Il segreto più grande
Me ne stavo seduto nel ristorante quasi deserto del Westin Hotel in Alexandria (Virginia), preparandomi alla resa dei conti col governo federale che tentavo di evitare da oltre sette anni. L’amministrazione Obama voleva che rivelassi le fonti confidenziali utilizzate per un capitolo del mio libro “State of War” (2006) su un’operazione fallita della CIA. Avevo scritto di quella stessa operazione anche per il New York Times, ma i redattori del giornale avevano cassato lo scoop su richiesta del governo. E non era la prima volta che accadeva.
1 Il mercato dei segreti
Infagottato per il vento gelido, insieme ai miei avvocati, stavo per raggiungere la porta del tribunale quando due paparazzi si sono lanciati verso di noi con i loro flash. Come giornalista, avevo assistito a questa scena dozzine di volte, guardando con stupore da bordo campo la frenesia dei fotografi e delle troupe televisive al lavoro. Non avrei mai pensato di trovarmi un giorno dall’altra parte, ad affrontare quel trambusto.
In quella mattina del gennaio 2015, mentre passavo davanti ai fotografi per entrare nel tribunale, vidi un gruppo di giornalisti, alcuni li conoscevo personalmente. Erano venuti qui per seguire il mio caso, mi stavano aspettando e mi osservavano. Mi sentivo isolato e solo.
Abbiamo occupato un’angusta sala riunioni appena fuori dall’aula del giudice distrettuale Leonie Brinkema, lì abbiamo atteso l’inizio dell’udienza preliminare che avrebbe determinato il mio destino. I miei avvocati avevano lavorato con me su questo caso per così tanti anni che ormai ci sentivamo più che amici. Avevamo fatto spesso macabre battute su come sarebbe stata la prigionia per me, ma avevano usato tutte le loro risorse per assicurarsi che non accadesse: erano persino riusciti a tenermi fuori dalle aule di tribunale e lontano da qualsiasi interrogatorio dei pubblici ministeri federali.
Fin’ora.
Il mio caso rientrava in una vasta operazione di repressione contro reporter e informatori iniziata durante il mandato di George W. Bush e proseguita in modo ancora più aggressivo sotto l’amministrazione Obama, la quale aveva già perseguito numerosi casi di fughe di notizie, più di tutte le precedenti amministrazioni messe insieme. I funzionari di Obama sembravano determinati a utilizzare le indagini penali sulle fughe di notizie per limitare le inchieste sulla sicurezza nazionale. Ma il giro di vite si applicava solo ai dissidenti di basso livello; gli alti funzionari coinvolti, come l’ex direttore della CIA David Petraeus, erano ancora trattati coi guanti bianchi.
Inizialmente, me l’ero cavata bene nei tribunali, sorprendendo molti legali navigati. Nel tribunale del distretto orientale della Virginia, Brinkema si era schierata dalla mia parte quando il governo mi aveva ripetutamente citato in giudizio per testimoniare davanti al gran giurì. Si era pronunciata di nuovo in mio favore annullando un mandato di comparizione nel caso di Jeffrey Sterling, un ex agente della CIA accusato dal governo di essere una fonte per la notizia di una sfortunata operazione della CIA. Nelle sue sentenze Brinkema affermò che il Primo Emendamento copre il reporter’s privilege che da ai giornalisti il diritto di tutelare le loro fonti, così come clienti e pazienti hanno il diritto di vedere protette le comunicazioni private con avvocati e medici.
Ma l’amministrazione Obama ha fatto appello contro la sua sentenza del 2011 che annullava la citazione in giudizio e, nel 2013, la Corte d’Appello del IV Circuito, in una decisione a maggioranza, si è schierata con l’esecutivo stabilendo che non valeva nessun reporter’s privilege in questo caso. Nel 2014, la Corte Suprema ha rifiutato di ascoltare il mio appello, validando la sentenza del IV Circuito. Ora niente impediva al Dipartimento di Giustizia di forzarmi a rivelare le mie fonti o incarcerarmi per oltraggio alla Corte.
Anche se stavo perdendo nei tribunali, lentamente guadagnavo il favore dell’opinione pubblica. La mia decisione di ricorrere alla Corte Suprema aveva catturato l’attenzione della politica e dei media nazionali. Invece di ignorare il mio caso, come avevano fatto per anni, i media ora ne parlavano come una delle più grandi battaglie costituzionali sulla libertà di stampa.
Quella mattina ad Alessandria, io e i miei avvocati abbiamo appreso che i pubblici ministeri avevano perplessità su “State of War: The Secret History of the CIA and the Bush Administration”, in molti passaggi non riporto esplicitamente dove ho ottenuto le informazioni, quali sono classificate e quali no. Era mia intenzione non interrompere il flusso narrativo del libro con chiose che spiegassero dove avevo appreso ogni fatto, e non volevo dire come avevo ottenuto così tante informazioni sensibili. Se i pubblici ministeri non potevano indicare i passaggi specifici per provare che mi ero servito di fonti privilegiate, il loro procedimento penale contro Sterling sarebbe andato in mille pezzi.
Quella mattina, quando sono entrato in aula, ho pensato che i pubblici ministeri potevano chiedermi di fare chiarezza su passaggi specifici nel mio libro, sulle informazioni e sulle fonti riservate. Se non avessi risposto, avrebbero chiesto al giudice di considerarmi testimone reticente e mandarmi in galera.
Ero preoccupato, ma sapevo che in qualche modo questa udienza andava a completare il mio lungo e strano vissuto di reporter investigativo per la sicurezza nazionale negli ultimi vent’anni. Mentre prendevo la parola, pensavo a come ero finito qui, quanta libertà di stampa era stata spazzata via e quanto fosse cambiato drasticamente il lavoro dei giornalisti sulla sicurezza nazionale nell’era post 11 settembre.
Non c’è una sala stampa nel quartier generale della CIA, a differenza della Casa Bianca. L’agenzia non distribuisce pass stampa che consentono ai reporter di camminare nei corridoi, come avviene invece al Pentagono. Non tiene regolari conferenze stampa, come fa il Dipartimento di Stato come la maggior parte delle amministrazioni. L’unico vantaggio che hanno i reporter che si occupano della CIA è il tempo. Rispetto ai grandi ritmi di Washington, la CIA diffonde relativamente pochi comunicati stampa al giorno. Si ha più tempo per scavare, più tempo per incontrare persone e sviluppare rapporti con le fonti.
Ho iniziato a occuparmi della CIA nel 1995. La Guerra Fredda era terminata, la CIA si stava ridimensionando e l’ufficiale della CIA Aldrich Ames era appena stato smascherato come spia russa. Un’intera generazione di alti funzionari CIA stava lasciando Langley. Molti volevano parlare.
Ero il primo reporter che molti di loro avessero mai incontrato. Quando emersero dalle loro vite insulari alla CIA, avevano un’idea vaga di quali informazioni sarebbero state considerate degne di nota. Così ho deciso di mostrare più pazienza con loro di quanto avessi mai fatto prima con le altre fonti. Ho dovuto imparare ad ascoltare e lasciarli parlare di tutto ciò che ritenevano interessante. Avevano storie affascinanti da raccontare.
Oltre alle loro esperienze di spionaggio, molti erano stati coinvolti nell’intelligence alle riunioni del vertice presidenziale, ai negoziati sui trattati e ad altre conferenze internazionali ufficiali. Mi resi conto che questi ex ufficiali CIA erano stati dietro le quinte di alcuni degli eventi storici più significativi degli ultimi decenni e avevano un punto di osservazione privilegiato e inedito su ciò che era accaduto nella politica estera americana. Ho iniziato a pensare a questi agenti come i personaggi principali della commedia di Tom Stoppard “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”, in cui Stoppard reinventa “Amleto” dal punto di vista di due personaggi minori che guardano fatalisticamente l’opera shakespeariana da dietro le quinte.
Mentre mi occupavo della CIA per il Los Angeles Times e, successivamente, per il New York Times, ho scoperto che ascoltare pazientemente le mie fonti pagava in modi inaspettati. Durante un’intervista, una fonte mi stava parlando di una piccola battaglia burocratica interna alla CIA, quando – di sfuggita – fece riferimento a come durante le guerre balcaniche l’allora presidente Bill Clinton avesse segretamente dato il via libera all’Iran per spedire armi ai musulmani bosniaci. L’uomo aveva già ripreso a parlare della sua battaglia burocratica quando mi resi conto di ciò che aveva appena detto e lo interruppi, chiedendogli di tornare all’Iran. Questo mi ha portato a scrivere una serie di inchieste che hanno spinto la Camera dei Deputati a creare un comitato speciale per indagare sul corridoio segreto di armi Iran-Bosnia. Un’altra fonte mi ha sorpreso offrendomi volontariamente una copia della storia segreta della CIA sul coinvolgimento dell’agenzia nel colpo di stato del 1953 in Iran. Fino ad allora, la CIA aveva sostenuto con forza che molti dei suoi documenti interni relativi a quel colpo di stato erano andati perduti o distrutti.
Ma un incidente mi ha fatto riflettere se continuare il mio lavoro come reporter della sicurezza nazionale. Nel 2000, John Millis, un ex agente CIA che era diventato direttore del personale del Comitato di intelligence della Camera, mi convocò nel suo piccolo ufficio a Capitol Hill. Dopo aver chiuso la porta, tirò fuori un rapporto riservato dell’ispettore generale della CIA e lo lesse ad alta voce, lentamente, mentre io sedevo accanto a lui. Ripeteva passaggi quando glielo chiedevo, permettendomi di trascrivere il rapporto alla lettera. Il rapporto concludeva che alti funzionari della CIA avevano impedito un’indagine interna, c’erano prove che l’ex direttore della CIA John Deutch aveva mal gestito grandi volumi di materiale classificato, archiviandoli sul personal computer della sua abitazione.
Lo scoop fu esplosivo e fece infuriare membri influenti della CIA.
Diversi mesi dopo, Millis si uccise. La sua morte mi scosse tantissimo. Non credevo che il mio scoop avesse avuto un ruolo, ma mentre guardavo la folla di attuali ed ex agenti CIA affluire nella chiesa della periferia della Virginia, dove si teneva il suo funerale, mi chiedevo se fossi coinvolto in un gioco che stava diventando mortale. (Non ho mai rivelato prima che Millis fosse la fonte dell’articolo su Deutch, ma la sua morte – di oltre 17 anni fa – mi fa credere che non ci sia più alcun motivo per mantenere segreta la sua identità. In un’intervista per quest’articolo, la vedova di Millis, Linda Millis, ha convenuto che non c’era motivo di continuare a nascondere il suo ruolo come mia fonte, aggiungendo: “Non credo ci sia alcuna prova che [la fuga del rapporto Deutch] abbia avuto qualcosa a che fare con la morte di John.”)
Un’altra lezione dolorosa ma importante l’ho avuta dalla mia copertura del caso di Wen Ho Lee, uno scienziato cinese-americano del Los Alamos National Laboratory, che nel 1999 è stato sospettato dal governo di spionaggio verso la Cina. Dopo che le accuse del governo contro di lui sono cadute, sono stato pesantemente criticato – anche in un editoriale del New York Times – per non avere precisato nelle mie inchieste anche le lacune del caso. L’editoriale diceva che avremmo dovuto “spingere di più per scoprire i punti deboli nella versione dell’FBI contro Lee” e che “al posto di un tono di distacco giornalistico dalle nostre fonti, occasionalmente avevamo usato un tono allarmistico come quello contenuto nei rapporti ufficiali o che ci veniva espresso dagli investigatori, membri del Congresso e dell’amministrazione con conoscenza del caso”.
Col senno di poi, credo che la critica fosse corretta.
Quell’amara esperienza mi ha quasi portato a lasciare il Times ma ho deciso di rimanere. Alla fine, mi ha reso molto più scettico nei confronti del governo.
Avere successo come reporter della CIA significava inevitabilmente scoprire segreti governativi, e per fare questo bisognava tuffarsi a capofitto nel lato oscuro di Washington, che portava con sé strane dinamiche.
Scoprii che c’era, in effetti, un mercato di segreti a Washington, dove funzionari della Casa Bianca, attuali ed ex burocrati, appaltatori, membri del Congresso, staff e giornalisti, scambiavano informazioni. Questo mercato informale era funzionale al funzionamento dell’apparato di sicurezza nazionale, limitando le brutte sorprese per tutti i soggetti coinvolti. Scoprire che questa sottocultura segreta esisteva, e permetteva ai giornalisti di intravedere il lato oscuro del governo, era sconvolgente. Sembrava un po’ come essere in Matrix.
