito di una gara pubblica, sovvertire leggi e sentenze della Corte costituzionale?

Seconda parte

Con una concessione priva di frequenze, di Stefano chiede subito spiegazioni al ministro e all’Agcom. Invia una raccomandata dai toni concilianti. Domanda come mai Rete 4 va in onda e lui no. Dalle alte sfere, silenzio di tomba. Di Stefano insiste e il 3 dicembre invia un “atto di messa in mora e diffida”. Allora si fa vivo il direttore generale Micciarelli. La sue risposta è tutto un programma: ribadisce che le nuove frequenze saranno assegnate quando Cheli avrà messo a punto il Piano nazionale. Ci vorranno due o tre anni. Ma non c’è problema, perché nel frattempo si potrà continuare a trasmettere sulle vecchie frequenze. Se poi Di Stefano, patron di un TV locale, una frequenza nazionale non ce l’ha, il problema è suo. Non spetta allo Stato risolvere le grane di un parvenu. L’idea di trasferire ad Europa 7 le frequenze di Rete 4, non sfiora nemmeno i pensieri di Micciarelli.

Di Stefano però non molla, e il 25 gennaio invia un’altra diffida. Le frequenze ci sono, incalza Di Stefano, basta vederle. Perché aspettare il Piano dell’Agcom quando si potrebbe toglierle a Rete 4, che una concessione non ce l’ha? Cheli e Cardinale non battono ciglio.

A parlare sono i tribunali. All’indomani della gara, Di Stefano aveva contestato al Tar del Lazio l’esclusione di 7 Plus, la sua seconda emittente. Nel 2000 il tribunale amministrativo gli dà torto. Ma nel 2001 il Consiglio di Stato rovescia la decisione del Tar e stabilisce che l’ottava concessione, quella rimasta nel cassetto del ministro Cardinale, spetta proprio a 7 Plus. Di Stefano la sta ancora aspettando.

Di fronte al mutismo delle istituzioni, il proprietario di Europa 7 va in pressing sull’Agcom. Tra i requisiti di gara, c’era il rispetto dei vincoli antitrust: 20% delle frequenze, 30% della pubblicità. Che Mediaset avesse una frequenza di troppo era alla luce del sole. Spettava all’Authority, invece, verificare le quote di reclame. Ma Cheli se ne lava le mani. L’indagine sulla ripartizione della torta pubblicitaria parte nel dicembre ‘99, due mesi dopo i decreti di concessione, un mese prima che di Di Stefano inviasse un’ingiunzione all’Agcom. I risultati vengono pubblicati nel giugno 2000: Mediaset divora il 36% delle risorse, in barba alle norme sulla concorrenza. Il Biscione quindi è due volte illegale: ha una frequenza in più e mangia troppa pubblicità. Se l’Authority avesse fatto le verifiche prima della gara, il Cavaliere non avrebbe potuto ottenere nemmeno una concessione.

Il patron di Europa 7 vuole inchiodare Cheli alle sue responsabilità. La legge Maccanico impone il trasloco di Rete4 sul satellite, ma solo dopo che l’Agcom avrà accertato un “congruo” sviluppo della TV satellitare. La legge è del luglio ’97. A dicembre del ’99, fa notare Di Stefano, le parabole sono passate da 750 mila a 2 milioni e 240 mila. Un incremento del 300%. E non e’ forse un “congruo” sviluppo? Non per Cheli, che non alza un dito contro Rete 4. Lo fa solo nel 2001, dopo l’ennesima ingiunzione di Di Stefano. A quel punto anche l’Agcom si sveglia. E decide che al 31 dicembre 2003, Fede &_amp; soci dovranno migrare sul satellite. Ma la delibera parla al condizionale e non chiude a nuove proroghe.

Ci pensa la Consulta ad imporre l’ultimatum a Rete 4. A dire il vero, lo aveva già fatto nel ’94, ma i partiti fecero spallucce. Interpellata dal Tar del Lazio (cui era ricorso Di Stefano), nel novembre 2002 la Corte Costituzionale boccia senza appello la legge Maccanico. Sotto accusa l’ennesima proroga al Biscione, senza una data certa per il passaggio sul satellite. La Consulta stabilisce che Rete 4 deve lasciare l’etere entro il 31 dicembre 2003, la data stabilita dall’Agcom. Cheli, però, manteneva la scappatoia dell’ennesima proroga. Per la Corte, invece, quello è il termine “ineludibile”.

