Saddam , due minuti di odio

La cattura del dittatore
21 dicembre 2003
Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa - 21 Dicembre 2003
HO provato pietà nel vedere quest'uomo distrutto trattato come una vacca cui si controllano i denti», così ha dichiarato il cardinale Raffaele Martino, presidente della commissione pontificia Giustizia e Pace, subito dopo aver visto le immagini della cattura di Saddam Hussein. Un'immagine che non si dimentica facilmente, per l'indicibile violenza che contiene e per le emozioni contraddittorie che suscita: ecco un dittatore feroce che senz'altro merita di pagare per i propri crimini, ecco il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositori, e tuttavia d'un tratto non sembrava più l'orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignità che poco prima non possedeva, uno sguardo umano di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanità, e precisamente questa umanità è stata imbestialita dai modi dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione. La violenza è indicibile perché non è un'esecuzione, quella ripresa dalle telecamere. È una violenza subdola, tanto più sconcertante: ancor prima del processo e della condanna, si son viste in rapida sequenza due trasformazioni inaudite. Nella prima scorgiamo inaspettatamente l'essere umano, in Saddam. Nella seconda quest'umanità appena riconquistata gli viene sprezzantemente, igienicamente strappata.
Non abbiamo assistito infatti alla normale cattura di un nemico di guerra. Abbiamo assistito, in mondovisione forzata, alla trasformazione del nemico in bestia da soma che si vende sul mercato. Per venderla a buon prezzo e convincere l'acquirente si spalanca la bocca dell'animale, si guarda lo stato e l'età dei suoi denti, si controlla se magari nel pelo non s'annidino pidocchi. Gli acquirenti della bestia siamo tutti noi, teleconsumatori di guerre e anche cittadini che camminano ignari per strada: l'immagine della bocca aperta di Saddam e del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati l'hanno vista anche gli abitanti di New York che passavano da Times Square. Il despota tramutato in accattone veniva riprodotto anche lì, su schermo gigante: come nel film Blade Runner o - scrive su Ha'aretz il commentatore israeliano Rogel Alpher - come nel romanzo 1984 di Orwell. Nel romanzo è la faccia di Emmanuel Goldstein che maniacalmente viene ritrasmessa sugli schermi. Goldstein è il nemico del Popolo per eccellenza, è il Gran Sabo- tatore che serve da spauracchio. Il suo volto e la sua voce sono strani, osserva Orwell: fanno pensare a una pecora. Diffusa a intervalli regolari, la trasmissione cui tutta la popolazione di Oceania è condannata s'intitola: «Due Minuti d'Odio» (Two Minutes Hate). Esattamente come Goldstein, anche Saddam è stato in passato l'alleato più sicuro di chi oggi lo esibisce come preda: è stato alleato di Washington, di Parigi, di Bonn, di Roma. Il ministro della Difesa Rumsfeld si recò due volte a Baghdad, nel dicembre '83 e nel marzo '84, per esprimere fiducia nel tiranno e renderselo amico. La seconda volta Baghdad aveva già usato, contro l'Iran, l'iprite e il gas VX.
Al programma Due Minuti d'Odio abbiamo assistito tutti, domenica 14 dicembre, e non è detto che i risultati siano positivi per la lotta delle democrazie al terrorismo. Alcuni despoti saranno spaventati da Saddam degradato ad accattone, forse. Un'intera regione del mondo, attorno al Medio Oriente, verrà forse trasformata da questo simbolo d'umiliazione, molto più possente dell'abbattimento della statua di Saddam. Gli uomini di Bush sosterranno forse che proprio grazie alle guerre americane Gheddafi ha cominciato a cedere e si è dichiarato disposto, pochi giorni dopo la cattura del dittatore iracheno, a smantellare le sue armi di distruzione di massa.
