«Abbiamo ucciso persone che non c’entravano nulla con l’11 settembre»
Rivelò la guerra dei droni, 4 anni di carcere a Daniel Hale
Ex analista aveva divulgato materiale sulle guerre Usa in Yemen, Afghanistan e Somalia
28.7.2021
Marina Catucci
Il tribunale della Virginia orientale ha condannato a 4 anni di carcere l’ex analista dell’intelligence Daniel Hale, arrestato il 9 maggio 2019 con l’accusa di aver divulgato informazioni riservate sulla guerra dei droni, e altre misure antiterrorismo, a un giornalista. Meno dei 50 chiesti dal Dipartimento di Giustizia, ma non per questo giustificabili.
«DANIEL HALE, uno dei più grandi whistleblower, è stato condannato pochi istanti fa a quattro anni di carcere. Il suo crimine è stato dire questa verità: il 90% delle persone uccise dai droni statunitensi sono astanti, non gli obiettivi previsti. Avrebbe dovuto ricevere una medaglia» così ha commentato su Twitter Edward Snowden. Hale aveva divulgato alla stampa informazioni riservate riguardo la guerra dei droni, e segreti sulle operazioni in Afghanistan, Yemen e Somalia. A marzo si era dichiarato colpevole di avere divulgato documenti riservati e aveva «accettato la responsabilità» per aver violato l’Espionage Act.
IL 22 LUGLIO SCORSO aveva risposto all’aggressività dei pubblici ministeri presentando una lettera di 11 pagine scritte a mano ; il gesto non era una richiesta di grazia, ma era inteso a spiegare il perché delle sue azioni, raccontando quello che il whistleblower definisce il «giorno più straziante della mia vita». Mesi dopo che l’analista era arrivato in Afghanistan nel 2012, aveva visto un’auto sfrecciare in direzione del confine con il Pakistan, l’uomo che guidava l’auto era un sospetto, membro di un gruppo che fabbricava autobombe.
Un drone americano aveva sparato un missile contro l’auto in corsa, mancandola, l’auto si era fermata, l’uomo era sceso e dopo di lui era scesa una donna che aveva iniziato a tirare fuori freneticamente dall’auto qualcosa che Hale non era riuscito a vedere.
UN PAIO DI GIORNI DOPO, l’ufficiale comandante di Hale gli disse che la donna era la moglie del sospettato, e nel retro dell’auto c’erano le loro due figlie, di 5 e 3 anni. I soldati afgani avevano scoperto le bambine in un cassonetto vicino: la più grande era morta e la più piccola era viva ma gravemente disidratata. Nella lettera depositata in tribunale il 22 luglio, Hale ha parlato della sua costante lotta con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico derivato da ciò che aveva visto in quella che veniva definita «una guerra pulita».
Il whistleblower aveva perciò deciso di contattare un giornalista con cui aveva comunicato in precedenza. La storia di Hale ricorda molto da vicino quella di Chelsea Manning, ex militare accusato di aver trafugato decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli consegnati a WikiLeaks.
MANNING ERA STATA DETENUTA in condizioni considerate lesive dei diritti umani, in prigione aveva tentato due volte il suicidio e il suo caso aveva fatto il giro del mondo in quanto le informazioni che aveva divulgato riguardavano l’omicidio di diversi civili disarmati da parte dell’esercito Usa.
Dopo 7 anni e 4 mesi era stata scarcerata, graziata del presidente uscente Barack Obama, per poi tornare in carcere a marzo 2019 per aver rifiutato di testimoniare contro WikiLeaks davanti a un Grand jury. É uscita nuovamente di prigione il 12 marzo 2020. Il co-fondatore di WikiLeaks Julian Assange,invece, è ancora in prigione a Londra; per lui a gennaio 2021 la giustizia inglese ha negato l’estradizione in Usa poiché é a alto rischio di suicidio.