Una volta saputo che stavi entrando in questo mondo tenebroso, le fonti apparivano talvolta in modi misteriosi. Un giorno, ho ricevuto una telefonata anonima da una persona che voleva fornirmi informazioni altamente sensibili e che aveva letto altri articoli che avevo scritto. Le informazioni provenienti da questa nuova fonte erano molto dettagliate e preziose, ma si è rifiutato di rivelare la sua identità e ha semplicemente detto che avrebbe richiamato. Ha richiamato diversi giorni dopo con ancora più informazioni e, dopo diverse chiamate, sono stato in grado di convincerlo a chiamare a un orario regolare così da essere pronto a parlargli. Per i mesi successivi, ci siamo sentiti una volta a settimana, sempre alla stessa ora e sempre con nuove informazioni. Poiché non sapevo chi fosse la fonte, dovevo essere molto cauto con le informazioni che mi forniva e non ne ho mai usata nessuna negli articoli a meno che non potessi corroborarla con altre fonti. Tutto ciò che la fonte mi ha detto è stato controllato. Poi, dopo alcuni mesi, ha improvvisamente smesso di chiamare. Non ho avuto mai più sue notizie e non ho mai conosciuto la sua identità.
Un alto membro della CIA una volta mi ha detto che la sua regola per decidere se un’operazione segreta dovesse essere approvata era: “Come apparirà sulla prima pagina del New York Times?”
Rivelare alla stampa informazioni riservate era generalmente tollerato in questo segreto sottobosco. I media servivano come valvola di sicurezza, lasciando che gli addetti ai lavori si sfogassero diffondendo notizie. I funzionari più intelligenti hanno capito che spesso dare notizie alla stampa li aiuta, portando nuovo ossigeno agli stantii dibattiti interni. E il fatto che la stampa sia lì, in attesa di fughe di notizie, ha dato una certa organizzazione al sistema. Un alto membro della CIA una volta mi ha detto che la sua regola per decidere se un’operazione segreta dovesse essere approvata era: “Come apparirà sulla prima pagina del New York Times?” Se sembra brutta, non farla. Naturalmente, la sua regola generale è stata sovente ignorata.
Per decenni, la Washington ufficiale non ha fatto quasi nulla per fermare le fughe di notizie. La CIA o qualche altra agenzia ha finto indignazione per la pubblicazione di questo, o quell’articolo scomodo. I funzionari hanno avviato indagini sulle fughe di notizie, ma hanno solo esaminato le mozioni e poi abbandonato ogni caso. Una farsa che sia i funzionari governativi sia i reporter capivano.
Come parte della mia causa legale, i miei avvocati hanno presentato richieste secondo il Freedom of Information Act a diverse agenzie governative per ottenere i documenti che quelle avevano su di me. Tutte le agenzie si sono rifiutate di fornire qualsiasi documento relativo al mio attuale caso di fuga di notizie, ma l'FBI ha iniziato a consegnare risme di documenti su vecchie indagini che erano state condotte anni prima su altre storie che avevo scritto. Sono rimasto sbalordito nel venirne a conoscenza.
I documenti mostrano che l’FBI ha dato suoi nomi in codice alle mie indagini. Una serie di documenti è identificata col nome in codice “BRAIN STORM”; un’altra col nome “SERIOUS MONEY” riguardava un’inchiesta che ho scritto nel 2003 su come il regime iracheno di Saddam Hussein avesse cercato di raggiungere un accordo segreto dell’ultimo minuto con l’amministrazione Bush per evitare la guerra. Eppure il governo aveva chiuso tutte queste indagini senza agire né contro le mie fonti, né contro di me, almeno per quanto mi è dato sapere.
Anche dopo l’11 settembre, il governo non mostrava di perseguire aggressivamente casi di fughe di notizie; il Dipartimento di Giustizia e l’FBI avevano poco interesse a essere assegnati a questo tipo di indagini. Sapevano che erano inutili. Un appunto dell’FBI del 19 giugno 2003 su BRAIN STORM evidenzia il destino condiviso praticamente da tutte le indagini sulle fughe di notizie di quell’epoca. L’ufficio dell’FBI a Washington “ha coperto tutte le piste logiche e nessun sospetto è stato identificato”, questo c’è scritto. “Sulla base di questo, l’Ufficio di Washington sta rinviando la questione al quartier generale dell’FBI per ulteriori approfondimenti e/o per presentare questo caso al Dipartimento di Giustizia per la chiusura”.
Uno dei motivi per cui i funzionari non conducevano indagini aggressive sulle fughe di notizie era che si impegnavano regolarmente in negoziati silenziosi con la stampa per cercare di fermare la pubblicazione di articoli sensibili sulla sicurezza nazionale. Capivano che un approccio duro avrebbe potuto portare alla rottura di questo tacito accordo.
All’epoca, solitamente, seguivo questi negoziati. Circa un anno prima dell’11 settembre, per esempio, sapevo che la CIA aveva inviato ufficiali giudiziari in Afghanistan per incontrare Ahmed Shah Massoud, il leader della ribelle Alleanza del Nord, che stava combattendo il governo talebano. Gli ufficiali CIA erano stati inviati per cercare di convincere Massoud ad aiutare gli americani a inseguire Osama bin Laden, che allora viveva in Afghanistan sotto la protezione dei talebani.
Quando ho contattato la CIA per un commento, l’allora direttore George Tenet mi ha richiamato personalmente per chiedermi di non pubblicare l’inchiesta. Mi ha detto che la divulgazione avrebbe minacciato la sicurezza degli ufficiali della CIA in Afghanistan. E io ho accettato.
Alla fine ho scritto l’inchiesta dopo l’11 settembre, ma mi sono chiesto se sia stato un errore celarla fino agli attacchi a New York City e Washington. In seguito, indagini indipendenti sull’11 settembre conclusero che lo sforzo della CIA di colpire bin Laden prima degli attacchi era stato vano. Se avessi scritto l’inchiesta prima dell’11 settembre, la CIA si sarebbe irritata ma sarebbe emerso sicuramente un dibattito pubblico su se gli Stati Uniti stessero facendo abbastanza per catturare o uccidere bin Laden. Quel dibattito pubblico avrebbe potuto costringere la CIA a prendere più sul serio lo sforzo di catturare bin Laden.
La mia esperienza con quell’inchiesta e con le seguenti mi ha reso molto meno disposto ad assecondare le successive richieste del governo di pubblicare o meno le notizie. E questo atteggiamento, alla fine, mi ha portato in rotta di collisione con i redattori del New York Times, che - naturalmente - erano disponibili a collaborare con il governo.
2 Tu porti le foto, io porto la guerra
Dopo gli attacchi dell’11 settembre, invocando la sicurezza nazionale l’amministrazione Bush ha chiesto di frequente alla stampa di non pubblicare certe notizie. Alla fine del 2002, per esempio, ho chiamato la CIA per un’intervista sull'esistenza di una prigione segreta in Tailandia che era stata appena creata dalla CIA per ospitare i detenuti di Al Qaeda, tra cui Abu Zubaydah. In risposta, i funzionari dell'amministrazione Bush hanno chiamato il Times e fatto in modo che il giornale rifiutasse l’articolo. Non ero d'accordo con la decisione del giornale di coprire il fatto che la CIA avesse iniziato a creare prigioni segrete. Ho riportato l'informazione un anno dopo. (Nel 2014, il rapporto della Commissione Intelligence del Senato sul programma di tortura della CIA ha fornito nuove informazioni sulle conseguenze della notizia taciuta della Tailandia. “Nel novembre 2002, dopo avere appreso che un importante giornale statunitense era a conoscenza che Abu Zubaydah si trovava nel Paese, alti funzionari della CIA, così come il vicepresidente Cheney, hanno sollecitato il giornale a non pubblicare la notizia”, dichiara il rapporto del 2014. “Anche se il giornale americano non ha rivelato il Paese in cui si trovava Abu Zubaydah, il fatto di avere l'informazione, unito all'interesse precedente dei media, ha portato alla decisione di chiudere il Detention Site Green.”)
I miei articoli che sollevavano domande sul collegamento tra Iraq e Al Qaeda venivano tagliati, insabbiati o tenuti al di fuori del giornale.
Nel 2002, stavo anche iniziando a scontrarmi con i redattori per il nostro modo di trattare le affermazioni dell'amministrazione Bush sulla preparazione all’intervento militare in Iraq. I miei articoli che sollevavano domande sul collegamento tra Iraq e Al Qaeda venivano tagliati, insabbiati o tenuti al di fuori del giornale.
Una delle poche storie che sono riuscito a mettere in prima pagina metteva in dubbio i rapporti secondo cui un ufficiale dei servizi segreti iracheni avrebbe incontrato il complottista dell'11 settembre Mohamed Atta a Praga prima degli attacchi a New York e Washington. Doug Frantz, allora redattore delle indagini a New York, sentì di doverlo fare di nascosto. “Data l'atmosfera tra i redattori senior del Times, ero preoccupato che l’articolo non sarebbe arrivato a pagina 1 in un giorno in cui tutti erano riuniti intorno al tavolo”, mi ha scritto Frantz via e-mail di recente. “Era troppo importante da pubblicare all'interno del giornale, così l'ho proposto di domenica, un giorno in cui spesso i redattori anziani non sono coinvolti nella discussione”.
Molti al giornale ritenevano Howell Raines, direttore esecutivo di allora, preferisse articoli a sostegno della guerra. Lui ora afferma che non era a favore della guerra e che non si è opposto a mettere il mio articolo di Praga in prima pagina. “Non ho mai detto a nessuno, a nessun livello del Times, che volessi articoli che supportassero la guerra”, mi ha detto in una email.
Nel frattempo, Judy Miller, un’appassionata reporter che viveva a New York e aveva fonti ai livelli più alti dell'amministrazione Bush, stava scrivendo un pezzo dopo l'altro che sembravano documentare l’esistenza di armi irachene di distruzione di massa. Le sue storie aiutavano a organizzare l'agenda politica a Washington.
Miller ed io eravamo amici, all'epoca ero probabilmente uno dei suoi amici più stretti nell'ufficio di Washington. Nell'anno prima dell'11 settembre, Miller ha lavorato a una serie notevole di articoli che avvertivano del nuovo potere di Al Quaeda. Nei mesi successivi l'11 settembre, sia io che lei ci siamo dati da fare per documentare il ruolo di Al Qaeda negli attacchi e la risposta antiterroristica degli Stati Uniti. Facevamo entrambi parte di una squadra che proprio per questi temi ha vinto il premio Pulitzer 2002 per il reportage.
Ma nei mesi precedenti l'invasione dell'Iraq, avvenuta nel marzo 2003, mentre Miller e altri reporter del Times stavano trovando tante storie importanti che piacevano ai redattori, io avevo delle fonti nella comunità dell'intelligence disposte a parlare con me di ciò che pensavano dell'operato dell’amministrazione Bush. Continuavo a sentirli lamentarsi di nascosto che la Casa Bianca stava facendo pressione sugli analisti della CIA per falsificare libri e consegnare rapporti di intelligence che seguivano la linea del partito in Iraq. Ma quando insistevo, pochi erano disposti a fornire dettagli.
Dopo settimane di ricerca, tra la fine del 2002 e l'inizio del 2003 avevo abbastanza materiale per scrivere dello scetticismo degli analisti dell'intelligence circa le ragioni dell'amministrazione Bush di entrare in guerra, in particolare riguardo all'esistenza di legami tra il regime di Saddam e Al Qaeda.
Il primo articolo consegnato è rimasto nel sistema informatico del Times per giorni, poi settimane, senza essere toccato dai redattori. Ho chiesto a diversi editor informazioni sullo stato dell'articolo ma nessuno sapeva nulla.
Alla fine l'articolo è uscito, ma lo avevano tagliato tanto e sepolto in fondo al giornale. Ne ho scritto un altro ed è successa la stessa cosa. Ne ho scritti altri, e iniziavo a capire qual era il messaggio. Ebbi l'impressione che il Times non volesse questi articoli.
Ciò che mi faceva arrabbiare di più era che mentre nascondevano i miei pezzi dal tono scettico, i redattori non solo davano i titoli principali alle notizie sull'Iraq e le armi di distruzione di massa, ma chiedevano anche che io aiutassi a mettere insieme gli articoli con altre pubblicazioni sui presunti programmi WMD iracheni. Ero così stufo di tutto ciò che quando il Washington Post ha riportato che l'Iraq aveva fornito gas nervino ai terroristi, mi sono rifiutato di verificare la notizia. Un redattore di secondo livello dell'ufficio di Washington mi ha urlato contro a seguito del mio rifiuto. È venuto alla scrivania con una mazza da golf riempendomi di insulti perché gli avevo detto che la notizia era una stronzata e non avrei fatto nessuna ricerca in merito.