Ma quei Due Minuti d'Odio restano conficcati nei nostri cervelli, e non saranno guardati e ricordati solo da despoti o da partiti decisi a rovesciare i tiranni. Tutti i diseredati e gli impotenti del mondo riconosceranno se stessi e il proprio destino, nel volto di Saddam prigioniero, e risponderanno ai Due Minuti d'Odio con un senso d'abbandono e un odio raddoppiati. Non approveranno l'umiliazione di un tiranno che sugli schermi è apparso più che mai essere umano nella sua nudità. Si sentiranno proprio come lui: defraudati d'ogni eredità, ridotti a merce bovina, non rispettati come persone. Si può capire lo sgomento del cardinale Martino: per il cristianesimo la persona umana è creata a immagine di Dio ed è dunque sacra. Per tutte le grandi religioni è così, e quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario è forse una vittoria militare e nel medio termine anche una vittoria politica, ma nell'immediato è un'incalcolabile sconfitta morale, un tabù che cade, un buco nero nell'idea che abbiamo dell'uomo, delle sue fedi. Non è Bush a risultare credibile con i suoi trionfalismi ma Simone Weil, nel suo libro l'Ombra e la Grazia: «Bisogna(...) essere sempre pronti a cambiare parte: come la Giustizia, questa “fuggitiva dal campo dei vincitori”».
Quando la giustizia fugge dal campo dei vincitori e quando i vincitori sono le democrazie non si può facilmente parlare di vittoria, riportata contro i terroristi. Quando guerre e catture del nemico sono sistematicamente ottenute al di fuori della legge non c'è da sperare molto, né per la diffusione della democrazia né per il consolidamento delle nostre stesse democrazie. E sono tante, ormai, le leggi che la guerra al terrorismo ha violato. L'offensiva contro l'Iraq è avvenuta senza che si badasse a legittimarla internazionalmente. I guerrieri afghani o talebani rinchiusi a Guantánamo sono detenuti in dispregio della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra o dei più elementari diritti dell'habeas corpus, che è il diritto di ciascun «corpo umano» a esser tradotto davanti ai tribunali per sapere se la detenzione è legittima. L'ultima violazione è quella commessa, con igienico accanimento, sul corpo di Saddam: il governo Usa aveva accusato i soldati del rais, all'inizio della guerra, quando sulle reti arabe apparvero i volti dei militari americani catturati. Ora è esso stesso a macchiarsi del reato di violazione della Convenzione di Ginevra, e in particolare dell'articolo 13: «I prigionieri di guerra devono... essere protetti in ogni tempo specialmente contro gli atti di violenza e d'intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità». Lo si sa anche da guerre passate. Ci sono circostanze in cui a forza di combattere furiosamente un nemico dispotico finiamo col diventare il suo sosia.
Gli stessi accordi raggiunti nelle ultime ore con Gheddafi sono significativi, e inquietanti. In apparenza Gheddafi s'è allarmato, osservando l'esempio di Saddam. Ma in realtà è stato un lungo negoziato, a persuadere e costringere il dittatore libico. Un negoziato oculato, condotto in parallelo da Onu e Casa Bianca. Era dunque possibile smantellare un programma di armi biologiche e chimiche, senza guerra preventiva. Gheddafi non ha dovuto subire un'aggressione come Baghdad: è stato piegato dalla diplomazia, dalle sanzioni, da una politica lenta, paziente. Lo stesso forse poteva accadere con Saddam, e secondo alcuni il rais era addirittura disposto a un passo simile a quello compiuto da Gheddafi. Lo ha rivelato sul New York Times un'inchiesta di James Risen, il 6 novembre scorso. Il dittatore era pronto a concessioni essenziali, poco prima che la guerra scoppiasse: a smantellare le armi, ad accogliere in Iraq ispettori americani, a organizzare libere elezioni sotto controllo internazionale. Può darsi fosse un bluff, ma nessuno ha chiesto di vedere le carte, e la pazienza avuta con Gheddafi non c'è stata con Saddam. Forse perché bastano quei Due Minuti di Odio, a seminare nel mondo la cultura della paura e a presentare l'America come potenza capace non solo di diffondere umanità ma anche di negarla. Gli schermi piccoli e grandi s'accendono, e tutti siamo mobilitati in una guerra che ha da essere senza fine. Fin tanto che dura questa paura e questo stato d'emergenza bellico, dimenticheremo meglio quel che per Washington sta diventando sempre più difficile, soprattutto ora che il nemico è catturato: costruire la pace e la democrazia, e non solo fare guerre prima che il pericolo si manifesti, e senza che il pericolo sia stato ancora provato.

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