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Dalla tv di Belgrado all'Hotel Palestine. Quel «vicino» 23 aprile

23 aprile 2003
Domenico Gallo
Fonte: Il Manifesto - 23 Aprile 2003
Ksenija Bankovic aveva 28 anni il 23 aprile del 1999 ed era molto contenta del suo lavoro di assistente al montaggio, anche Jelika Munitlak aveva 28 anni ed era contenta del suo lavoro di truccatrice.Oggi, dopo quattro anni, Ksenija e Jelika hanno ancora 28 anni. Infatti sono state spogliate della vita alle ore 2,06 del 23 aprile 1999, assieme ad altre quattordici persone, come loro addette al lavoro presso gli studi della Rts (Radio Televisione Serba) di Belgrado. Un missile «intelligente» della NATO aveva deciso di impadronirsi della loro vita e c'è riuscito, centrando, con precisione millimetrica, l'ala centrale dell'edificio della televisione, dove ferveva il lavoro dell'equipe tecnica. I vertici dell'Alleanza sono così riuscite a spegnere per sempre il sorriso di Ksenija e di Jelika che, chissà per quale oscura ragione, dava loro tanto fastidio.Quattro anni fa l'opinione pubblica non era ancora abituata a considerare le equipe televisive ed i giornalisti addetti al loro lavoro come obiettivi militari, come bocche e come occhi da chiudere per sempre, con l'argomento irresistibile del tritolo. Per questo, all'epoca si levò un fremito di indignazione che raggiunse, addirittura, i vertici politici coinvolti in quella sciagurata impresa. Il ministro italiano degli Esteri dell'epoca, l'on. Dini, da Washington, dove si era riunito il Summit dell'Alleanza per celebrare i 50 anni della Nato, dichiarò ai giornalisti italiani «è terribile, disapprovo, non credo che fosse neppure nei piani». Ma fu immediatamente sconfessato dal suo Presidente del Consiglio, l'on. Massimo D'Alema, che dichiarò: «Non si può commentare ogni giorno dov'è caduta una bomba», precisando che la sua reazione alla notizia risultava «attenuata dal fatto che in Jugoslavia non esiste una stampa libera» (Corriere della Sera, 24 aprile 1999). Così il 23 aprile del 1999, nel processo della modernizzazione che incombe sul nostro tempo, è entrato una preziosa acquisizione giuridica: il diritto alla vita dei giornalisti (e di tutti coloro che lavorano nel mondo dei media) è un diritto affievolito, dipende dal grado di libertà di stampa esistente in un determinato contesto. Quando la televisione costituisce uno strumento di propaganda di un regime politico autoritario, allora può essere silenziata con la giusta dose di tritolo. D'altronde è proprio quello che sostenevano i portavoce della Nato, nel briefing quotidiano con la stampa. Il colonnello Konrad Freytag, sempre nella fatidica giornata del 23 aprile, dichiarava che la Nato aveva continuato gli attacchi volti a indebolire gli apparati di propaganda della Jugoslavia e per questo aveva colpito gli studi radiotelevisivi della Tv di Belgrado: «la più grande istituzione dei mass media in Yugoslavia, che orchestra la maggior parte dei programmi di propaganda del regime».

Anche in Iraq, come tutti sanno, non esisteva una stampa libera, per questo le forze dell'Alleanza del bene, il giorno prima della capitolazione di Baghdad hanno distrutto il terrazzo da cui trasmetteva la Tv Al Jazeera, uccidendone l'inviato, ed hanno bombardato l'Hotel Palestine, uccidendo altri due giornalisti, che non avevano capito bene che il regime di Saddam non garantisce la libertà di stampa. L'esempio della Rts ha fatto scuola. Sono passati solo quattro anni da quell'evento, ma sembra che sia trascorso un secolo. In Jugoslavia del regime di Milosevic non è rimasta più traccia alcuna: i dignitari del regime o sono morti per faide interne o sono finiti in prigione all'Aja. La stessa Jugoslavia non esiste più, ha cambiato nome: adesso si chiama Serbia e Montenegro. Apparentemente ci sono tutte le ragioni per aprire una casella negli scaffali della storia dove archiviare definitivamente la guerra Nato di Jugoslavia e passare ad altro. Ma i conti non tornano, questa stagione non riesce a concludersi, perché sino ad oggi nessuno ci ha dato conto della atroce morte di Ksenija e dei suoi compagni. Nessuno ha pronunziato una parola di giustizia che consentisse ai morti di riposare in pace. Di fronte a questo evento sta il silenzio assordante delle Corti e dei sistemi giudiziari di cui l'Occidente mena gran vanto.

In primo luogo il silenzio di quell'organo che l'Onu aveva creato per proteggere gli abitanti della ex Jugoslavia dalla barbarie della guerra. Il Tribunale penale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia non ha detto una parola. Non ha potuto, in quanto il suo Procuratore, Carla Del Ponte, ha deciso di non chiedere ai suoi giudici di giudicare ed ha dichiarato, il 5 giugno del 2000 al Consiglio di Sicurezza dell'ONU di essere «molto soddisfatta» per aver archiviato le denunzie relative ai crimini commessi dai vincitori - accuse depositate da Amnesty International e Human Right Watch. In secondo luogo il silenzio di quella Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha deciso, il 12 dicembre 2001, pronunziandosi sul ricorso presentato dal papà di Ksenija Bankovic, di non giudicare, decretando che i diritti dell'uomo non sono poi tanto universali. In terzo luogo il silenzio della Cassazione, le cui Sezioni unite civili hanno imposto, nel giugno del 2002, ai giudici italiani di tacere, di non raccogliere il grido di dolore delle vittime, per non disturbare la libertà di bombardamento del sovrano. Com'è noto, al di sopra delle Sezioni Unite, c'è solo il Tribunale di Dio. Quindi i sommi giudici credevano di mettere la parola fine a questa vicenda, ma hanno commesso uno sbaglio. I morti non sono d'accordo. Lo spettro delle sedici vittime innocenti (che tornano in questi giorni d'attualità) continua ad aggirarsi nelle Cancellerie e nelle Corti di Giustizia. I leaders politici, responsabili della morte fisica, ed i magistrati, responsabili della morte giudiziaria, non se ne potranno liberare e trasaliranno, vedendoseli comparire dinanzi, come Macbeth quando vedeva riaffiorare lo spettro di Banquo.

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