Come piccolo segno di protesta, ho messo un bigliettino sulla mia scrivania che recitava: "Tu porti le foto, io porto la guerra". Era la presunta frase dell'editore del New York Journal William Randolph Hearst all'artista Frederic Remington, che aveva mandato a Cuba per raccontare la "crisi" prima della guerra ispano-americana. Credo che i miei redattori non l’abbiano nemmeno notato.
Proprio quando l'invasione dell'Iraq stava per partire, ho cominciato a lavorare su una notizia interessante che mi ha aiutato a distogliere la mente dalle mie battaglie con il Times.
Devo ammettere che è stato strano fare un'intervista nudo, ma è quello che mi ha richiesto una fonte chiave.
Nel marzo del 2003, ho volato fino a Dubai per intervistare un uomo molto preoccupato. Ci erano volute settimane di trattative, attraverso una serie di intermediari, per organizzare l'incontro. Ci siamo dati appuntamento in un hotel di lusso a Dubai, la capitale moderna degli intrighi mediorientali.
Poco prima del nostro incontro, tuttavia, la fonte ha avanzato nuove richieste. Avremmo dovuto parlare nel bagno turco dell'hotel, nudi. Voleva essere sicuro di non essere registrato. Questo rendeva anche impossibile per me prendere appunti fino a dopo il nostro incontro.
Ma ne è valsa la pena. Mi ha raccontato la storia di come il Qatar avesse dato rifugio a Khalid Shaikh Mohammed negli anni '90, ricercato perché coinvolto nel piano di fare esplodere aerei di linea americani. I funzionari del Qatar avevano dato a KSM un incarico governativo e poi lo avevano evidentemente avvertito quando l'FBI e la CIA si stavano avvicinando, permettendogli di fuggire in Afghanistan, dove ha unito le forze con bin Laden ed è diventato la mente dietro il complotto dell'11 settembre.
Successivamente sono stato in grado di verificare la storia, che era particolarmente significativa perché il Qatar era la sede del Comando Centrale degli Stati Uniti, il comando militare incaricato dell’invasione dell'Iraq.
Dopo la pubblicazione della storia, mi sono sentito rigenerato.
Quella primavera, proprio quando cominciò l'invasione dell'Iraq guidata dagli Stati Uniti, chiamai la CIA per commentare la notizia su una sua folle operazione: consegnare progetti nucleari all'Iran. L'idea era che la CIA avrebbe dato agli iraniani progetti difettati, così Teheran avrebbe costruito una bomba che si sarebbe rivelata inutile.
Il problema era l’esecuzione del piano segreto. La CIA aveva ottenuto dei progetti nucleari russi da un disertore, li aveva consegnati a degli scienziati americani per inserirvi degli errori. La CIA ha poi chiesto a un altro russo di contattare gli iraniani. Doveva fingere di voler vendere i documenti al miglior offerente.
Ma i difetti apportati ai progetti erano evidenti. Il russo che doveva consegnarli temeva che gli iraniani li avrebbero notati rapidamente, e sarebbe stato nei guai. Per proteggersi quando ha consegnato i documenti a una missione iraniana a Vienna, ha incluso una lettera che avvertiva che i progetti avevano dei problemi. Così gli iraniani hanno ricevuto i progetti nucleari e sono stati anche avvertiti di cercare i difetti presenti.
Diversi funzionari della CIA credevano che l'operazione fosse stata mal gestita o almeno non avesse raggiunto i suoi obiettivi. Nel maggio 2003, ho verificato la notizia attraverso una serie di fonti, ho scritto una bozza e ho chiamato l'ufficio affari pubblici della CIA per un’intervista.
Invece di rispondere a me, la Casa Bianca ha immediatamente chiamato il capo dell'ufficio di Washington Jill Abramson e ha chiesto un incontro.
Rice mi ha guardato dritto negli occhi. Avevo ricevuto informazioni così delicate che avevo l'obbligo di dimenticare la vicenda, mi ha detto.
Il giorno dopo, Abramson ed io siamo andati nell'Ala Ovest della Casa Bianca per incontrare il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. Nel suo ufficio, in fondo al corridoio dello Studio Ovale, eravamo seduti di fronte a Rice, al direttore della CIA George Tener, e due loro aiutanti.
Rice mi ha guardato dritto negli occhi. Avevo ricevuto informazioni così delicate che avevo l'obbligo di dimenticare la vicenda, distruggere i miei appunti e non fare mai più una telefonata per discutere la questione con qualcuno. Ha detto ad Abramson e a me che il New York Times non avrebbe mai dovuto pubblicare la notizia.
Ho cercato di ribaltare la situazione. Ho fatto a Tenet alcune domande sul programma iraniano e sono riuscito a fargli confermare la notizia, e anche a fornirmi alcuni dettagli che non avevo. L’unico punto che contestava era che l'operazione fosse stata gestita male.
Rice ha dichiarato che l'operazione è stata uno strumento alternativo a un'invasione su larga scala dell'Iran, come la guerra che il presidente George W. Bush aveva appena lanciato in Iraq. "Ci criticate perché andiamo in guerra per le armi di distruzione di massa", ricordo che diceva. "Bene, questo è quello che possiamo fare invece". (Anni dopo, quando Rice ha testimoniato nel processo Sterling, una copia dei "punti di discussione" che aveva preparato per il nostro incontro è stata inserita nelle prove, anche se non ricordo effettivamente lei disse molte di quelle cose.)
Abramson disse a Rice e Tenet che la decisione se pubblicare la notizia spettava all'editore esecutivo del Times Howell Raines. Dopo la riunione, Abramson e io ci siamo fermati a pranzo. Eravamo entrambi sbalorditi dalla forte pressione che avevamo appena subito. Ma avevo ottenuto una conferma di alto livello per la notizia — una conferma migliore di quanto potessi mai immaginare.
Subito dopo che Abramson ed io ci incontrammo con Tenet e Rice, è scoppiato lo scandalo di Jayson Blair, costringendo Raines a un'intensa battaglia per salvare il suo incarico. Blair è semplicemente stato il fattore scatenante che ha permesso al risentimento accumulato contro Raines e il suo stile di gestione, di uscire allo scoperto.
Abramson ricorda che dopo il nostro incontro con Rice, ha portato la notizia dell'Iran sia a Raines che all'allora direttore Gerald Boyd. “Mi hanno risposto con un secco no” sulla pubblicazione dell’articolo, mi ha comunicato di recente Abramson. Ha dichiarato di avere detto a Raines e Boyd che Rice era disposta a discutere la notizia con loro su una linea telefonica sicura da una struttura nell’East Side di Manhattan. ma dice che non hanno mai chiesto di fare quel passo, e lei non li ha spinti a farlo. Raines contesta in una mail “Non sono stato informato di questo incontro [con Rice e Tenet], né ricordo di essere stato coinvolto in alcun modo nella vostra storia”.(Boyd è morto nel 2006.)
Raines ha lasciato il giornale all'inizio di giugno 2003. Joe Lelyveld, editore esecutivo in pensione, è tornato brevemente a dirigere il Times ad interim. Ho parlato con lui della notizia sull'Iran per telefono, ma non ha avuto il tempo di occuparsene.
Quando Bill Keller è stato nominato direttore esecutivo nell'estate del 2003, ha accettato di discuterne con Abramson e me. Nel frattempo Abramson era stata promossa a managing editor, il numero due di Keller. Dopo avere esaminato la notizia con lui, Keller ha deciso di non pubblicarla. Ho cercato per tutto l'anno successivo di fargli cambiare idea, ma non ci sono riuscito.
Ero avvilito, la notizia sull'Iran era ormai inchiodata, e sembrava si potesse parlare solo di WMD. Ho cominciato a pensare di scrivere un libro che includesse la notizia dell'Iran e documentasse la guerra al terrorismo in modo più ampio, come non avrei mai potuto fare sul Times.
L’amministrazione Bush continuava con successo a convincere la stampa ora a pubblicare ora a nascondere notizie sulla sicurezza nazionale, ma non aveva ancora lanciato una campagna aggressiva per dare la caccia agli informatori e ai giornalisti. Tutto questo è cambiato con il caso Valerie Plame.
Nel dicembre 2003, il Dipartimento di Giustizia ha nominato Patrick Fitzgerald, allora procuratore degli Stati Uniti a Chicago, come consulente speciale per indagare sulle accuse che alti funzionari della Casa Bianca di Bush avessero divulgato l'identità segreta dell’ufficiale della CIA Plame. I critici sostenevano che l'avessero venduta alla stampa per punire il di lei marito, critico sulla guerra in Iraq, l'ex diplomatico americano Joseph Wilson.
I liberali anti-Bush trattavano il caso Valerie Plame come una lotta per procura sulla guerra in Iraq, piuttosto che come una potenziale minaccia alla libertà di stampa.
Senza pensare alle conseguenze a lungo termine, molti nei media hanno fatto il tifo per Fitzgerald, esortandolo a perseguire la fonte della fuga di notizie. I liberali anti-Bush trattavano il caso Valerie Plame e l'indagine di Fitzgerald come una lotta per procura sulla guerra in Iraq, piuttosto che come una potenziale minaccia alla libertà di stampa.
Fitzgerald, un ispettore simile a Javert (da I Miserabili di V.Hugo, n.d.r.), con poteri di consulente speciale per cui nessuno al Dipartimento di Giustizia poteva tenerlo a freno, ha iniziato a citare in giudizio i giornalisti di tutta Washington affinché testimoniassero davanti a un gran giurì.
I liberali non dissero niente mentre Fitzgerald incalzava un giornalista di spicco dopo l'altro per ottenere informazioni. Solo Judy Miller andò in prigione piuttosto che collaborare. (Ha testimoniato solo dopo aver ricevuto una deroga dalla sua fonte, I. Lewis "Scooter" Libby, un aiutante di spicco del vicepresidente Dick Cheney.)
Fitzgerald è divenuto famoso come procuratore duro e senza fronzoli e il fatto che abbia avuto la meglio sulla stampa di Washington non ha danneggiato la sua reputazione. Anzi, è diventato socio di uno dei più importanti studi legali d'America.
Il caso Plame alla fine è sfumato, ma aveva creato un pericoloso precedente. Fitzgerald aveva citato in giudizio con successo i giornalisti e li aveva costretti a testimoniare e nel processo era diventato la più grande star del Dipartimento di Giustizia. Aveva demolito i vincoli politici, sociali e legali che prima rendevano riluttanti i funzionari di governo a perseguire i giornalisti e le loro fonti. È diventato un modello per i procuratori in carriera, che hanno visto che si poteva salire al vertice del Dipartimento di Giustizia perseguendo i giornalisti e le loro fonti.
La Casa Bianca, nel frattempo, notò che l’avere preso di mira i giornalisti e condotto indagini aggressive non aveva portato nessuna sollevazione politica. L'accordo informale vecchio di decenni tra il governo e la stampa — che cioè il governo tolleri le fughe di notizie — era rescisso.
3 Stellar Wind
Nell’estate del 2003, il New York Times a Washington ha nominato un nuovo capo ufficio: Philip Taubman, un vecchio amico di Bill Keller. Taubman era capo ufficio del Times a Mosca quando Keller vinse un premio Pulitzer come corrispondente lì. Ora era l’uomo di Keller a Washington.
Taubman e io sviluppammo un rapporto amichevole. Lui all’inizio della sua carriera aveva scritto di sicurezza nazionale e di intelligence, e sembrava desideroso di scoop. Ma dal 2004, ho cominciato a non essere d’accordo con alcune delle sue decisioni. Quella primavera seppi che il ragazzo d’oro dei neoconservatori americani in Iraq, possibile futuro leader iracheno, Ahmad Chalabi, aveva detto a un funzionario dell’intelligence iraniana che la National Security Agency aveva violato i codici iraniani; l’amministrazione Bush aveva scoperto questo tradimento.
Ho chiamato la CIA e la NSA per un’intervista, il direttore della NSA Michael Hayden ha chiamato Taubman e gli ha chiesto di non pubblicare la storia. Hayden sostenne che anche se Chalabi avesse detto agli iraniani che gli Stati Uniti avevano aggirato i loro codici, non era certo che gli iraniani gli credessero né che stessero ancora usando gli stessi sistemi di comunicazione.
Fino a quando, l’ufficio affari pubblici della CIA chiamò Taubman e gli disse che qualcun altro era sulla stessa storia, e che non dovevamo più sentirci obbligati a non pubblicarla. Ero arrabbiato per avere perso un’esclusiva, e credevo che gli argomenti di Hayden contro la pubblicazione servissero semplicemente a salvare la Casa Bianca dall’imbarazzo su Chalabi.