Già che c’è, la Consulta fa notare che la Fininvest, in un modo o nell’altro, trasmette “in via transitoria” dall’84, quando Craxi varò il primo decreto Berlusconi. Da allora, un ventennio di "regimi transitori". Ora Berlusconi e Rete 4 sono in un vicolo cieco. La Corte non tollererà nuove dilazioni. Di Stefano esulta. Dal gennaio 2004 Europa 7 non sarà più una TV fantasma. Così crede lui.

Dopo la sentenza della Consulta, Di Stefano incassa un’altra vittoria. Nel 2002 la Commissione europea apre un’indagine sui criteri di assegnazione delle concessioni televisive in Italia. Il patron di Europa 7 si era rivolto all’Ue nel febbraio 2001, per contestare l’ “abilitazione speciale” rilasciata a Rete 4 dal ministro Cardinale. I commissari europei stentano a capire il problema. Sulle prime pensano che Di Stefano abbia fatto ricorso perché ha perso la gara. Quando scoprono che l’imprenditore ha vinto una concessione senza frequenza, restano allibiti.

Con la Consulta e l’Europa alle calcagna, “Sua emittenza” medita vendetta. Dal trono di Palazzo Chigi, del resto, nessuno potrà fermarlo.

Terza parte

Il condono definitivo per Rete 4 è la legge Gasparri. Il meccanismo è semplice. Basta modificare le soglie antitrust et voila: Rete 4 non è più “eccedente” e può tenersi le frequenze, con buona pace di Europa 7.

La Gasparri conferma il limite del 20% delle frequenze avallato dalla Corte. Ma lo spalma sulla tv analogica e digitale. Il problema è che il digitale terrestre ancora non esiste. Niente paura: le Gasparri impone alla Rai di costruire due reti entro il 1 gennaio 2004. Una rete digitale trasporta 5 canali. Significa che al 31 dicembre 2003, quando scade l’ultimatum per Rete 4, i canali televisivi via etere saranno 21 (11 analogici e 10 digitali). Ma anche se la Rai costruisse una sola rete, al Cavaliere andrebbe di lusso. Basta che tra analogico e digitale si arrivi a 15 canali terrestri (cioè via etere). Il 20% di 15 infatti è 3. E 3 sono le reti Mediaset, di colpo perfettamente in regola con l’antitrust. La legge Gasparri è un capolavoro. I costi enormi delle reti digitali cadono tutti sulla Rai, cioè sui contribuenti. Sono i denari pubblici a salvare Rete 4.

Lo stesso escamotage viene applicato per i tetti pubblicitari. La Maccanico stabiliva il limite del 30%. La Gasparri lo abbassa addirittura al 20%. Ma allarga a dismisura la torta pubblicitaria. Il 20% infatti non va calcolato sul mercato televisivo, bensì sul Sic (Sistema integrato delle comunicazioni) che mescola Tv, stampa, cinema, libri, musica, fino ai cartelloni stradali. Il Sic mette in regola Mediaset e le spalanca margini di crescita enormi. D’incanto, il monopolio berlusconiano diviene legale. Ma la Gasparri fa molto di più. Posa una lapide sulle speranze di Europa 7 e congela il duopolio Raiset sine die.

La parola magica è “digitale”. Una frequenza analogica trasporta un solo canale televisivo. Una digitale, come si è visto, ne trasporta 5 (grazie alla compressione del segnale). Nell’era dei bit, quindi, c’è posto per tutti. Che senso ha perder tempo con l’analogico? Meglio rottamare il passato e sgombrare il terreno al digitale terrestre. Così la Gasparri mette definitivamente in soffitta il Piano delle frequenze (analogiche), che Di Stefano attende dal ’98. E stabilisce un principio molto semplice: solo chi trasmette in analogico può costruire una rete digitale. Morale: il digitale terrestre non scalfirà il duopolio Raiset. E comunque, nell’attesa che i bit decollino, tutto resterà come prima. Rete 4 con le sue frequenze, Di Stefano a mani vuote.

Anche l’Ulivo ha fatto la sua parte. Ad affossare il Piano nazionale delle frequenze, che avrebbe consentito ad Europa 7 di partire, inizialmente è una legga del centrosinistra, la n. 66 del 2001. Poi la Gasparri ci mise su una pietra tombale.

