Un copione molto noto in Siria

Tocca alla Siria sperimentare ora i tristi eventi conosciuti in altri paesi arabi, con l’utilizzo di metodologie già collaudate altrove, a tal punto che nessuno esita più a parlare di scenario prestabilito
7 maggio 2011
Ahmed Cheniki
Tradotto da Debora Del Pistoia per PeaceLink
Fonte: Le Quotidien d'Oran - 01 maggio 2011

Ahmed Cheniki Come a Bengasi, il tutto prende avvio da alcuni gruppi di manifestanti a Deraa, alla frontiera giordana, sostenuti da tiratori sparsi in mezzo alla folla, che provocano la reazione dei servizi di sicurezza. Al Jazeera, BBC Arabic e France 24, con le altre televisioni “occidentali” si schierano dalla parte dei demonizzatori di quello che denominano il “clan Assad”. “Tiratori scelti”, di cui nessuno sembra conoscere l’identità, sparano sui manifestanti, i “gruppi dei diritti umani” entrano in gioco seguiti dai governi americano, francese e britannico che fanno pressione e denunciano quello che denominano un “massacro premeditato di civili”. Si grida alla repressione dei giornalisti, mentre il mondo conosce la più grande operazione di manipolazione e disinformazione della sua storia, in cui si preferiscono “testimoni” alla verifica dell’informazione e alla critica delle fonti. Strano il giornalismo! Le sole immagini considerate credibili sono quelle catturate singolarmente dai cellulari, di cui non si conosce la fonte. Si giunge dunque alla scena della rivendicazione delle “dimissioni del regime”, beninteso, prima dell’internazionalizzazione del problema con il “Consiglio di Sicurezza”, che dovrebbe rappresentare la “comunità internazionale”. Questo scenario era stato certamente prestabilito.

Gli stessi media algerini non fanno altro che riprodurre le notizie “occidentali”, mentre sarebbe molto più operativo raccogliere le informazioni ricorrendo a una varietà di fonti, tra cui l’agenzia di stampa siriana. Paradossalmente, in questo tipo di operazioni è arduo fare una cernita tra i falsi e i veri giornalisti.

Non passa giorno in cui i media americani, il Congresso e la Casa Bianca non tirino fuori lo spauracchio siriano. Ogni pretesto è buono. Già qualche anno fa, il prolungamento del mandato di Emile Lahoud alla presidenza del Libano era stato utilizzato come legittimazione alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che invitava la Siria a lasciare il paese dei Cedri. Questa relazione conflittuale con gli Stati Uniti, che ha visto una distensione di toni relativa verso la metà degli anni 90, ha ripreso in gran stile e non il funzionamento normale di istituzioni già fortemente atrofizzate e ancora troppo marcate dalla situazione di guerra permanente che obbliga i dirigenti ad un’ estrema austerità. Per il momento, e soprattutto dopo l’occupazione dell’Iraq e la grave crisi che ha colpito il movimento nazionale palestinese, le cose risultano estremamente difficili. I responsabili hanno cercato in tutti i modi di rappacificare i rapporti con gli Stati Uniti, offrendo garanzie e concessioni di vario tipo e lanciando un vasto programma di liberalizzazione. Ciononostante niente sembra poter fermare questa guerra, mai definita come tale. La riduzione del controllo sui cambi e le diverse agevolazioni fiscali e doganiere hanno permesso senza dubbio l’avvio di centinaia di società miste, ma quest’apertura economica non ha favorito trasformazioni politiche profonde e ha invece concesso maggior beneficio a certi ranghi alti del regime e a loro alleati in un settore improduttivo come quello mercantile e spesso lanciati nella distribuzione, nell’agricoltura e nel settore immobiliare. I richiami a Washington non sono mancati, nonostante la crisi profonda tra i due paesi. Quest’apertura economica non è mai stata accompagnata da trasformazioni politiche reali.

Da molto tempo il regime evoca possibili riforme che invece tardano ad arrivare. Sono state necessarie queste violenze del 2011 perché il potere decidesse di abrogare la legge che decretava lo stato di urgenza e di sopprimere la Corte di Sicurezza dello Stato, promettendo una reale apertura politica e mediatica. Grazie alle forti pressioni internazionali, le prigioni iniziano, nonostante tutto, ad aprirsi, in un paese marcato dalla forte impronta della polizia politica, temuta da una parte e dell’altra e chiamata dal partito Baas a divenire un partito come gli altri. La Siria è sopraffatta da vari problemi. Infatti, questa società, caratterizzata dalla forte presenza del partito Baas, continua a vivere al ritmo di una guerra interna rimandata a lungo e di un’aggressione esterna che non termina mai di essere presente in maniera ossessiva.  Poco più di tre decenni fa, nel 1981, un grande movimento islamista insorse e la repressione come elemento centrale del potere fu spietata. La città di Hama visse attimi terribili contraddistinti da centinaia di morti.

