«Le truppe Usa contro i giornalisti»
30 media americani (anche l'Associated Press) accusano il Pentagono: «In Iraq i reporter sotto minaccia fisica»
8 gennaio 2004
Franco Pantanelli
Fonte: Il Manifesto - 8 Gennaio 2004
Qualcuno ricorda l'episodio del 2 novembre scorso, quando
non si capiva se l'elicottero americano Chinok 47 caduto nei pressi di
Fallujiah, in Iraq, con 36 soldati a bordo era stato abbattuto dagli iracheni
(come dicevano i media) o era stato vittima di un incidente (come diceva il Pentagono)?
Non era facile stabilirlo, si disse allora, perché non c'erano «prove».
Non era vero, la prova era depositata nelle foto scattate da David Gilkey del
Detroit Free Press, ma non arrivò mai al pubblico perché quelle
foto gli furono confiscate e distrutte da un soldato della 82ma divisione aviotrasportata,
i cui superiori poi si preoccuparono così tanto della «sicurezza»
sua e di altri colleghi che li sbatterono via, a venti miglia di distanza. E'
uno degli episodi che hanno indotto recentemente una trentina di direttori di
giornali, agenzie, emittenti televisive a scrivere al Pentagono per protestare.
A capeggiare la «rivolta» è Sandy Johnson, la battagliera responsabile
dell'ufficio di Washington dell'Associated Press, stanca di avere a che
fare con i problemi che conitnuamente le vengono posti dagli inviati dell'agenzia
in Iraq. «In nessuna circostanza - si leggere nella lettera - è ammissibile
che un soldato americano confischi e distrugga, pistola alla mano, il materiale
dei giornalisti». E poi racconta a un collega spagnolo: «Nelle ultime
settimane abbiamo avuto una buona dozzina di episodi in cui i soldati hanno requisito
il materiale dei nostri inviati, intimidendoli costantemente e allontanandoli
di proposito dai luoghi in cui le cose accadono». Il Pentagono ha mostrato
di cadere dalle nuvole, ha girato la cosa ai responsabili «in loco»
e il maggiore William Thurnmond, del centro di informazioni delle forze occupanti,
ha ricordato che a tutte le unità fu a suo tempo distribuita una circolare
«con lo specifico divieto di requisire il materilae dei giornalisti»,
ma ha anche detto di essere «cosciente» che «alcuni soldati, a
titolo individuale, non seguono quelle istruzioni». Dove sarà la verità?
Di sicuro, dice Lucy Dalglish, del Comitato dei giornalisti per la libertà
dell'informazione, «la consegna del Pentagono fin dall'inizio di questa guerra
è stata quella di offrire un versione il più addomesticata possibile».
Solo che finché si trattava di raccontare l'avanzata vittoriosa delle truppe americane in Iraq andava tutto bene. L'idea di mettere i giornalisti al seguito delle varie compagnie, quasi un «arruolamento», era stata stata accolta molto bene perché loro avevano modo di mandare articoli e filmati di prima mano, la guerra sui network «vendeva» e almeno fino all'episodio della Jessica Liynch, la soldatessa «liberata» dall'ospedale iracheno con quella che è stata fatta passare per un'ardimentosa azione di commando, tutti erano contenti.
Ora però i giorni della vittoria «facile» sono finiti e la realtà americana in Iraq è quella che è: una forza d'occupazione soggetta a continui attacchi di una resistenza che neppure riesce esattamente a individuare; il numero crescente di morti; l'adozione di tattiche «israeliane» che riempiono le giornate dei soldati americani di episodi da «sporca guerra». E l'idea che tutto ciò venga raccontato, o addirittura filmato, diventa difficile da mandare giù, anche perché i giornalisti non sono più «embedded» con le truppe, e quindi in qualche modo agli ordini dei loro comandanti, ma vanno in giro a curiosare dove gli pare. Non è ormai l'Iraq un Paese libero?
Per qualche tempo loro hanno cercato di barcamenarsi, un po' per la «comprensione» nei confronti dei soldati finiti sotto uno stress incautamente imprevisto da chi li ha mandati lì, un po' per paura che i loro lettori in patria non gradissero e un po' perché dopotutto ciò che contava era mandare i propri servizi anche a costo di qualche limitazione. Ma ora evidentemente si è arrivati a un punto non più tollerabile.
Solo che finché si trattava di raccontare l'avanzata vittoriosa delle truppe americane in Iraq andava tutto bene. L'idea di mettere i giornalisti al seguito delle varie compagnie, quasi un «arruolamento», era stata stata accolta molto bene perché loro avevano modo di mandare articoli e filmati di prima mano, la guerra sui network «vendeva» e almeno fino all'episodio della Jessica Liynch, la soldatessa «liberata» dall'ospedale iracheno con quella che è stata fatta passare per un'ardimentosa azione di commando, tutti erano contenti.
Ora però i giorni della vittoria «facile» sono finiti e la realtà americana in Iraq è quella che è: una forza d'occupazione soggetta a continui attacchi di una resistenza che neppure riesce esattamente a individuare; il numero crescente di morti; l'adozione di tattiche «israeliane» che riempiono le giornate dei soldati americani di episodi da «sporca guerra». E l'idea che tutto ciò venga raccontato, o addirittura filmato, diventa difficile da mandare giù, anche perché i giornalisti non sono più «embedded» con le truppe, e quindi in qualche modo agli ordini dei loro comandanti, ma vanno in giro a curiosare dove gli pare. Non è ormai l'Iraq un Paese libero?
Per qualche tempo loro hanno cercato di barcamenarsi, un po' per la «comprensione» nei confronti dei soldati finiti sotto uno stress incautamente imprevisto da chi li ha mandati lì, un po' per paura che i loro lettori in patria non gradissero e un po' perché dopotutto ciò che contava era mandare i propri servizi anche a costo di qualche limitazione. Ma ora evidentemente si è arrivati a un punto non più tollerabile.
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