Improvvisamente, mentre eravamo in piedi davanti alla porta d’ingresso, mi disse tutto.
Nella primavera del 2004, proprio mentre il caso Plame si stava scaldando e cominciava a cambiare le dinamiche tra il governo e la stampa, ho incontrato una fonte che sapeva essere in corso qualcosa di veramente grande e segreto all’interno del governo. Era il più grande segreto che avesse mai sentito, qualcosa che la rendeva troppo nervosa per parlarne con me. La paura di nuove indagini aggressive sulla fuga di notizie stava circolando, decisi di rimanere in contatto con la fonte e di ritornare ancora sulla questione.
Nei mesi successivi, ho incontrato la fonte più volte, ma non sembrava mai disposta a divulgare quello che noi due avevamo iniziato a chiamare “il segreto più grande”. Infine, al termine dell’estate del 2004, mentre stavo per salutarla dopo una nostra riunione, dissi che dovevo sapere quale fosse il segreto. Improvvisamente, mentre eravamo in piedi davanti alla porta d’ingresso, mi disse tutto. Nel corso di circa dieci minuti, la fonte mi ha fornito un quadro dettagliato del massiccio programma di spionaggio interno della NSA dopo l’11 settembre, che in seguito ho appreso avere il nome in codice Stellar Wind.
La fonte mi disse che la NSA aveva intercettato gli americani senza chiedere i mandati di perquisizione, e senza l’approvazione del tribunale. La NSA stava anche raccogliendo le registrazioni telefoniche e di posta elettronica di milioni di americani. L’operazione era stata autorizzata dal presidente. L’amministrazione Bush era impegnata in un massiccio programma di spionaggio interno probabilmente illegale e incostituzionale, e nel governo solo una manciata di persone accuratamente selezionate ne era a conoscenza.
Ho lasciato quell’incontro scioccato ma come giornalista ero anche euforico. Sapevo che questa notizia era una occasione unica nella vita.
La NSA aveva vissuto secondo regole severe contro lo spionaggio interno per 30 anni, da quando le indagini del Comitato Church sugli abusi di intelligence negli anni ’70 avevano portato a una serie di riforme. Un provvedimento di riforma, il Foreign Intelligence Surveillance Act del 1978, ha reso illegale per la NSA origliare gli americani senza l’approvazione di un tribunale segreto FISA. La mia fonte mi aveva appena rivelato che l’amministrazione Bush stava ignorando la legge e agendo in segreto.
Cominciai rapidamente a pensare a come avrei potuto confermare la storia e fortunatamente trovai la persona giusta, una fonte che di solito non amava offrire molte informazioni, ma che era disposta, a volte, a confermare cose che avevo sentito altrove. Mentre eravamo seduti da soli in un bar tranquillo, dissi ciò che avevo sentito sul programma della NSA, e fu subito chiaro che anche questa fonte conosceva lo stesso segreto e ne era turbata.
Mi spiegò molti dei dettagli tecnici di questo programma di spionaggio interno, descrivendo come la NSA si fosse agganciata a giganteschi portali di accesso tra le reti di telecomunicazione nazionali e internazionali, in modo da poter arrivare a tutto il traffico telefonico internazionale e i messaggi email inviati o ricevuti dagli americani.
Mentre cercavo altre persone con cui approfondire la storia mi resi conto che il reporter seduto accanto a me nell’ufficio di Washington, Eric Lichtblau, aveva sentito di cose simili. Lichtblau si occupava del Dipartimento di Giustizia. Quando arrivò al giornale nel 2002, ero stato geloso delle sue capacità di reporter, specialmente del suo successo nel procurarsi fonti. A volte ho lasciato che il mio risentimento avesse la meglio su di me; ricordo un incontro con Abramson in cui ero apertamente sprezzante di una storia esclusiva su cui Lichtblau stava lavorando. Ma lui non me lo ha mai rinfacciato, e abbiamo instaurato un’amicizia e iniziato a lavorare insieme.
Lichtblau aveva saputo da una fonte che qualcosa di potenzialmente illegale stava accadendo al Dipartimento di Giustizia, che i funzionari sembravano ignorare la legge che richiede i mandati per le intercettazioni di sicurezza nazionale, e che il procuratore generale John Ashcroft potesse essere coinvolto.
Lichtblau e io abbiamo confrontato gli appunti, probabilmente eravamo sulla stessa storia. Decidemmo quindi di lavorare insieme.
Entrambi abbiamo continuato a scavare, e parlato con più persone. Abbiamo provato a fare alcune interviste insieme e ci siamo accorti che avevamo stili di indagine molto diversi. Mentre a me piaceva lasciare che una fonte parlasse di qualsiasi cosa avesse in mente, a Lichtblau piaceva andare dritto al punto, e a volte tormentava le fonti fino a che sputavano le informazioni. I nostri approcci erano complementari, e inavvertitamente abbiamo sviluppato una routine poliziotto buono-poliziotto cattivo. Lichtblau dava spesso alle nostre fonti dei soprannomi coloriti che ci rendevano più facile parlare, senza rivelare la loro identità. Ha chiamato Vomit Guy una delle prime fonti sulla storia della NSA perché quando lui aveva detto di cosa voleva parlare, la fonte gli aveva risposto che era così sconvolta dall’argomento che voleva vomitare.
Nell’autunno del 2004, avevamo una bozza di storia. Sentivo che era il momento di andare oltre, così d’impulso ho provato a bluffare per arrivare ai vertici della NSA. Ho chiamato la portavoce della NSA, Judy Emmel, e le ho detto che dovevo parlare con Hayden immediatamente. Dissi che era urgente e che non potevo dirle di cosa si trattava.
Ha fatto venire subito Hayden al telefono. Ero scioccato: il mio bluff aveva funzionato ma ora che avevo Hayden dovevo pensare velocemente a cosa chiedergli. Decisi di leggergli i primi paragrafi della bozza che io e Lichtblau stavamo scrivendo. Lichtblau era seduto accanto a me e mi fissava intensamente mentre leggevo al telefono la parte superiore della storia. Io ero seduto davanti al mio computer, pronto a trascrivere qualsiasi cosa Hayden avesse detto.
Dopo i primi paragrafi, Hayden ha emesso un sussulto e ha balbettato per un momento. Infine, ha detto che qualsiasi cosa la NSA stesse facendo era legale e operativamente efficace. Lo incalzai ulteriormente, ma si rifiutò di dire di più e riattaccò.
L’amministrazione Bush era impegnata in un massiccio programma di spionaggio interno probabilmente illegale e incostituzionale, e nel governo solo una manciata di persone accuratamente selezionate ne era a conoscenza.
Hayden aveva quasi confermato la storia. Sembrava ovvio dalla sua risposta che sapeva esattamente di cosa stavo parlando e aveva iniziato a difendere le sue azioni prima di chiudere la conversazione. Dopo aver spiegato a Lichtblau quello che Hayden aveva appena detto, andai verso l’ufficio di Taubman per dargli la notizia. “Ho pensato che fosse uno scoop formidabile, ma sapevo che ci saremmo trovati di fronte ad alcune domande difficili. La pubblicazione poteva minare gli sforzi degli Stati Uniti per prevenire un altro attacco stile 11 settembre”, mi ha scritto recentemente Taubman via email.
Pochi giorni dopo Hayden ha chiamato Taubman e gli ha chiesto di non pubblicare la storia della NSA. Taubman ascoltò, ma non si impegnò. Quello fu l’inizio di più di un anno di negoziazioni tra il Times e l’amministrazione Bush che cercò ripetutamente di affossare la notizia.
Pochi giorni dopo, Taubman e io siamo andati all’Old Executive Office Building, vicino alla Casa Bianca, per incontrare John McLaughlin, direttore ad interim della CIA che aveva recentemente sostituito Tenet, e il capo dello staff di McLaughlin, John Moseman. Li abbiamo incontrati nell’ufficio che il direttore della CIA mantiene nell’OEB per essere vicino alla Casa Bianca. L’incontro, il primo di molti tra il Times e il governo sulla storia della NSA, fu strano. Mentre all’incontro con Tenet e Rice sulla storia dell’Iran, questi avevano confermato la storia e avevano chiesto al giornale di eliminarla, McLaughlin e Moseman rifiutarono di confermare le nostre informazioni, continuavano a parlare in termini ipotetici, dicendo che se un tale programma fosse esistito era importante per gli Stati Uniti che rimanesse segreto, e i giornali americani non avrebbero dovuto riferire di queste cose.
Ormai ero passato attraverso questa routine con l’amministrazione Bush diverse volte, e i loro terribili avvertimenti sulla sicurezza nazionale non mi impressionavano più. Li avevo visti gridare al lupo troppe volte.
Taubman non diede loro garanzie che il Times non avrebbe pubblicato la notizia, disse che era compito di Keller decidere. E chiese inoltre di informarci se scoprivano altre redazioni sulla stessa storia.
Nel suo libro di memorie del 2016, Playing to the Edge: American Intelligence in the Age of Terror, Hayden ricorda ciò che aveva sentito da McLaughlin e Moseman, e lo convinse che poteva negoziare con Taubman, ma non con me. “Taubman sembrava essere pensieroso e riflessivo per tutto il tempo. Risen era descritto come odioso, polemico e combattivo, commentava solo per ribattere con il tema costante del diritto del pubblico a sapere – scrive Hayden. – Altri particolari indicavano che Taubman aveva capito la serietà della questione, mentre Risen no, francamente”. Hayden scrive che come risultato di quella valutazione, “siamo diventati abbastanza disponibili con Taubman”.
Lichtblau e io continuavamo nella nostra ricerca. Ci siamo resi conto che ci serviva capire meglio come funzionavano le reti di telecomunicazione americane e internazionali. Ho trascorso una giornata nella biblioteca della Georgetown University studiando riviste tecniche e opere accademiche sull’industria delle telecomunicazioni. Chiamai il quartier generale di AT&T e dissi al portavoce dell’azienda che ero interessato a saperne di più sull’infrastruttura del sistema telefonico, in particolare i grandi interruttori che portano il traffico telefonico e internet negli Stati Uniti. Non dissi perché mi stavo interessando a una questione così arcana, se non che era per un articolo del New York Times.
All’inizio, il portavoce fu molto amichevole e collaborativo, e disse che sarebbe stato felice di farmi parlare con alcuni degli esperti tecnici di AT&T, aggiungendo che avrebbe potuto organizzare un tour nelle loro strutture. Ma non l’ho più sentito. Ho richiamato diverse volte, ma non ha risposto alle mie chiamate. Alla fine ho pensato che qualcuno dell’amministrazione Bush avesse ammonito AT&T a non parlare con me.
Durante l’ottobre 2004, Lichtblau e io continuammo a lavorare sul reportage. A volte scrivevamo nella mia casa fuori Washington, facendo delle pause per guardare gli epici playoff di baseball tra i Boston Red Sox e i New York Yankees. Rebecca Corbett, la nostra redattrice dell’ufficio di Washington, lavorava con noi alla storia.
Stavamo operando sullo sfondo della corsa presidenziale del 2004 tra George W. Bush e John Kerry. A una o due settimane dalle elezioni, Lichtblau e io, insieme a Corbett e Taubman, andammo a New York per un incontro con Keller e Abramson.
Ci sedemmo in fondo all’ufficio di Keller nel vecchio edificio del Times sulla 43esima strada. Era un angolo confortevole, foderato di libri, che avevo già visitato una volta, quando avevo cercato di far cambiare idea a Keller e pubblicare la storia CIA-Iran. Lichtblau, Corbett e io sostenemmo con forza che la storia sulla NSA doveva essere pubblicata.
In quella piccola stanza, ci siamo lanciati in un intenso dibattito sulla sicurezza nazionale e il diritto del pubblico di sapere. Il programma della NSA era anticostituzionale? Keller sembrava scettico sugli argomenti delle nostre fonti.
Gli dissi che questo era il tipo di storia che aveva contribuito a rendere grande il New York Times negli anni ’70, quando Seymour Hersh rivelò una serie di abusi di intelligence. Keller non sembrava impressionato; se ricordo bene definì "superficiale" il paragone tra la storia della NSA e il precedente lavoro di Hersh. (Non credo che il mio commento fosse superficiale, forse era un po’ arrogante).
L’incontro andava avanti e Keller non si lasciava convincere da tutte le ragioni che davamo per pubblicare la storia, mi disperavo alla ricerca di qualche argomento che potesse fargli cambiare idea. Alla fine dissi che se non avessimo pubblicato la storia prima delle elezioni, una fonte chiave avrebbe potuto andare altrove e un altro giornale avrebbe potuto pubblicarla.