E’ da considerare che questo paese, ancora obiettivo di Stati Uniti e di Israele, è una dittatura che escogita mille modi per incarcerare gli oppositori condannati all’esilio o al silenzio. Addirittura talvolta i dignitari del regime, sospettati di possibili capovolgimenti, vengono letteralmente eliminati dalla scena politica. E’ il caso del fratello di Hafedh el Assad, Rifaat, la cui salvezza è stata proprio la sua fuga all’estero, dopo aver occupato la poltrona tanto bramata di numero due di un rais che aveva privatizzato lo Stato trasformandolo in un affare di famiglia. Non per niente proprio suo figlio gli è succeduto dopo la morte. Appena prima della morte di Hafedh el Assad, nel pieno della lotta per la successione, venne assassinato un antico capo di governo, Mahmous Zoghbi. Quando si vuole fare pulizia all’interno del regime, si ricorre sistematicamente a quello che in linguaggio ufficiale si maschera con l’espressione “campagna di lotta contro la corruzione”. La Siria ha conosciuto numerose campagne anti-corruzione, spesso durante crisi gravi come quella delle imprese a gennaio del 1997, seguita all’assenza di Hafez el Assad, realizzata dal suo secondo figlio Bachar, che controlla  la totalità dei servizi di sicurezza e che ha spinto numerosi alti ranghi del regime, spesso vicini al rais, all’esilio, dopo la confisca dei beni. Queste storie sono talmente numerose e si assomigliano tutte a tal punto che, ogni volta che la battaglia per la successione si preannuncia dura, qualcuno viene fatto fuori. Si tratta dell’implacabile logica del regime che spesso non si preoccupa troppo dei diritti individuali.  Non per niente Nourredine el Atassi, l’antico presidente destituito dai regnanti attuali nel 1970, ha avuto una sorte più triste di quella di Ben Bella, passando una trentina d’anni senza processo.  Centinaia di detenuti politici si trovano ancora nelle carceri. Una decina di giornalisti, condannati spesso a pene molto severe, trascinano il corpo nelle celle senza che nessuno se ne preoccupi. Proprio uno di loro, Rida Haddad, antico editorialista del quotidiano Techrine, è deceduto in carcere per non essere stato curato.

Da sempre le attività politiche vengono controllate severamente e sorvegliate da un’infinità di servizi di sicurezza che sono onnipresenti. Il famoso Fronte Nazionale Progressista diretto dal Baas, che raggruppa alcune formazioni politiche, non permette ai partiti che lo compongono (con l’eccezione del Baas) di agire nei sindacati, nelle università e in certi settori considerati sensibili. Questa situazione rende possibili numerosi soprusi e legittima l’imprigionamento di migliaia di oppositori appartenenti spesso ad ambienti di sinistra e islamisti.

Senza dubbio la pressione internazionale e la grave crisi economica vissuta dal paese hanno fatto sì che i dirigenti cominciassero a dare segnali di una certa apertura. L’Assemblea del Popolo inizia ad accogliere gli “indipendenti”. Questo sembrava impossibile in passato. Circa tre migliaia di detenuti politici di cui un numero importante di islamisti sono stati liberati nel 1991. Ma le altre formazioni vengono inevitabilmente interdette, come succede ai Fratelli Musulmani, al partito comunista Bureau Politique, a Harakat Attawhid el Islami, all’organizzazione nazionale nasseriana o alle organizzazioni palestinesi.

Il sentimento maggiormente condiviso resta la paura, in un paese in cui i servizi di sicurezza sono onnipresenti. L’ombra del poliziotto anonimo emerge in ogni luogo e in tutti settori di una società condannata al silenzio e alla paura. In modo tale che per giustificare gli arresti e la tortura, si tira fuori la scusa infinita della guerra contro Israele. In tutti i quartieri di Damasco girano continuamente  agenti dei moukhabarat, i servizi segreti siriani, alla ricerca della minima voce discordante. E’ quasi vietato respirare in un territorio in cui i poster del presidente riempiono tutti i muri e tutti i luoghi pubblici, come se la Siria si riducesse all’immagine di quest’uomo, a disagio di fronte a microfoni e telecamere. Il Presidente è cosciente di essere il rais per una scelta di ripiego, dopo la morte accidentale del fratello e chiamato quindi a occupare questa posizione dopo la scomparsa del padre.

