Le mistificazioni dei mass-media di regime sulla manifestazione contro la guerra e il terrorismo del 20 marzo scorso.
Quantificare la menzogna non è facile, ma abbiamo ora un'occasione per farlo. Alla manifestazione di Roma contro la guerra e il terrorismo del 20 marzo hanno partecipato (su questa cifra si sono attestati in molti e la prendo per buona) un milione di persone. Si è trattato (anche qui mi baso sulle cifre pubblicate dalle principali agenzie di stampa di tutto il mondo) della più grande manifestazione contro la guerra su tutto il pianeta.
Nel corso della stessa manifestazione un gruppetto di persone non superiore a 60 unità (mi baso sulle testimonianze di alcuni tra i presenti, giornalisti di provata credibilità) ha contestato, senza giungere a violenze fisiche (di cui, per altro, non esiste traccia fotografica, né filmata), un piccolo gruppo di esponenti di spicco di un partito politico, tra i quali il segretario dello stesso partito, un certo Fassino.
Il gruppo contestato non era superiore alle cinquanta unità e si era appena inserito nel corteo, dal quale è presto uscito. I protagonisti dell'episodio erano, tutti insieme, quindi, un centinaio. Cento su un milione fa una percentuale dell'0,01%. Ebbene, il giorno successivo i tre più importanti giornali italiani, Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, hanno titolato sullo 0,01% della notizia lasciando nel silenzio il restante 99,99%. Lo stesso hanno fatto, naturalmente, tutti i giornali di destra e di centro-destra, e le televisioni berlusconiane, pubbliche e private. Cioè tutte le televisioni italiane che trasmettono sul territorio nazionale. La quantificazione della bugia è fatta. E credo rappresenti bene lo stato generale delle cose.
Cioè non credo sia un'eccezione. Resta da spiegare come mai questi tre grandi giornali, non ancora proprietà di Berlusconi, abbiano deciso all'unisono di sostenere il signor Fassino, più o meno come hanno fatto tutti gli organi di stampa del signor Berlusconi. L'impressione - ma è solo un'impressione - è che tutti e tre avessero come scopo principale quello di oscurare innanzitutto la enorme presenza di popolo alla manifestazione. Resta da chiedersi perché mai. Ma questo fa parte degl'insondabili misteri dell'Italia? Non credo. Ricordo che nelle tre guerre del nuovo millennio (sebbene la prima sia stata fatta nel millennio precedente): Kosovo, Afghanistan, Irak, tutti e tre i giornali suddetti abbiano sostenuto inflessibilmente le "ragioni" della guerra, con la relativa eccezione, ondivaga e formalmente "pluralista", di Repubblica.
Ricordo anche che tutto il sistema mediatico suddetto impegnò per settimane, anzi mesi, tutti i suoi migliori editorialisti per spiegarci non solo le ragioni umanitarie della guerra contro Belgrado, ma soprattutto quelle dei bombardamenti sull'Afghanistan tutti tesi a liberare le donne afghane dal burqa (e gli uomini afghani dalla barba). Forse è un riflesso condizionato, forse è cattiva coscienza. Certo a qualcuno dev'essere balenata in mente l'idea che ci fosse, ci sia, un qualche nesso tra gli eventi che accadono; e che i bugiardi che hanno costruito la guerra contro l'Irak sono gli stessi che hanno costruito la guerra contro l'Afghanistan. Per quanto concerne la guerra contro la Jugoslavia, apparentemente, si tratta di persone fisiche diverse: negli Stati Uniti c'era Bill Clinton, in Italia c'era Massimo D'Alema. Ma la difesa della guerra fu comune. E le falsificazioni dei giornali in questione, e delle televisioni, furono identiche. Ne emerge una serie di domande. Ma cosa è diventata negli ultimi tempi la professione giornalistica? Sembra quasi che i giornalisti (per meglio dire coloro che guidano i giornali) siano diventati tutti, o quasi tutti, straordinariamente ingenui.
Come Bush e Blair, e Aznar, e Kwasniewski, tutti i capi di stato (salvo Berlusconi che continua, tetragono, a ripetere le stesse bugie che raccontava in precedenza) tendono a proclamare che la colpa è stata dei servizi segreti, incapaci di raccogliere informazioni, oppure incapaci di comunicare ai politici quelle che avevano. E variazioni sul tema. Ma i giornalisti? Adesso scopriamo, grazie a un solerte deputato democratico della California, Henry Waxman, che le cinque persone più influenti degli Stati Uniti, e precisamente George Bush, il suo vice Dick Cheney, il segretario di Stato Colin Powell, quello alla Difesa, Donald Rumsfeld, la consigliera per la Sicurezza Nazionale, Condoleeza Rice, nel periodo che va dall'inizio del 2002 alla fine del 2003, "hanno rilasciato 237 affermazioni non veritiere in 125 apparizioni separate, di cui 40 discorsi, 26 conferenze stampa, 53 interviste, 4 dichiarazioni scritte e 2 testimonianze parlamentari" (cfr La Stampa, 24-3-2004). Sappiamo cioè, in forma quantificata, precisa, quello che già sospettavamo con una discreta dose di indizi a carico, e cioè che alla testa degli Stati Uniti d'America, in questa cruciale congiuntura storica, c'è un gruppo di mentitori professionali, le cui bugie minacciano, tra le altre cose (come ebbe a scrivere il New York Times) la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America e, in subordine, la nostra di cittadini del mondo. Ma il fatto che qui mi preme rilevare è che dietro a quelle 237 affermazioni menzognere è corsa quasi unanimemente la stampa mondiale, vi si è adagiata, le ha assecondate, in molti casi amplificate, illustrate, abbellite, raccontate, rese appassionanti, gradevoli, o drammaticamente veritiere, sostenute con abbondanza di particolari e di prove. Eccetera.