Questa era esattamente la cosa sbagliata da dire a Keller. Ha alzato la schiena, chiedendosi ad alta voce se la fonte avesse un’agenda politica. Ci ha detto che non avrebbe ceduto alle pressioni di pubblicare la storia prima delle elezioni perché non voleva lasciarsi influenzare dal potenziale impatto politico della sua decisione editoriale. Ho fatto notare che se avesse deciso di non pubblicare la storia prima delle elezioni, anche questo avrebbe avuto un impatto, ma sembrava ignorare il mio commento.
Alla fine della riunione, disse che non avrebbe fatto pubblicare la storia. In una recente intervista, Keller ha riconosciuto che il mio dire che una fonte poteva andare altrove con la storia aveva influenzato la sua decisione. “Questo ha fatto scattare dei campanelli d’allarme nella mia testa – ha ricordato Keller che pensò – abbiamo una fonte critica con un animus”.
Ha anche detto che aveva considerato il clima generale di quel momento nel paese, e questo aveva pesato molto nella sua decisione di non pubblicare la storia. In un’intervista del 2013 con l’allora redattore pubblico del Times, Margaret Sullivan, si spiegò su questo, dicendo che “tre anni dopo l’11 settembre, noi, come paese, eravamo ancora sotto l’influenza di quel trauma, e noi, come giornale, non ne eravamo immuni. Non si trattava di rapimento patriottico. Era una sensazione costante che il mondo fosse un posto pericoloso”.
Il rifiuto di Keller fu una battuta d’arresto. Dopo le elezioni, Lichtblau e io convincemmo i redattori a lasciarci lavorare ancora sulla storia. Mentre cercavamo altre fonti, abbiamo cominciato a sentire l’effetto raggelante del nuovo approccio del governo alle indagini sulla fuga di notizie. All’interno del piccolo gruppo di persone nel governo informate del programma NSA, sapevano ormai che stavamo indagando e avevano paura di parlare con noi. In una notte nevosa del dicembre 2004, andammo a casa di un funzionario che Lichtblau credeva sapesse del programma NSA. Quando il funzionario aprì la porta, riconobbe Lichtblau e capì subito perché eravamo lì. Cominciò a rimproverarci per esserci presentati senza preavviso, ci disse di andarcene immediatamente e chiuse la porta. Sembrò preoccupato che qualcuno potesse averci visto fuori da casa sua.
Di nuovo il giornale incontrò responsabili dell’amministrazione che volevano impedirci di pubblicare la storia. Nelle settimane dopo le elezioni, Lichtblau, Taubman e io andammo al Dipartimento di Giustizia per incontrare il vice procuratore generale James Comey e il consigliere della Casa Bianca Alberto Gonzales. Ashcroft si era appena dimesso, e anche se non era ancora stato annunciato, era chiaro che Gonzales stava per sostituirlo come procuratore generale. Ora toccava a Gonzales convincerci a chiudere la storia.
Ma una volta iniziata la riunione, Gonzales non disse quasi nulla; sembrava che l’amministrazione fosse temporaneamente felice di avere superato le elezioni senza che la nostra storia fosse pubblicata, e il tono nella stanza era più rilassato del solito. Comey ha fatto la maggior parte del discorso. Ammetteva di avere qualche scrupolo sul programma, continuava a insistere che era troppo importante per farlo conoscere al pubblico e che non avremmo dovuto pubblicare la nostra storia. (Comey non ha però rivelato che per alcuni aspetti di questo programma della NSA lui e molti alti funzionari del Dipartimento di Giustizia, insieme all’allora direttore dell’FBI Robert Mueller, all’inizio del 2004, si erano quasi dimessi).
Nel frattempo, Hayden, aveva fatto di Taubman il centro della sua campagna di lobbying per impedire al Times di pubblicare la storia: invitò lui, ma non Lichtblau o me, al quartier generale della NSA e permise a Taubman di parlare con chi nella NSA era direttamente coinvolto nel programma di spionaggio interno. In seguito, Taubman disse a Lichtblau e a me che non poteva dirci cosa aveva appreso. Oggi, Taubman dice che lo scopo di Hayden “era quello di leggermi il programma in modo ufficioso, in modo che io avessi una migliore comprensione di come funzionava e del perché la sua divulgazione poteva mettere a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
“Quando sono tornato in ufficio, ricordo che tu e Eric, eravate ansiosi di sapere dell’incontro – mi ha detto Taubman in una email. – Vi descrissi la mia visita in generale, e che avevo accettato la condizione di non dire a nessuno i dettagli tecnici che avevo appreso. Però vi dissi anche che avrei impiegato le mie nuove conoscenze per dirvi se qualcosa nella vostra bozza di storia fosse errata”.
“Quando qualcuno ti dà quel tipo di accesso e ti dice che delle vite saranno a rischio, lo prendi sul serio” – Bill Keller
Keller ora dice che la relazione di Taubman con Hayden giocò un ruolo importante nella decisione di non pubblicare la storia. “Taubman conosceva Hayden abbastanza bene, e si fidava di lui – mi ha detto Keller – Hayden invitò Taubman dove si stava effettivamente lavorando al programma NSA. Quando qualcuno ti dà quel tipo di accesso e ti dice che delle vite saranno a rischio, lo prendi sul serio”.
Nel frattempo, la Casa Bianca ha deciso di arruolare i membri della “Gang of Eight”, la manciata di leader del Congresso segretamente informati sul programma mentre il resto del Congresso era tenuto all’oscuro. L’allora deputata Jane Harman, la democratica più importante della commissione per l’intelligence della Camera, chiamò Taubman e si assicurò che il New York Times non pubblicasse la notizia.
Secondo Taubman la chiamata di Harman è arrivata dopo che ne aveva discusso con il governo. Taubman ricorda di aver detto a Hayden o a Rice che il Times aveva bisogno di sentire i leader delle commissioni di intelligence del Congresso che sapevano del programma. “Jane Harman accettò di parlare con me, a condizione che la chiamata fosse ufficiosa. Mi disse che lei e i suoi colleghi, democratici e repubblicani, sostenevano fortemente lo sforzo della NSA e chiesero che il Times non divulgasse niente”.
A metà dicembre 2004, il reportage era stato riscritto, così Lichtblau, Corbett e io cominciammo a spingere di nuovo perché venisse pubblicato.
Invece di andare a New York questa volta, abbiamo tenuto una serie di incontri a porte chiuse con Taubman nel suo ufficio a Washington. Ma il rapporto aggiuntivo e la riscrittura non lo hanno conquistato. Si allineò con gli argomenti dell’amministrazione Bush, il pezzo avrebbe danneggiato la sicurezza nazionale. Questa volta, Keller non era direttamente coinvolto nei nostri incontri. La storia della NSA sembrava definitivamente sepolta.
Stavo per iniziare un congedo a lungo programmato per scrivere un libro sulla CIA e l’amministrazione Bush. Ero furioso che il Times avesse fermato sia la storia dell’Iran che quella della NSA, e arrabbiato perché la Casa Bianca stava sopprimendo con successo la verità. Mi dissi che continuare ad assecondare le decisioni di tagliare, seppellire o tacere così tante storie, come avevo fatto negli ultimi anni, era mancare di rispetto a me stesso.
Così ho scelto di mettere le storie dell’Iran e della NSA nel mio libro. Ero abbastanza sicuro che questo significava che sarei stato licenziato dal Times. Era snervante, ma mia moglie, Penny, mi ha sostenuto con fermezza “Non ti rispetterò se non lo fai”, mi disse. Questo ha sigillato la mia decisione.
Per tutto l’inizio del 2005 ho lavorato a casa su “State of War”, che doveva essere pubblicato da Free Press, della Simon and Schuster, all’inizio del 2006. Dopo avere scritto il capitolo sul programma di spionaggio interno della NSA, chiamai Lichtblau e gli ho chiesto di venire a casa mia. Quando è arrivato, gli ho detto di sedersi, leggere il capitolo e farmi sapere se appoggiava la mia decisione di mettere quella storia nel mio libro. Finito di leggere, scherzò sul fatto che avevo insabbiato la storia, ma io gli ricordai bruscamente che scrivere un libro era diverso dallo scrivere una notizia. Mi disse che potevo metterla nel libro, tanto quella storia non sarebbe mai uscita sul Times, e mi ha chiesto di citarlo per nome nel capitolo, di scrivere il suo nome correttamente.
Mentre io ero in licenza, Lichtblau era in una posizione scomoda. Gli fu impedito dai suoi redattori di lavorare sulla storia della NSA, e fu, invece, incaricato di seguire il dibattito al Congresso sul Patriot Act. Ma Lichtblau sapeva che il dibattito sul giusto equilibrio tra sicurezza nazionale e libertà civili era una farsa, fintanto che l’esistenza del programma di spionaggio interno della NSA fosse stata nascosta al pubblico. La Casa Bianca permise al Congresso di dibattere pubblicamente sull’equilibrio delle garanzie, anche se George W. Bush aveva già segretamente deciso quale sarebbe stato. "Conoscendo il programma della NSA, ho trovato sempre più imbarazzante scrivere di tutte le arringhe tira e molla rimanendo serio", scrisse in seguito Lichtblau nel suo libro del 2008, “Bush’s Law: The Remaking of American Justice.” “Tornato in ufficio da un’udienza congressuale dove si era parlato del Patriot Act, nella primavera del 2005, andai dritto alla scrivania di Rebecca Corbett, in preda alla frustrazione, per suggerire che forse qualcun altro doveva seguire l’intero dibattito al Congresso; alla luce di quello che sapevamo, le dissi, non mi sentivo più a mio agio nel coprire quello che sembrava un po’ il gioco delle tre carte di Washington… Ero bloccato sulla storia".
Durante un’udienza del Congresso, Harman chiese delle restrizioni più severe sul Patriot Act per prevenire abusi sulle libertà civili. Lichtblau era presente, e sapeva che Harman era stata informata del programma della NSA e aveva chiamato il Times per fare fuori la nostra storia, quindi la seguì fuori nel corridoio per parlarle. Le chiese come poteva chiedere delle limitazioni al Patriot Act con ciò che sapeva del programma NSA, Harman lo rimproverò per aver sollevato la questione. “Cacciando via i suoi aiutanti, mi afferrò per un braccio e mi trascinò a pochi passi in una sezione più remota del corridoio del Campidoglio”, scrive nel suo libro. “Non dovresti parlarne qui – mi rimproverò in un sussurro – Loro non lo sanno nemmeno – disse, indicando i suoi aiutanti, che ora stavano guardando la conversazione con evidente stupore. – Il Times ha fatto la cosa giusta non pubblicando quella storia.”
Tornai dal congedo per libri nel maggio 2005 e finii il mio manoscritto quell’estate. A fine estate, dopo avere consegnato gli ultimi capitoli al mio editore e completato il processo di editing alla Free Press, decisi di far sapere al Times cosa stavo facendo.
Mandai un’email a Jill Abramson, che a quel punto era a New York, e le dissi che stavo mettendo le storie sulla NSA e sull’Iran nel mio libro.
La reazione fu tempestiva. In pochi minuti, Taubman era in piedi vicino alla mia scrivania, con aria torva mi chiese di parlare. Entrammo nel suo ufficio. Disse con fermezza che ero un insubordinato e mi stavo ribellando alle decisioni editoriali del Times.
"La mia opinione era che tu e Il Times avevate la proprietà congiunta della storia, che i massimi dirigenti, dopo un’attenta valutazione, avevano deciso di tenere la storia e che tu non avessi il diritto unilaterale di pubblicarla nel tuo libro", Taubman ha ribadito di recente. “Ero preoccupato che tu stessi andando avanti con una decisione volubile presa in assenza di consultazioni con me o Bill.”
Taubman era arrabbiato perché lo avevo indotto in errore prima di andare in licenza, facendogli credere che avrei scritto una biografia di George Tenet.
Voleva che togliessi la storia della NSA dal mio libro. Risposi che volevo che la storia della NSA fosse pubblicata sia sul Times che nel mio libro.
Parlavamo quasi ogni giorno di come risolvere la nostra impasse. Inizialmente, suggerii al giornale di pubblicare la storia dopo l’uscita del mio libro, sul modello che il Washington Post sembrava avere con Bob Woodward. Il Post prendeva regolarmente dai libri di Woodward per la prima pagina, dando al giornale scoop di Woodward e ai libri di lui un’enorme pubblicità.