Droni, a giudizio l’ex analista Usa che ha svelato i danni collaterali. «Non un giorno senza rimorso»
La lettera al giudice: «Abbiamo ucciso persone che non c’entravano nulla con l’11 settembre»
26.7.2021 (articolo pubblicato prima della condanna)
di Marta Serafini
«Abbiamo applaudito quando gli Hellfire sono caduti sulle loro teste». La notte del 21 agosto 2013 Salim bin Ahmed Ali Jaber e Walid bin Ali Jaber si trovano in un palmeto nel sud-est dello Yemen. Salim è un imam rispettato del villaggio di Khashamir, che si è fatto un nome denunciando il crescente potere di Al Qaeda nella penisola arabica. Suo cugino Walid è un ufficiale di polizia locale. I due stavano sulle tracce di un gruppo di jihadisti. A migliaia di miglia di distanza, nella base militare degli Stati Uniti a Bagram, in Afghanistan, Daniel Hale, un giovane specialista dell’intelligence dell’aeronautica americana, se ne sta seduto su una sedia ad osservare il monitor di un computer. Poi, sul palmeto cala una pioggia di Hellfire.
Avanti veloce di otto anni. Daniel Hale domani conoscerà il suo destino: molto probabilmente la Corte distrettuale di Alexandria, in Virginia, lo condannerà. Ma il verdetto non sarà per aver partecipato alla morte di due innocenti. Hale, arrestato nel 2019, sarà giudicato per aver violato l’Espionage Act facendo trapelare documenti top secret sull’utilizzo di droni nella guerra al terrorismo durante l’amministrazione Obama.
Figlio di un camionista battista della Virginia, da analista dell’intelligence dell’Air Force Usa, Hale, 33 anni, ha partecipato una serie di attacchi condotti dall’ Afghanistan. Il suo compito è rintracciare i segnali dei cellulari collegati a persone ritenute combattenti nemici. Fondamentale dunque per stabilire la posizione esatta dell’obiettivo. Nei mesi di quella che ancora veniva chiamata guerra al Terrore assiste a decine di operazioni in cui afghani - ma anche yemeniti o pakistani- vengono uccisi premendo un bottone. A volte - racconta sempre Hale - intorno agli obiettivi c’erano civili. Danni collaterali.
Hale ha raccontato al giudice del primo attacco di droni a cui ha assistito, pochi giorni dopo essere stato dispiegato per la prima volta in Afghanistan. «L’operazione è stata condotta prima dell’alba, contro un gruppo di uomini armati che preparavano il tè intorno a un falò nelle montagne della provincia di Paktika. Il fatto che portassero armi con sé avrebbe dovuto essere considerato fuori dall’ordinario nel luogo in cui sono cresciuto, tantomeno nei dei territori tribali afghani.Tra loro c’era un presunto membro dei talebani, tradito dal cellulare che aveva in tasca. Quanto agli altri individui, essere armati, in età di leva, e sedere alla presenza di un presunto combattente nemico, era una prova sufficiente per essere considerati sospetti. Nonostante si fossero riuniti pacificamente, senza rappresentare una minaccia, il destino di quegli uomini che ora bevevano il tè era già deciso. Ero lì seduto quando un’improvvisa, terrificante raffica di missili Hellfire è caduta giù, facendo schizzare schegge coloro porpora contro la montagna investita dalla luce del mattino. Da quel momento e fino ad oggi, continuo a ricordare molte di queste scene di violenza cui ho assistito stando seduto su una sedia a guardare lo schermo di un computer. Nessuna di quelle persone era responsabile degli attacchi dell’11 settembre alla nostra nazione. Era il 2012, Bin Laden era già morto in Pakistan. E quei giovani uomini armati che avevamo appena ucciso erano solo bambini il giorno dell’11 settembre».
Con il passare del tempo la coscienza di Hale inizia a vacillare. «Il soldato vittorioso indiscutibilmente pieno di rimorsi, almeno mantiene intatto il suo onore affrontando il suo nemico sul campo di battaglia», scrive Hale sempre al giudice. Ed è sempre la sua coscienza a portarlo alla fine del 2015 a rivelare dettagli sulle operazioni coi droni ad un giornalista investigativo incontrato in precedenza. Hale diventa il nuovo Edward Snowden, un whistleblower che divulga informazioni segrete per il bene della collettività. E il sito investigativo The Intercept pubblica i Drone Papers, una delle inchieste più importanti degli ultimi anni. Un’inchiesta che ha dimostrato tra le altre cose, come il programma dei droni non fosse così preciso come sosteneva il governo.
