Rai, storia di una censura di mezza età
Enzo Biagi E' la prima vittima eccellente del diktat berlusconiano da quel di Bulgaria: via dalla Rai lui e Michele Santoro. Un vero «fattaccio», cui Biagi risponde senza peli sulla lingua in una intervista: «E' un regime»
Da un Ugo Gregoretti del 1955 a un Enzo Biagi del 2003, due grandi firme dell'informazione televisiva e un lungo arco temporale per capire cosa è stata l'altra Rai, quella più ruvida e scomoda, quella più censurata. Titolo del reportage Io e la telecamera, 50 anni di inchiesta, firmato da Sigfrido Ranucci e coadiuvato nelle ricerche da Maria Collettini. Ranucci, ricordiamolo, è quel giornalista che recuperò dai francesi la drammatica intervista al giudice Paolo Borsellino, ucciso dopo breve tempo. Si parlava delle responsabilità politiche dei grandi attentati, si parlava di Giovanni Falcone. Una sorta di testamento trasmesso in una puntata del Raggio Verde di Michele Santoro, così indigesto da scatenare l'intervento in trasmissione di Silvio Berlusconi («Santoro si contenga, lei è un dipendente Rai!», urlò il Cavaliere. «Ma non sono un suo dipendente» replicò il giornalista). In questi giorni di celebrazioni un po' bolse, avvolte dall'ipocrisia della grande famiglia Rai, una passeggiata tra i protagonisti più autorevoli del piccolo schermo che raccontano tutti gli ostacoli incontrati nel corso del loro lavoro (facendo anche i nomi dei solerti dirigenti che volevano sbianchettare), è un buon esercizio di memoria.
Si comincia con un Gregoretti doc, mentre su un calesse va a trovare il contadino di Narni che ha vinto la lotteria di Capodanno (siamo in clima). Con Controfagotto (1960), quindicinale di «sguardi sul costume», Gregoretti conosce la prima censura. Lo incuriosisce l'italietta della raccomandazione e fa un "pezzo" su un onorevole che ne aveva il record. L'iniziativa del giornalista non piacque agli inquilini dei piani alti di viale Mazzini. «Con quel servizio credo di aver contribuito alla cacciata di Enzo Biagi che allora dirigeva il Tg1», commenta seduto nel salotto romano. Così come venne censurato un suo reportage sugli immigrati italiani in Argentina. Altro che integrazione: erano partiti come operai specializzati e lui li ritrovò che facevano i mestieri più improbabili (prestigiatore, per esempio), o più innominabili (il malavitoso). Inutile dire che quel reportage non fu mai trasmesso, «così dispose il dirigente Massimo Rendina». Non solo: «Di quella pellicola se ne è persa traccia».
Altro grande nome Rai, Brando Giordani. E' lui a raccontare della stagione d'oro di Tv7 (1964), con le sue luci e gli asfissianti controlli. «Ogni settimana un alto dirigente veniva a controllare personalmente il contenuto del programma, fino allo stesso Ettore Bernabei. Fu proprio per un servizio sui bombardamenti americani su Hanoi, firmato da Furio Colombo, che il direttore del telegiornale Fabiano Fabiani fu costretto ad andarsene».
Poi tocca a Sergio Zavoli, allontanato per un'inchiesta sul Codice Rocco, segue Tg2-Dossier (1979) con Giuseppe Jo Marrazzo, per due volte censurato dal consiglio di amministrazione della Rai. La catena si allunga con Ennio Remondino, protagonista del famoso Speciale Tg1 in cui denunciò i legami tra la Cia e la P2, toccando i fili di Stay-Behind, la struttura parallela anticomunista. Francesco Cossiga si infuriò chiedendone la testa. Allora il Tg1 era diretto dal demitiano Nuccio Fava, e come capocronista c'era Roberto Morrione. Furono entrambi immediatamente allontanati e come direttore del Tg1 fu nominata la persona giusta: Bruno Vespa.
Il mestiere di giornalista in Rai non è costato solo umiliazioni ed emarginazioni. C'è chi, come Ilaria Alpi, ha perso la vita per aver messo il naso e la telecamera nel posto sbagliato. Ancora oggi i genitori non hanno avuto giustizia e accusano gli apparati dello stato di aver nascosto la verità. Naturalmente in una carrellata sull'altra tv un posto in prima fila spetta a Michele Santoro, testa scomoda per la destra e per la sinistra. Quando l'Ulivo era a palazzo Chigi, «Michele chi?» scelse Mediaset e fu l'unico a trasferire il programma sul ponte di Belgrado, sotto le bombe controfirmate dal governo di Massimo D'Alema. Che, insieme a Prodi, disertava il suo talk-show preferendogli gli appetitosi risotti di Porta a Porta. E' storia anche questa.
Si chiude con Biagi. Per lui parla il suo alter-ego, il regista de Il Fatto, Loris Mazzetti. Riascoltare quella sigla, rivedere la silohuette del vecchio giornalista fa un certo effetto. Viene rimandata in onda la puntata del 18 aprile del 2002, Biagi risponde all'editto bulgaro del Cavaliere. Dice che non se ne andrà, che dovranno cacciarlo. Non ci hanno pensato due volte. Mazzetti ha davanti a sé, nei locali dove si registrava Il fatto ora adibiti alle telepromozioni, un registratore. Nel nastro è incisa un'intervista a Biagi. Gli chiede che aria tira. La sua risposta è secca, come nello stile di chi ha saputo inventare un programma di cinque minuti: «E' un regime».
PS. Il bel programma di Rainews è andato in onda ieri alle sette del mattino su Raitre. Non è censura anche questa?
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