La Siria è il paese dei paradossi. Mentre sposa i toni dei discorsi baasisti basati sulla laicità, il potere anima le istanze confessionali. Così, il Baas, che si ritiene investito dell’ideologia di Michel Aflaq, resta caratterizzato dall’ombra della pratica amministrativa e della gestione anacronistica, spesso basata sulla logica della ripartizione delle poltrone e della rendita confessionale (che rimette in discussione uno dei fondamenti teorici del Baas, ossia la dimensione laica), appoggiandosi a un’alleanza di ufficiali superiori, di grandi imprenditori e commercianti molto legati alle élite al potere attraverso interessi d’affari e  relazioni familiari. Il potere resta segnato dal clientelismo e dal nepotismo, due fenomeni radicati e vicini alla corruzione generalizzata, che viene denunciata del resto dai poteri pubblici, ma molto spesso utilizzata per i regolamenti di conti.

Tuttavia quello che caratterizza la società siriana è la sua propensione a fare affari. I circuiti paralleli, alimentati principalmente dal traffico e il contrabbando proveniente soprattutto dal Libano, sono insiti nella cultura ordinaria, impediscono lo sviluppo di classi sociali medie capaci di realizzare un progetto alternativo e favoriscono la pauperizzazione continua delle popolazioni. La vita è estremamente cara. I salari sono molto bassi. Più di un milione di persone lavorano nella pubblica amministrazione, ma la maggior parte di queste sono obbligate a esercitare uno o due lavori supplementari per vivere normalmente. Per provvedere ai loro bisogni, dei professori universitari sono obbligati a lavorare come tassisti o a fare qualsiasi altro mestiere. Acquistare una macchina straniera è complicato. E’ necessario aspettare più di una decina di anni per poterne acquistare una, fino a provocare un traffico pazzo di banconote d’importazione, in un paese in cui il cambio nero è divenuto cosa ordinaria. La moneta locale ha perso enormemente il suo valore. Spesso gli Algerini conoscono di questo paese solo Souk el Hamidiyya, un mercato che frequentano assiduamente, invece della biblioteca El Assad, che non è ben fornita, ma che riceve numerosi universitari algerini, che spesso scoprono un paese arabo e un souk, invece della biblioteca. Le numerose inefficienze del settore pubblico rendono le cose ancora più difficili, soprattutto poiché la pianura più fertile e ricchissima d’acqua, il Golan, è ancora occupata dagli Israeliani.

La Siria, che vive in stato d’urgenza dal 1963, non è ancora riuscita a intraprendere una vera apertura politica, nonostante la calma relativa nel settore economico. La stampa (Techrine, Ettawara, …), indebolita da cliché e stereotipi,  è controllata severamente dal Ministero dell’Informazione e dell’Orientazione, allo stesso modo di rappresentazioni teatrali e artistiche. La censura colpisce tutti i legami culturali. I dirigenti siriani fino ad oggi si sono dimostrati riluttanti ad affrontare le aperture nel settore mediatico. I giornali dedicano una gran parte del loro spazio alle minacce esteriori. Eppure fuori dai circuiti ufficiali agiscono intellettuali e artisti che stanno sviluppando una prospettiva differente e che richiamano quotidianamente il potere a realizzare una serie di riforme democratiche. Saranno mai ascoltati dai poteri pubblici, che hanno già enormi difficoltà per gestire questa nuova crisi profonda e decisamente troppo complessa, che evoca la storia e le relazioni conflittuali con gli Stati Uniti e Israele?

Non sappiamo che cosa riserva l’avvenire a un paese la cui società è prigioniera di un’occupazione israeliana permanente che intona minacce continue, di un regime ancora chiuso, in via di un’apertura troppo recente sotto la pressione degli eventi e di un potere d’acquisto che si erode continuamente.

La crisi attuale, che sembra far parte di un copione che mira alla destabilizzazione di tutti i paesi arabi, ha trovato terreno fertile, caratterizzato dall’assenza di libertà e dall’onnipresenza della polizia politica. Questa situazione potrebbe dare l’occasione al regime per intraprendere riforme politiche serie. Ma si lascerebbe agire, visto che l’obiettivo di quest’operazione andrebbe ben aldilà dei territori arabi? L’opera è talmente ben rifinita che qualsiasi tentativo di cambiamento sarebbe considerato troppo poco soddisfacente, viste le situazioni vissute in altri paesi. Le cose restano troppo delicate in un paese che non è certo la Libia, ma che sembra voler evitare la sindrome libica, anche se proprio come per Tripoli la disinformazione inizia ad agire a fondo, a cominciare dalle presentazioni troppo orientate e unilaterali delle televisioni e dei giornali, che non smettono di dare lezioni di professionalità e di democrazia ai paesi del Sud.

Tradotto da Debora Del Pistoia per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: "Un scénario bien huilé en Syrie"

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