Nel suo memoriale di 11 pagine, Hale descrive, in termini vividi, le sue lotte con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico e come la sua decisione di condividere informazioni riservate con un giornalista sia stata motivata da un irrefrenabile senso del dovere. «Dire che il periodo della mia vita trascorso in servizio mi ha impressionato sarebbe un eufemismo», ha scritto Hale nella sua lettera. «È più preciso dire che ha trasformato irreversibilmente la mia identità di americano». Hale ha fatto trapelare i documenti dopo aver lasciato l’Air Force e aver accettato un lavoro civile con un appaltatore assegnato alla National Geospatial-Intelligence Agency, dove ha lavorato per un breve periodo nel 2014 come cartografo, usando la sua conoscenza della lingua cinese per aiutare a etichettare le mappe. Poi nel 2019 viene arrestato e il marzo scorso si è dichiarato colpevole.
Gli avvocati di Hale - che dopo essersi dichiarato colpevole il marzo scorso rischia almeno 63 mesi di condanna, nonostante l’accusa non abbia formulato una richiesta specifica - sostengono che le sue motivazioni e il fatto che il governo non abbia mostrato alcun danno effettivo causato dalle fughe di notizie, dovrebbero essere presi in considerazione per un alleggerimento della sentenza ad un massimo di 18 mesi. «Ha commesso il reato per attirare l’attenzione su quella che riteneva fosse una condotta immorale del governo commessa sotto il velo della segretezza e contraria alle dichiarazioni pubbliche dell’allora presidente Obama in merito alla presunta precisione del programma di droni dell’esercito degli Stati Uniti», sostengono gli avvocati della difesa Todd Richman e Cadence Mertz. I pubblici ministeri Gordon Kromberg e Alexander Berrang affermano però che i documenti fatti trapelare da Hale siano stati trovati in una raccolta Internet di materiale progettato per aiutare i combattenti dello Stato Islamico a evitare di essere scoperti. Ma gli esperti consultati da The Intercept, tra cui ex analisti Cia e dell’esercito sono molto scettici al riguardo.
Ovviamente il caso Hale ha riportato alla luce il dibattito sull’ Espionage Act una legge del 1917 molto controversa parecchio utilizzata di recente dai pubblici ministeri statunitensi per imbastire accuse contro le fughe di notizie che hanno a che fare con la sicurezza nazionale. Un caso su tutti quello contro Chelsea Manning. Ma anche le vicende di Julian Assange o quelle di Edward Snowden, tutti travolti in un modo o nell’altro dalla scure dell’ Espionage Act.
La storia di Hale porta alla luce anche un’altra questione, quella delle vittime collaterali. Secondo il Bureau of Investigative Journalism, o TBIJ, con sede nel Regno Unito, il numero totale di morti causate da droni e altre operazioni di uccisione sotto copertura in Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia sia compreso tra 8.858 e 16.901 da quando gli attacchi sono iniziati nel 2004. Delle persone uccise, si ritiene che ben 2.200 fossero civili, tra cui diverse centinaia di bambini e diversi cittadini statunitensi, tra cui un ragazzo di 16 anni, figlio del predicatore yemenita Anwar Awlaki .
In realtà si tratta quasi sicuramente di una stima al ribasso. Come dimostra la lettera di Hale alla corte questa settimana e i documenti che avrebbe reso pubblici, le persone che vengono uccise negli attacchi dei droni americani sono regolarmente classificate come «nemici uccisi in azione» salvo prova contraria. Ed è stato solo dopo anni di pressioni - e sulla scia dei «Drone Papers» - che l’amministrazione Obama nel 2016 ha introdotto nuovi requisiti per la registrazione delle vittime civili in operazioni segrete di antiterrorismo. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha revocato il provvedimento, lasciando l’opinione pubblica ancora una volta all’oscuro su chi esattamente venga ucciso e perché.
Si può firmare qui per sostenere Daniel Hale https://www.codepink.org/supportdanielhale
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