Quella proposta non andò da nessuna parte. Alla fine, Taubman disse che il giornale avrebbe preso in considerazione l’idea di pubblicare la storia solo se prima avessi accettato di rimuoverla dal mio libro e, quindi, avessi dato al giornale la possibilità di riconsiderare la sua pubblicazione senza fare pressioni. Ma io sapevo che, al contrario, il Times avrebbe corso il rischio di pubblicarla solo se l’avessi tenuta nel mio libro.
Abramson disse a Keller che “avrebbero fatto la figura degli idioti” a tenere ancora ferma la storia quando questa appariva nel mio libro.
Eravamo ai ferri corti e il tempo stringeva verso gennaio 2006 e la pubbicazione di "State of War". Quando raccontai a Lichtblau cosa stava succedendo, ci scherzò: “Non hai solo una pistola puntata alla testa. Hai un Uzi.”
Mentre provavo a chiarirmi le idee, rimasi sorpreso nel sapere da Abramson che la discussione tra i redattori senior del Times su cosa fare riguardo alla storia della NSA e al mio libro non scaturì dalla email che io mandai a lei. Quando le ho inviato l’email, sapeva già che stavo mettendo la storia della NSA nel mio libro. Un altro giornalista dell’ufficio di Washington le aveva riferito precedentemente che l’avrei fatto, e lei aveva già detto a Bill Keller dei miei piani. Abramson disse a Keller che “avrebbero fatto la figura degli idioti” a tenere ancora ferma la storia quando questa appariva nel mio libro. “Il programma classificato sarà comunque reso noto quando il libro di Jim sarà pubblicato. Quindi perché continuare a tenerla nascosta?” Abramson ribadisce di averglielo detto. “Avevo già rivalutato la pubblicazione con Keller una o due volte, forse di più”, mi ha detto di recente Abramson. “Volevo che la storia venisse pubblicata”.
A parte Eric Lichtblau, i migliori redattori del Times, me e Barclay Walsh, nostro bravo ricercatore nell’ufficio di Washington del Times, solo poche persone al giornale conoscevano la storia della NSA e l’intenso dibattito in corso sull’opportunità di pubblicarla. Lichtblau e io andavamo a volte in giro per la vicina piazza Farragut quando volevamo parlare in confidenza. Di fronte agli altri giornalisti ed editori in ufficio, cercai di comportarmi come se non stesse succedendo nulla di insolito, ma sono sicuro che alcuni notarono qualcosa.
Quell’autunno, preoccupato che il Times non pubblicasse la storia e che sarei stato licenziato, incontrai segretamente un’altra testata giornalistica nazionale. Dissi a un caporedattore che avevo una storia importante che il Times si era rifiutato di pubblicare sotto la pressione della Casa Bianca. Non gli raccontai nulla della storia, ma pensavo che se mi avessero assunto, l’avrei portata a loro. Il caporedattore mi rispose che non avrebbero mai pubblicato un pezzo che la Casa Bianca bloccava per la sicurezza nazionale. Lasciai quell’incontro più depresso che mai.
Dopo una lunga serie di conversazioni e tensioni, protratte per diverse settimane, nell’autunno del 2005 ho raggiunto un difficile compromesso con gli editori. Avrebbero lasciato che Lichtblau e io ricominciassimo a lavorare sulla storia della NSA, e il giornale avrebbe ripreso i colloqui con l’amministrazione Bush per pubblicarla. Ma se il giornale non pubblicava la storia, dovevo toglierla anche dal mio libro. Sapevo che era già troppo tardi per togliere il capitolo dal mio libro, e non avevo intenzione di farlo, ma al momento accettai. Stavo rischiando che il Times pubblicasse la storia prima che uscisse il mio libro. E sapevo che se non l’avessero pubblicata, probabilmente sarei stato licenziato.
Curiosamente, i redattori del Times sembravano ignorare la storia dell’Iran; sapevano sarebbe stata nel libro ma non me lo hanno mai rimproverato, né abbiamo avuto discussioni rilevanti se pubblicarla sul giornale. Forse la storia della NSA era più fresca nelle loro menti. (Nel 2014, Jill Abramson ha detto in un’intervista a “60 Minutes” che si rammaricava di non aver insistito di più per convincere il Times a pubblicare la storia CIA-Iran.)
L’amministrazione Bush si mostrò sorpresa che il Times stesse resuscitando la storia della NSA. Fui escluso dalle loro conversazioni. In ciascuno degli incontri cercarono di convincere gli editori a non pubblicare la storia; dall’amministrazione Bush affermarono ripetutamente che il programma della NSA era il fiore all’occhiello dei programmi antiterrorismo della nazione e che salvava vite americane fermando gli attacchi terroristici.
Gli incontri si trascinarono fino all’autunno del 2005. Michael Hayden, ora principale vicedirettore dell’Office of National Intelligence, incontrò spesso Philip Taubman. In un briefing segreto, membri dell’amministrazione Bush descrissero a Taubman e Bill i successi del programma. Quando i due redattori tornarono in ufficio, dissero a me e Lichtblau che non potevano condividere ciò che gli era stato detto.
Lichtblau e io ci rendemmo conto che Keller e Taubman venivano ingannati. I funzionari avevano detto loro che nel programma segreto di spionaggio domestico, la NSA in realtà non ascoltava alcuna telefonata né leggeva email senza mandati di perquisizione approvati dal tribunale.
Avevano insistito che l’agenzia stava solo acquisendo i metadati, ottenendo i registri delle chiamate telefoniche e gli indirizzi email. Il contenuto delle telefonate e dei messaggi di posta elettronica non veniva analizzato. Questo avevano detto ma non era vero. Il governo cercò di convincere Keller e Taubman che Lichtblau e io avevamo esagerato la portata della notizia.
C’è voluto del tempo, ma finalmente siamo riusciti a convincerli che erano stati ingannati. In una nostra recente intervista, Keller ha affermato che una volta realizzato che l’amministrazione era stata in malafede con lui, iniziò a cambiare idea sulla pubblicazione della storia.
Fu anche di fondamentale importanza che Lichtblau avesse trovato una nuova fonte secondo la quale alcuni funzionari dell’amministrazione Bush avevano espresso il timore di essere perseguiti per il loro coinvolgimento nell’operazione della NSA. Ci fu anche un intenso dibattito ai più alti livelli dell’amministrazione Bush sulla legalità di alcuni aspetti del programma.
Il funzionario mi avvicinò a sé e mi sussurrò, così piano che nessun altro nella stanza potesse sentire: “Controlla quando Ashcroft era malato”.
Alla fine dell’autunno del 2005, ottenni da una nuova fonte una segnalazione così criptica che non sapevo cosa farne in quel momento. Un alto funzionario accettò di vedermi a condizione che il nostro colloquio fosse condotto con altri funzionari presenti. Durante l’incontro espresse ripetutamente a gran voce di essere totalmente all’oscuro di qualsiasi programma segreto di spionaggio interno della NSA.
Ma mentre stavo andando via e mi alzai per stringergli la mano, il funzionario mi avvicinò a sé e mi sussurrò, così piano che nessun altro nella stanza potesse sentire: “Controlla quando Ashcroft era malato”.
Lichtblau e io per settimane cercammo di capire cosa significasse quel suggerimento.
A fine novembre del 2005, Keller sembrò disposto a pubblicare la storia. Ero più ansioso di quanto non fossi mai stato in vita mia. Non riuscivo a dormire e avevo la pressione alta. Andavo al cinema cercando di distrarmi, ma non resistevo che cinque o dieci minuti, poi me ne andavo. Continuavo a incontrare le fonti chiave sulla storia della NSA per convincerle a restare con me e a non portare la storia altrove. Le esortai a essere pazienti, ma le capivo, anche io stavo esaurendo la pazienza. Durante gli incontri con Lichtblau e Rebecca Corbett, ero così stanco e stressato che spesso mi sdraiavo sul divano nell’ufficio di Corbett e chiudevo gli occhi.
La pubblicazione del mio libro era vicina, Taubman mi chiese di organizzare un nuovo ciclo di incontri con i pochissimi leader democratici del Congresso che conoscevano il programma della NSA. Voleva da loro una conferma per pubblicare la storia. Sia Lichtblau che io trovammo questa richiesta preoccupante.
Incontrai un democratico che accettò di chiamare Taubman, il deputato gli disse solo che la storia era accurata, non che il Times avrebbe dovuto pubblicarla. Taubman voleva di più, così andai da Nancy Pelosi, allora leader della minoranza alla Camera, che in precedenza era stata tra le fila democratiche nel Comitato per l’intelligence della Camera. Dopo aver letto la storia, le ho chiesto di chiamare Taubman. Senza confermare la storia, disse semplicemente: “Il New York Times è una grande istituzione. Può prendere le sue decisioni.”
Poi, dopo un ultimo round di incontri con la Casa Bianca all’inizio di dicembre, Keller disse che aveva deciso di pubblicare la storia. Chiamò la Casa Bianca e comunicò loro la sua decisione. Allora il presidente Bush chiamò Arthur Sulzberger, l’editore del Times, e gli chiese un incontro e di bloccare Keller.
Era roba intimidatoria, ma ero sicuro che Sulzberger avrebbe visto questa come un’opportunità per essere all’altezza dell’eredità di suo padre, che aveva pubblicato i Pentagon Papers di fronte alle minacce della Casa Bianca di Nixon.
Sulzberger, Keller e Taubman andarono allo Studio Ovale per incontrare Bush. Lichtblau e io non fummo invitati all’incontro e non avemmo nemmeno il permesso di incontrare Sulzberger per informarlo in anticipo sulla storia.
Keller in seguito disse che Bush aveva ammonito Sulzberger che pubblicare la storia della NSA avrebbe "macchiato di sangue le sue mani”. Keller disse anche che quell’incontro non fece cambiare idea né a lui né a Sulzberger.
Keller e gli altri editori erano fiduciosi, anche se non era ancora stata fissata una data per la pubblicazione. La Casa Bianca cercava di programmare altri incontri con loro, mirati a fargli cambiare idea. Ero agitato: era dicembre e il mio libro usciva all’inizio di gennaio, la storia non era ancora apparsa sul Times.
Alla fine, Lichtblau arrivò con nuove informazioni che spinsero il Times a pubblicare la storia. Pochi giorni dopo l’incontro nello Studio Ovale tra Bush e Sulzberger, una fonte disse a Lichtblau che la Casa Bianca avrebbe chiesto un’ingiunzione del tribunale per impedire al Times di pubblicare la storia. Questa fu una notizia elettrizzante, l’ultima volta che qualcosa di simile era successa al Times era stato durante il caso Pentagon Papers negli anni ’70, uno degli eventi più importanti nella storia del giornale. Non c’era altro da discutere. In quel pomeriggio, il pezzo era pronto per la stampa.
Ma c’era un’ultima cosa: Keller incluse una riga nella storia dicendo che l’articolo era stato trattenuto per un anno, su richiesta dell’amministrazione Bush con la motivazione che avrebbe allertato gli aspiranti terroristi e danneggiato la sicurezza nazionale, e che il giornale nel frattempo aveva condotto ulteriori verifiche delle informazioni.
Abbiamo avuto un solo vantaggio rispetto al Times dei primi anni ’70 durante la crisi dei Pentagon Papers: Internet. Era molto più difficile per la Casa Bianca fermare la pubblicazione ricorrendo al tribunale perché potevamo mettere rapidamente tutto online. Keller chiamò la Casa Bianca per dire loro che la storia era in corso di pubblicazione, poco dopo era sul sito web del New York Times. Apparve in prima pagina il 16 dicembre 2005.
Lichtblau, Corbett, Taubman e io sedevamo nell’ufficio di Taubman, ascoltammo in vivavoce Keller che prendeva la decisione finale di pubblicare la storia. Quando la telefonata con Keller finì, feci un lungo sospiro. Taubman mi guardò. “Che succede?” mi chiese.
“Niente. Sono solo sollevato”.
Negli anni successivi, Taubman riconsiderò il suo atteggiamento nel prendere le decisioni in questa storia, in particolare alla luce della vicenda dell’ex dipendente Edward Snowden, che rivelò in maggior dettaglio l’enorme portata dell’operazione di sorveglianza interna. Sulla scia delle rivelazioni di Snowden, Taubman disse a Sullivan, l’editore pubblico, che le sue opinioni erano cambiate: “Avrei preso una decisione diversa se avessi saputo che il filo tirato da Jim ed Eric avrebbe portato a un intero arazzo”. (Paradossalmente, che il Times abbia tenuto la storia della NSA per più di un anno convinse Edward Snowden a non presentarsi al nostro giornale con il suo bagaglio di documenti quando divenne un informatore.)