Il provvedimento è bocciato dal presidente Ciampi, che nel dicembre 2003 rifiuta di firmarla rispedendola in Parlamento. Per un attimo, Fede &_amp; Soci rischiano davvero di finire sul satellite. Ma solo per un attimo. La vigilia di Natale, a sette giorni dall’ultimatum della Corte, “Sua emittenza” vara il “decreto salva Rete 4”. Poi una maggioranza blindata approva la Gasparri, praticamente identica al testo bocciato da Ciampi.

Le speranze di Di Stefano sono al lumicino. Il sogno di una tv lontana dai partiti e al servizio dei cittadini definitivamente infranto. Per anni si è schiantato contro un muro di gomma. I partiti lo hanno osteggiato, la grande stampa ignorato.

La scossa arriva dal vecchio continente. Dopo una serie di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, il caso Europa 7 approda sul tavolo Ue. Il 18 luglio 2007, il commissario alla concorrenza Neelie Kroes boccia senza appello la Gasparri, colpevole di favorire le vecchie emittenti nel passaggio dall’analogico al digitale terrestre. La Gasparri, secondo l’antitrust europea, “concede vantaggi ingiustificati agli operatori analogici esistenti”, sbarrando l’ingresso alle nuove antenne. Eurolandia chiama in causa proprio Europa 7. Sotto accusa la norma che “prolunga, sino alla data dello switch-off [la fine dell’analogico], le autorizzazioni per continuare le trasmissioni analogiche terrestri da parte di operatori che non hanno ottenuto la concessione analogica. Tale disposizione - si legge nella relazione Ue - attribuisce a questi operatori un chiaro vantaggio, a danno di altre imprese, in particolare di quelle che, come Europa 7, hanno una concessione analogica ma non possono fornire servizi di trasmissioni analogiche terrestri per mancanza di frequenze”. Il messaggio è chiaro. Dice la Gasparri: finché ci sarà l’analogico, chi non ha la concessione può continuare a trasmettere su frequenze che non gli spettano. E quando l’analogico andrà in pensione, solo chi ha le frequenze avrà diritto alle reti digitali. Per le leggi italiane, Di Stefano non ha scampo.

Dopo la scomunica della Commissione europea, dal Vecchio continente arriva un altro macigno sulla Gasparri e Rete 4. Il 31 gennaio 2007 la Corte di Giustizia europea condanna con parole di fuoco il sistema delle concessioni in Italia. “Tale regime – si legge in una nota diffusa a Bruxelles – non rispetta il principio della libera prestazione di servizi e non segue criteri di selezione obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati”. Per i giudici del Lussemburgo, il regime transitorio che ha permesso a Rete4 di trasmettere senza concessioni è contrario al diritto comunitario.

L’Europa ha emesso il suo verdetto: lo Stato ha derubato Europa 7 delle frequenze che gli spettavano, consegnando la refurtiva a Rete 4. La Corte di giustizia è giunta a questa conclusione malgrado le resistenze dell’Avvocato generale dello Stato italiano, spedito in Lussemburgo dal governo Prodi a perorare la causa della Gasparri. “Legge vergogna”: così la bollò l’Unione in campagna elettorale, promettendo solennemente di abrogarla. Ad urne chiuse, la folgorazione sulla via di Arcore. La legge è intatta, e il centrosinistra l’ha pure difesa dinanzi ai giudici europei. E’ l’ultimo omaggio della “banda Prodi” a “Sua emittenza”. Basta ricordare la legge Maccanico e il cavillo-truffa che espelleva Rete 4 dall’etere senza dire quando. L’ “abilitazione speciale” del Ministro Cardinale. La cancellazione del Piano Nazionale delle frequenze con la legge del 2001. Il silenzio assordante sul caso Europa 7.

Dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea Di Stefano ha chiesto due cose: un maxirisarcimento e che il maltolto gli sia restituito. L’Italia invece rischia una multa da 400 milioni di euro al giorno, se la Gasparri non viene abrogata e le leggi italiane in materia televisiva non si adegueranno alle norme comunitarie. Pagheranno i contribuenti s’intende. Ora la palla passa al governo, cioè con buone probabilità a Berlusconi. Che se tenesse alle casse pubbliche come alle sue tasche, gareggerebbe per il Nobel.


Note: Per approfondimenti: www.europa7.it

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