E la funzione del "quarto potere" dov'è andata a finire? C'è ancora un "quarto potere"? E le inchieste? E le domande sgradevoli che i giornalisti, un tempo, qualche volta, osavano formulare all'indirizzo dei potenti? Tutto questo sembra ormai anticaglia del passato, coperto di polvere, dimenticato. Come risultato siamo andati in guerra, e ci stiamo tuttora. Abbiamo contribuito all'assassinio di decine di migliaia di civili innocenti, al rovesciamento illegale di regimi che, volta a volta, ci sono stati presentati come sanguinari, terroristici, mostruosi, non democratici ecc. ecc. E quando scopriamo (non perché il sistema mediatico ci aiuta a farlo ma perché altri, non giornalisti, ce lo rivelano) invece di avere il coraggio di farci l'autocritica, perseveriamo nella bugia, nell'alterazione dei fatti, nei silenzi, nella reticenza. Per chi, come accade a chi scrive, è stato testimone diretto di una società dove vigeva la censura, quella sovietica, la sensazione, ormai assai simile alla certezza, è di trovarsi di fronte alla ripetizione di quell'esperienza. Contrariamente a quello che si pensa, in Unione Sovietica la censura era prima di tutto dentro ciascuno di coloro che scrivevano e facevano informazione. Assai spesso la censura degli apparati, esterna, coercitiva, brutale, non era necessaria; spessissimo si trattava di scelte "a monte", scelte di chi sapeva, immaginava, poteva prevedere in anticipo dove e come, eventualmente, la censura sarebbe stata esercitata.
Era una sensibilità che si acquisiva con l'esperienza: una specie di riflesso condizionato di tipo pavloviano. Solo di fronte a individui "insensibili" agl'insegnamenti finiva per scattare la censura esterna. E ora? Ora, assai similmente, agiscono gli stessi meccanismi. Si sa a memoria cosa bisogna scrivere e come. I giovani giornalisti sono allevati nello spirito di non contraddizione del potere. Chi non capisce viene allontanato, o messo in un angolo. Ci sono argomenti tabù che è meglio non toccare, ci sono temi che possono essere trattati solo in un modo. Se, ad esempio, parli degli Stati Uniti, devi comunque rendere a Cesare quel ch'è di Cesare e premettere, o concludere, quasi invariabilmente, con un peana ai loro meriti, con l'esaltazione della loro democrazia, con la gratitudine verso le loro eroiche gesta. Le eccezioni sono consentite, ma con estrema moderazione: il "rumore di fondo" non dev'essere turbato. Il pacifismo? Dev'essere, per forza di cose, ingenuo, utopistico. La guerra deve avere, per forza di cose, qualche aggettivo qualificativo positivo. Magari "umanitaria". O "necessaria", o "giusta". La democrazia altrettanto. Dove non c'è ma sono gli amici dell'Occidente a violarla, la chiameremo "democrazia autoritaria". Ci sono editorialisti sempre molto autorevoli, il cui incarico è di inventare le nuove parole di questa politica mediatica neo-orwelliana.
Gli spagnoli votano contro Aznar? Ecco che il solito Panebianco, o Della Loggia, inventare il parallelo con l'appeasement di Lord Chamberlain nei confronti di Hitler a Monaco. Quasi che esistesse un qualche nesso tra Hitler e Osama bin Laden. Ma, una volta lanciata la sciocchezza, ecco decine di epigoni, di insetti che guidano i talk show, ripeterla all'infinito, a pappagallo. Con l'obiettivo di gettare, su tutti coloro che si permettessero di criticare la politica dell'Imperatore, l'ombra della connivenza con il terrorismo. E i direttori dei giornali, e dei telegiornali, pur sapendo di avere a che fare con "intellettuali" che esercitano la funzione di organizzatori della "censura preventiva", invece di licenziarli e di ripristinare una decente deontologia professionale (che consiste nell'offrire ai lettori e telespettatori un'informazione decente e accettabilmente sicura) li premiano per la loro faziosità e la loro immarcescibile tendenza all'ossequio del potere. E' cominciato il brezhnevismo del "quarto potere". Quando verrò il peggio dovremo ritirare fuori - ma sarà troppo tardi - l'aforisma di Hans Magnus Enzensberger: "ai tempi del fascismo non sapevamo di vivere ai tempi del fascismo".
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