Oggi, Keller difende la sua gestione della notizia sulla NSA, sia nel 2004 che nel 2005, e racconta che per lui contava il cambiamento di clima nel paese, che si era inasprito con Bush, la guerra in Iraq e la guerra al terrore. “Penso di avere fatto bene, sia quando ho deciso di non pubblicare che quando ho deciso di pubblicare”, mi ha detto di recente.
Keller decise di dare alla storia un titolo di solo una colonna. Come ha scritto Lichtblau nel suo libro, “Keller aveva deciso che non doveva sembrare una sfida alla Casa Bianca con un titolo enorme e urlante sullo spionaggio della NSA; volevamo essere discreti, disse, e la storia parlerà da sola”.
Non mi importava della mancanza di un titolo a tutta pagina. La mia partita a braccio di ferro con il Times era finita e mi sentivo come se avessi vinto.
4 La guerra alla stampa
L’impatto della storia fu immediato ed esplosivo. George W. Bush fu obbligato a confermare l’esistenza del programma, pur definendo la fuga di informazioni a riguardo “un atto vergognoso”. L’amministrazione ordinò velocemente un’indagine, che fu consegnata a un gran giurì. Squadre di agenti dell’FBI cercarono immediatamente di dare la caccia alle nostre fonti.
Tutto il Congresso era scosso dall’essere stato tenuto all’oscuro di questa storia, che divenne pubblica proprio il giorno in cui il Senato avrebbe dovuto votare sulla riforma del Patriot Act. Sostenendo che il programma della NSA trasformava in farsa il Patriot Act, i deputati rinviarono il voto. Sia i Repubblicani che i Democratici promisero indagini del Congresso in merito.
Lichtblau e io ci affannammo ad approfondire nuove storie, compresa quella che mi era stata suggerita su Ashcroft quando era malato. Scoprimmo che nella stanza d’ospedale di Ashcroft nel marzo 2004, si era acceso uno scontro sul programma della NSA che aveva visto Comey e altri membri influenti del Dipartimento di Giustizia in contrasto con la Casa Bianca.
Dopo un embargo insolitamente spietato, “State of War” fu pubblicato nella prima settimana di gennaio del 2006. L’amministrazione Bush continuava a volerlo bloccare. Nel suo libro del 2014, “Company Man: Thirty Years of Controversy and Crisis in the CIA,” l’ex avvocato della CIA John Rizzo descrive di quando ricevette una telefonata allarmante da un membro dello staff del Consiglio di Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca, alla vigilia di Capodanno.
Un ex ufficiale della CIA ricorda che i dirigenti della sua unità intimarono agli impiegati di non leggere “State of War”; se lo avessero fatto, fu detto loro, sarebbe stato come commettere tradimento.
Quella notte, l’allora consigliere della Casa Bianca Harriet Miers chiamò Rizzo, suggerendogli di telefonare a Sumner Redstone, presidente di Viacom, per convincere Simon and Schuster a bloccare la pubblicazione del mio libro. Rizzo afferma che decise di non fare quella telefonata. Jack Romano, all'epoca direttore generale di Simon and Schuster, mi raccontò che anche altri ufficiali del governo, in carica o ex, avevano chiamato, chiedendo di vedere il libro prima che fosse pubblicato. Simon and Schuster aveva rifiutato.
Una volta pubblicato, la CIA si infuriò. Un ex ufficiale ricorda che i dirigenti della sua unità intimarono agli impiegati di non leggere “State of War”; se lo avessero fatto, fu detto loro, sarebbe stato come commettere tradimento.
Ho fatto diverse interviste in TV per pubblicizzarlo. Grazie alla riga inserita dal Times che diceva che l’articolo era stato trattenuto per un anno su richiesta dell’amministrazione Bush, la storia dietro la storia diventò naturalmente un argomento scottante. Ma ogni volta che mi facevano domande in proposito, rispondevo semplicemente che il Times aveva fornito un servizio di pubblica utilità pubblicandola, aggiungendo che non sarei sceso nei dettagli delle discussioni interne al giornale. Volevo mantenere l’attenzione sulla sostanza della notizia. Agli intervistatori ciò non faceva sempre piacere. Dopo una conversazione con Katie Couric nello show “Today”, le dissi a bassa voce che mi dispiaceva di non aver potuto rispondere alla sua domanda. “Sì, stronzate”, replicò lei.
Il Times si rifiutò di dare spiegazioni, con i giornalisti di altre testate e perfino con l’editore pubblico del giornale. “La spiegazione del New York Times sul perché abbia pubblicato, come ha ammesso, con un anno di ritardo la notizia che la National Security Agency faceva intercettazioni a livello nazionale senza autorizzazioni è stata deplorevolmente inadeguata”, scrisse l’editore pubblico del Times Byron Clame all’inizio del 2006.
"E ho avuto insolite difficoltà ad ottenere una migliore spiegazione per i lettori, nonostante le ripetute promesse del giornale per una maggiore trasparenza. Per la prima volta da quando sono diventato redattore pubblico, il direttore esecutivo e l'editore hanno rifiutato di rispondere alle mie domande sul processo decisionale relativo alle notizie".
Diverse settimane dopo, ho scoperto che i dirigenti del Times avevano prestato molta attenzione a quello che avevo detto durante il mio tour del libro sul processo decisionale del giornale. A Lichtblau, Taubman e a me fu chiesto di fare una presentazione speciale al consiglio di amministrazione del Times sulla storia della NSA. Durante il pranzo, uno dei membri del consiglio si chinò verso di me e con aria pacifica mi disse che erano molto grati per il modo in cui mi ero comportato in televisione.
Quando fu il mio turno, mi alzai e percorsi con lo sguardo la folla. Mi sentivo in imbarazzo, non sapevo cosa dire. Per mesi, avevo segretamente vissuto con la paura di essere licenziato per insubordinazione; e adesso ricevevo un’onorificenza per lo stesso motivo, dalle stesse persone. Decisi di lasciar perdere la questione per quel giorno. Lanciai un’occhiata a Keller e Sulzberger e dissi, “Beh grazie. Voi ragazzi sapete cosa è successo, quanto è stato difficile.”
Intanto, i riverberi politici e legali dell’inchiesta, diversi da qualunque altra io avessi mai scritto, continuavano ad aumentare. La storia condusse rapidamente a proteste e udienze del Congresso, azioni legali contro il governo e le società di telecomunicazioni, e richieste per la creazione di un nuovo Comitato Church.
Temendo che le porte delle indagini stessero per aprirsi, l’amministrazione Bush lanciò una massiccia campagna per contrastare le critiche. Nel gennaio 2006, pubblicò un “libro bianco” che esponeva le sue argomentazioni secondo le quali il programma era legale e, dietro le quinte, cominciò ad esercitare pressioni sui principali membri del Congresso per arginare le richieste di una grossa inchiesta. La Casa Bianca sapeva che il programma NSA aveva i giorni contati, in particolare dopo che un giudice federale si era schierato dalla parte dell’American Civil Liberties Union in un processo e aveva dichiarato il programma incostituzionale.
La rabbia della Casa Bianca verso il New York Times per aver pubblicato la storia, crebbe. A maggio, Gonzales disse all’ABC che il governo potrebbe procedere contro quei giornalisti che pubblicano informazioni riservate. Mentre parlava, aveva chiaramente noi in mente.
“Ci sono alcune norme riportate nel libro che, se leggete con attenzione, sembrerebbero indicare questa possibilità”, disse Gonzales.
Lichtblau e io adesso avevamo molte fonti disposte a parlare, e presto scoprimmo che la CIA stava spiando i registri bancari privati di migliaia di americani e di altri cittadini in tutto il mondo attraverso il sistema SWIFT. L’accesso segreto a SWIFT significava che la CIA poteva monitorare le transazioni bancarie degli americani e di altri cittadini senza l’approvazione dell’autorità giudiziaria.
Lichtblau aveva soprannominato una delle fonti “Death Wish” perché durante ogni intervista ripeteva di non poter parlare dell’operazione SWIFT, e invece finiva sempre col parlarne.
Questa volta, Lichtblau prese il comando e fu molto più determinato di me nella conduzione dell’inchiesta. Io ero esausto per la battaglia sostenuta sulla NSA, e non ero sicuro di essere pronto per un’altra pubblicazione contrastata dal governo. Iniziavo a perdere la calma, e suggerii in privato a Lichtblau di rimandare l’uscita dell’inchiesta SWIFT. In preda al panico, ho perfino pensato di togliere la mia firma dall’inchiesta.
Fortunatamente, Lichtblau mi chiese delle spiegazioni. Mi ripresi in fretta dal mio malessere, e finimmo il lavoro.
I redattori del Times, indubbiamente imbarazzati dal modo in cui avevano gestito l’inchiesta sulla NSA, ora ci spingevano ad occuparci dell’inchiesta sulla SWIFT e di altre. L’amministrazione Bush fece solo un tiepido sforzo per bloccarla. Il Segretario del Tesoro John Snow chiese a Keller di non pubblicare l’articolo, altri funzionari intervennero, ma questo fu tutto.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta sulla SWIFT nel giugno 2006 ebbe inizio il vero attacco contro di noi, guidato dai conservatori al Congresso e in tutto il Paese i quali ci accusarono di essere recidivi nel voler danneggiare la sicurezza nazionale.
Quando i miei avvocati chiamarono il Dipartimento della Giustizia, i procuratori si rifiutarono di rassicurarli che io non fossi “oggetto” delle loro indagini. Questa era una brutta notizia.
Su Lichtblau e me il clamore si fece ancora più intenso. I gruppi di Destra organizzarono campagne mail di odio contro di noi e inscenarono forme di proteste piccole ma rumorose davanti all’ufficio di Washington e all’edificio del Times a New York.
Opinionisti e membri conservatori del Congresso andavano in televisione per chiedere che Keller, Lichtblau e io fossimo puniti. Tom Cotton, allora ufficiale dell’Esercito in Iraq, scrisse una lettera al Times nella quale auspicava l’arresto per me, Lichtblau e Keller per aver arrecato danno alla sicurezza nazionale. Il Times non pubblicò la lettera, ma fu diffusa nell’universo di destra online dell’epoca, e, di conseguenza, Cotton diventò una star nei circoli conservatori. Fu in seguito eletto al Senato tra i Repubblicani dell’Arkansas e presto potrebbe essere nominato direttore della CIA.
La nostra notorietà portò allo scoperto teorici del complotto e persone che sostenevano di essere perseguitate dal governo. Rientrando nell’ufficio di Washington, un giorno dopo pranzo, vidi un uomo da solo sul marciapiede davanti all’ingresso dell’edificio, con un cartello in mano che denunciava persecuzioni da parte del governo. “Ciao, James,” disse mentre mi avvicinavo. “Ti stavo aspettando”.
In maniera ancora più minacciosa, l’amministrazione Bush ora aveva in corso due importanti indagini sulle fughe di notizie – una sull’inchiesta della NSA sul New York Times, e l’altra sulla faccenda dell’Iran che avevo incluso in “State of War”. Lavorando con le giurie federali di Alexandria, gli agenti dell’FBI stavano iniziando ad interrogare persone che conoscevo.
Ci fu poi un lungo periodo di calma, che durò più di un anno. Mi convinsi che l’amministrazione avesse deciso di non intraprendere più nessuna azione.
Ma nell’agosto 2007, scoprii che il governo non si era dimenticato di me. Penny chiamò per dirmi che era arrivata una busta FedEx dal Dipartimento di Giustizia. Si trattava di una lettera nella quale si diceva che il Dipartimento di Giustizia stava conducendo un’indagine penale sulla “divulgazione non autorizzata di informazioni top secret” in “State of War”. La lettera era chiaramente stata spedita per conformità alle linee guida interne del Dipartimento di Giustizia che stabiliscono come i procuratori debbano procedere prima di emettere mandati di comparizione ai giornalisti, per testimoniare nei procedimenti penali.
L’amministrazione Bush aveva evidentemente preso la decisione strategica di non procedere contro il New York Times per i nostri articoli sulla NSA. A quanto pare, non volevano uno scontro costituzionale con il giornale. Invece, stavano per procedere contro di me per ciò che avevo scritto nel mio libro. Mi resi conto che stavano cercando di isolarmi dal Times. Venni a sapere in seguito che il Dipartimento di Giustizia e l’FBI avevano indagato su un’ampia gamma di informazioni incluse in diversi capitoli del mio libro prima di concentrarsi sul capitolo che includeva la storia CIA-Iran.
Simon e Schuster decise di pagare le spese legali per la mia difesa fino al 2011, quando i miei avvocati, Joel Kurtzberg e David Kelley della Cahill Gordon & Reindel, concordarono di occuparsi del caso gratuitamente. Il New York Times non pagò nessuna delle mie spese legali.
Quando i miei avvocati chiamarono il Dipartimento di Giustizia riguardo alla lettera che avevo ricevuto, i procuratori si rifiutarono di rassicurarli che io non fossi “oggetto” delle loro indagini. Questa era una brutta notizia. Se mi consideravano “oggetto d’indagine”, piuttosto che un semplice testimone, ciò voleva dire che il governo non escludeva un’azione penale nei miei confronti per avere pubblicato informazioni riservate o altri presunti reati.
Nel gennaio 2008, il Dipartimento di Giustizia mi citò in giudizio per testimoniare davanti ad un gran giurì federale. Mi rifiutai di comparire, e i miei avvocati procedettero per revocare il mandato di comparizione.
Intanto il governo cominciò un’intensa indagine riservata per cercare di identificare le mie fonti. Molte delle persone chiamate a comparire per testimoniare davanti al gran giurì mi dissero che i procuratori avevano mostrato loro i tabulati delle telefonate intercorse tra noi e avevano chiesto di sapere di che cosa avevamo parlato. Il governo alla fine asserì che erano state citate a comparire non in base ai miei tabulati telefonici, ma a quelli delle persone con cui ero in contatto. Il governo ottenne i miei estratti conto, insieme ai dati della mia carta di credito e ai movimenti bancari, nonché i registri dell’hotel e dei voli dei miei viaggi. Monitorarono inoltre le mie transazioni finanziarie con i miei figli, compreso il denaro che avevo trasferito ad uno di loro mentre studiava in Europa.
Uno dei piani più vergognosi del governo per colpirmi non era direttamente collegato all’inchiesta contenuta in “State of War”. Era, a quanto pare, allo studio nello stesso momento in cui resistevo ai tentativi del governo di obbligarmi a testimoniare.
Un agente dell’FBI mi ha fornito le prove di un piano per un’imboscata ad un incontro che credevano stesse per verificarsi tra me e una fonte nel 2014. Le prove mostrano che il piano fu esaminato da alti ufficiali del Dipartimento di Giustizia, che insistevano affinché l’FBI si accertasse che io fossi assente quando avrebbero arrestato la mia fonte. Le prove rivelano inoltre che pianificarono come ritardare o deviare all’ultimo minuto il mio arrivo all’appuntamento.
Nessun incontro di questo tipo si è mai verificato, dunque l’agguato pianificato dall’FBI non è mai avvenuto. Ma quando più tardi mi fu raccontato, mi resi conto fino a che punto le indagini degli investigatori governativi fossero concentrate su di me. L’FBI si rifiutò di commentare.
Un altro episodio recente mi ha dato una visione agghiacciante del potere di sorveglianza del governo. Tramite un intermediario conobbi una fonte sensibile e ben posizionata. Dopo l’incontro, che avvenne qualche anno fa in Europa, cominciai a fare ricerche sulla fonte. Circa un’ora dopo, ricevetti una telefonata dall’intermediario, che mi disse, “Smettila di cercare su Google il suo nome”.
Nel gennaio 2008, dopo aver ricevuto il primo mandato di comparizione relativo all’inchiesta CIA-Iran in “State of War”, una serie di mozioni al processo prolungò la discussione sull’opportunità o meno di dover testimoniare davanti al gran giurì, fino a dopo le elezioni presidenziali del 2008.
Pensavo che l’elezione di Barack Obama avrebbe posto fine al caso. Anche la Giudice Distrettuale degli Stati Uniti Leonie Brinkema sembrava pensarla così. Nel luglio 2009, emise una breve notifica sul mio mandato di comparizione al gran giurì, dichiarando che non era più valido. Fui sorpreso quando il Dipartimento di Giustizia di Obama rispose velocemente a Brinkema che volevano rinnovare la citazione in giudizio.
Col senno di poi, questo fu uno dei primi segnali che Obama era determinato a continuare e addirittura ad espandere molte delle politiche di sicurezza nazionale di Bush, incluso un giro di vite sugli informatori e sulla stampa. Ignorando le possibili conseguenze per la democrazia americana, l’amministrazione Obama cominciò a condurre in maniera aggressiva una sorveglianza sulle comunicazioni digitali di giornalisti e potenziali informatori, diresse più procedimenti giudiziari per fuga di notizie di tutte le amministrazioni precedenti messe insieme.
Il mio caso andò avanti alcuni anni. Procedeva lentamente perché ogni volta che l’amministrazione mi dava la caccia attraverso mozioni o nuove citazioni in giudizio, Brinkema si schierava dalla mia parte. Grazie alle sue sentenze a mio favore non mi venne mai ordinato di testimoniare davanti al gran giurì.
Continuavo a credere che l’amministrazione avrebbe colto il messaggio di Brinkema e avrebbe lasciato perdere. Invece, l’amministrazione Obama accusò Jeffrey Sterling, l’ex ufficiale della CIA, di presunta fuga di informazioni utilizzate nella storia CIA-Iran.
Sterling fu incriminato nel dicembre 2010 e arrestato a gennaio 2011. Il Dipartimento di Giustizia mi citò nuovamente in giudizio, questa volta per testimoniare al suo processo.
Brinkema annullò anche quella citazione; ancora una volta pensai di essere fuori dai guai ma pochi giorni prima che il processo iniziasse, il Dipartimento di Giustizia ricorse in appello. I procuratori dell’amministrazione Obama dissero che la sentenza di Brinkema doveva essere annullata perché il reporter’s privilege non vale per i processi penali. La corte d’appello accettò tale argomento, ribaltando la sentenza di Brinkema e ordinandomi di testimoniare.
Le ragioni del governo trasformarono il mio caso in un regolamento di conti con la libertà di stampa negli Stati Uniti. Sentivo di non avere scelta se non appellarmi alla Corte Suprema. Alcuni avvocati dei media esterni chiaramente temevano che questo avrebbe portato una sentenza negativa da parte di una maggioranza conservatrice.
Quel dibattito diventò irrilevante nel 2014, quando la Suprema Corte rifiutò di occuparsi del caso. Ciò ha permesso alla sentenza della corte di appello di rimanere in piedi, autorizzando l’annullamento del reporter’s privilege nel IV Circuito, per effetto del Primo Emendamento di Obama.
Ma la storica vittoria legale del governo ebbe un costo per l’amministrazione e in particolare per il procuratore generale di Obama, Eric Holder. Per anni, i miei avvocati e io avevamo condotto la nostra campagna legale principalmente da soli e con poco clamore, ma più il caso si avviava al suo apice, più la copertura mediatica e la pubblicità si facevano febbrili.
Holder, cominciò a fare marcia indietro. Disse che finché il procuratore generale era lui, nessun giornalista sarebbe finito in carcere per aver svolto il proprio lavoro. Modificò anche le linee guida del Dipartimento di Giustizia che definivano quando il governo potrebbe imporre ai giornalisti di testimoniare nelle indagini sulle fughe di notizie. (Ora ci si aspetta che il Dipartimento di Giustizia di Donald Trump indebolisca quelle linee guida, rendendo più facile perseguire i giornalisti.)
Ma nonostante le affermazioni pubbliche concilianti di Holder, i procuratori federali direttamente coinvolti nel mio caso continuavano sulla linea dura. Ad un certo punto Holder lasciò intendere che il Dipartimento di Giustizia e io stavamo per concludere un accordo, mentre in realtà i procuratori e i miei avvocati non avevano negoziato nessuna trattativa. Dietro le quinte, sembrava esserci una guerra tra Holder e i procuratori, arrabbiati perché si sentivano sminuiti dal suo comportamento. I procuratori avevano ripetutamente detto alla corte che avevano bisogno della mia testimonianza nel procedimento contro Sterling. Holder, dopo aver sostenuto il loro approccio aggressivo per anni, aveva improvvisamente invertito la direzione sotto la pressione dell’opinione pubblica. Io ero in trappola nel mezzo.
Finalmente, alla fine del 2014, i procuratori attenuarono la loro linea. Chiesero la mia apparizione all’udienza preliminare ad Alexandria nel gennaio 2015, per determinare la portata della mia possibile testimonianza nel processo Sterling. Ma a differenza delle precedenti citazioni in giudizio, quest’ultima si limitava a chiedere la mia testimonianza e non che identificassi le fonti confidenziali.
Ma poi mentre sedevo nella sala conferenze con i miei avvocati in attesa che iniziasse l’udienza, i procuratori lanciarono un’offensiva dell’ultimo minuto. Dissero che volevano che andassi al banco dei testimoni e indicassi quali passaggi del mio libro si basavano su informazioni riservate e fonti confidenziali. Rifiutai.
Mentre andavo alla sbarra nell’udienza del 2015, mi era difficile contenere la mia frustrazione e il mio disgusto. “Non ho intenzione di fornire al governo informazioni che loro potrebbero combinare in un mosaico per provare o confutare determinati fatti”, dissi a Brinkema.
Il procuratore capo, James Trump (nessuna apparente relazione con Donald), non chiese chi fossero le mie fonti o cosa mi avessero rivelato. Chiese invece, ancora una volta, se mi rifiutavo di identificare le mie fonti, anche se ciò significava andare in prigione.
Mi rifiutavo.
Trump è poi passato alle domande alle quali avevo già risposto nei fascicoli dei processi, chiedendo se io avessi effettivamente fatto affidamento su fonti confidenziali e cercò di confermare che avessi parlato con Sterling per un articolo del 2002 del New York Times. Voleva che io dessi le mie risposte a voce alta, in aula.
Fui insolente e rifiutai di rispondere anche a semplici domande.
Brinkema cominciò a perdere la pazienza con me. Chiesi una pausa per parlare con i miei avvocati.
Tornai al banco dei testimoni e risposi a poche altre domande di routine. Trump annunciò brevemente che non aveva nient’altro da chiedermi. Alla fine, i procuratori si erano tirati indietro e avevano seguito le istruzioni di Holder.
Era tutto finito, quasi prima che me ne rendessi conto. Andai via dal tribunale e guidai dritto verso casa.
Confido che la mia ferma opposizione al governo per sette anni possa servire a scoraggiare quei procuratori che vorranno costringere altri giornalisti a testimoniare sulle loro fonti. Ho visto l’amministrazione Obama usare il mio caso per minare le basi del diritto su cui si poggia il reporter’s privilege nel IV Circuito; ciò significa che se il governo decidesse di perseguire altri giornalisti, questi avranno meno tutele legali in Virginia e Maryland, sede del Pentagono, della CIA e della NSA, e dunque nella giurisdizione dove verranno condotte molte indagini per la sicurezza nazionale sulle fughe di notizie. Ciò renderà più facile per Donald Trump e per i presidenti che verranno dopo di lui condurre un attacco ancora più draconiano alla libertà di stampa negli Stati Uniti.
Le discussioni sulla sicurezza nazionale negli anni dopo l’11 settembre hanno prodotto risultati contrastanti. Secondo il mio punto di vista, i media mainstream hanno perso alcune lezioni fondamentali dalla debacle sulle armi di distruzione di massa, prima della guerra in Iraq. La giornalista del Times Judy Miller diventò un facile capro espiatorio, forse perché era una donna in un campo dominato da maschi, quello dei rapporti sulla sicurezza nazionale. Focalizzare l’attenzione su di lei rese per tutti più facile dimenticare quanto nei principali media fossero diffusi rapporti preliminari di guerra difettosi. “Volevano un bersaglio comodo, qualcuno a cui dare la colpa”, mi ha detto Miller di recente. Il pregiudizio anti-femminile “era parte della questione”, tanto che un capitolo del suo libro di memorie del 2015, “The Story: A Reporter’s Journey,” si intitola “Capro Espiatorio.”
Credo che il Times, il Washington Post e altre agenzie di informazione nazionale abbiano a volte gonfiato le minacce di terrorismo e delle armi di distruzione di massa. L’esagerata mole di articoli sul terrorismo, in particolare, ha avuto un grande impatto politico negli Stati Uniti e ha contribuito a chiudere il dibattito a Washington sull’opportunità di ripristinare in maniera significativa alcuni dei programmi antiterrorismo più draconiani, come lo spionaggio della NSA.
Ma nel complesso, credo che lo scontro interno al Times sulla storia della NSA, abbia inaugurato al giornale, una nuova era di inchieste più aggressive sulla sicurezza nazionale. Da allora, il Times è stato molto più disposto a resistere al governo e a rifiutarsi di assecondare le richieste della Casa Bianca di fermare o insabbiare le inchieste.
La vergogna più grande di tutte è che Jeffrey Sterling sia stato condannato a 42 mesi di prigione.
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