Il prezzo della verità

Perché Assange sia davvero libero bisogna liberare il giornalismo investigativo

Una riflessione in occasione del Festival del Giornalismo 2024 di Perugia (17-21 aprile), dove il nome di Julian Assange è inspiegabilmente assente dai programmi ufficiali.
11 aprile 2024
Patrick Boylan
Fonte: Articolo apparso nel Monthly Report del quotidiano italiano L’Indipendente, febbraio 2024, #31

Julian Assange tiene una conferenza stampa alla presenza dei media internazionali. Ministero degli Esteri dell'Ecuador

Chi conosce poco le vicende di Julian Assange ha probabilmente l’impressione che il co-fondatore del sito WikiLeaks venga perseguitato con accanimento a causa delle sue rivelazioni scottanti sui crimini di guerra statunitensi in Afghanistan e Iraq e sulle scandalose condizioni di detenzione nella prigione USA di Guantanamo. E a leggere i capi di accusa formulati dagli Stati Uniti contro Assange per poterlo estradare dal Regno Unito sembra che le cose stiano proprio così.

Ma se si parla tanto dell’Afghan War Diary, degli Iraq War Logs e delle Operating Procedures for Guantanamo – e non di tutti gli altri documenti rivelati da Assange – è soltanto perché, da ormai quattordici anni, gli USA e il Regno Unito lo perseguitano ostinatamente proprio per quelle tre fughe di notizie. Mentre, in realtà, le rivelazioni fatte da Assange hanno una portata assai più grande: toccano crimini e illeciti commessi in tutto il mondo da multinazionali, privati e un vasto arco di Stati e governi. Solo che, a differenza dei due Paesi anglosassoni, questi altri soggetti hanno preferito la strategia del mettere tutto a tacere. Hanno cioè cercato, con successo, di far dimenticare i loro misfatti piuttosto che tenerli vivi nella memoria del pubblico attraverso lunghi procedimenti giudiziari punitivi che finiscono sui giornali. Tutto questo spiega perché oggi parliamo soltanto dei documenti che rivelano i crimini di guerra compiuti dagli USA – il video Collateral Murder in primis – omettendo tutte le altre rivelazioni scottanti e importanti.

In verità, WikiLeaks è molto più delle rivelazioni su Afghanistan, Iraq e Guantanamo. Le informazioni che il sito ci ha donato tra il 2006 (anno di lancio) e il 2019 (anno della cattura e incarcerazione di Assange a Belmarsh) sono centinaia e coprono un arco di 360°.  Seguono, a titolo esemplificativo, alcuni scoop che oggi sembrano dimenticati. Mostrano quanto WikiLeaks ci sia servito in questi ultimi anni per proteggere l’ambiente e l’alimentazione, difendere la nostra privacy, tutelare la sicurezza climatica, garantire il diritto all’equità di trattamento fiscale, proteggere il diritto all’informazione e promuovere la pace nel mondo.

Si tratta, dunque, di rivelazioni fatte da Assange:

A difesa dell’ambiente e della salute
Una nota multinazionale [1] voleva commercializzare un insetticida per l’agricoltura, il quale avrebbe ucciso le api che fossero venute a contatto con il prodotto. Grazie alle rivelazioni di WikiLeaks, è stato ritirato dal mercato.

A difesa della nostra privacy
Assange ed Edward Snowden hanno rivelato come la CIA e la NSA possano avere accesso ai dati riservati [2] che conserviamo nei nostri cellulari, informazione che ha consentito al pubblico di mettere in atto alcune contromisure [3].

A difesa della nostra sicurezza climatica
Il giornalista australiano ha rivelato le pratiche scorrette [4] usate dai Paesi più inquinanti per vanificare gli accordi COP contro la catastrofe climatica, in particolare un trattato segreto [5] studiato per silurare la COP21 (che poi venne ritirato);

A difesa della pace nel mondo
I documenti diffusi da WikiLeaks hanno rivelato come Hillary Clinton abbia venduto al mondo la guerra contro la Libia come necessaria per salvaguardare la democrazia, mentre i reali interessi erano la salvaguardia del petrodollaro [6], che la Libia stava minando, e le sue ambizioni presidenziali [7].

A difesa del nostro diritto all’equità di trattamento fiscale
Grazie al whistleblower Rudolf Elmer, WikiLeaks ha rivelato le pratiche di frode fiscale [8] di alcune migliaia di multimilionari grandi evasori, tra i quali una quarantina di politici.

A difesa del nostro diritto all’informazione
Attraverso molteplici leaks, Assange ha difeso il nostro diritto a conoscere ciò che fanno segretamente i potenti del mondo, a dispetto dei valori che proclamano: si possono citare, in tal senso, le rivelazioni sui rapporti tra il Vaticano e il sanguinario dittatore cileno Pinochet, contenute nei Kissinger files [9].

Il giornalismo indipendente

Julian Assange ha potuto fare queste rivelazioni scottanti (risalenti al periodo 2006-2019) perché era riuscito ad agire da giornalista davvero indipendente, ovvero non sottoposto a un caporedattore e un direttore responsabile i quali, a loro volta, dipendono da un imprenditore, ovvero l’editore, il proprietario della testata. È raro, nella nostra società capitalistica, che un giornalista che riesca a raggiungere una cospicua fetta del pubblico mainstream sia davvero indipendente, quindi non sottoposto a un imprenditore. Assange è stato un’eccezione, al punto che molti giornalisti rifiutano di considerarlo come uno di loro. Come a dire: «Certo, Assange scopre e diffonde notizie e questo costituisce l’essenza del giornalismo; ma lo fa al di fuori di un sistema di controlli dall’alto, quindi non è un giornalista come noi perché non è embedded, cioè istituzionalizzato». Tant’è vero che all’interno dell’elenco [10] annuale di giornalisti imprigionati nel mondo, stilato dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) e presentato il 19 gennaio scorso presso la sede newyorchese, il nome di Assange è assente. Il Comitato ha giustificato [11] la sua decisione al giornalista investigativo statunitense Kevin Gosztola in questi termini: “[Abbiamo] scelto di non elencare Assange fra i giornalisti, in parte perché ha spesso agito come fonte e perché WikiLeaks non si articola come organo di informazione con una procedura editoriale”. Ed ecco l’inganno: la cosiddetta “procedura editoriale” (editorial process).

Con questo termine, il CPJ insinua due cose. Innanzitutto, una presunta mancanza di cura editoriale da parte di Assange nel pubblicare le sue rivelazioni – mentre Julian ha più volte dimostrato, prove alla mano, di aver accuratamente vagliato ciò che ha pubblicato. In secondo luogo, alludendo a una mancata “procedura editoriale” il CPJ si riferisce al processo di convalida di una notizia che, effettivamente, Assange non ha seguito. A WikiLeaks, Julian decideva insieme al suo staff se pubblicare o meno una rivelazione, mentre normalmente, nelle redazioni, l’inchiesta di un giornalista viene approvata da un caporedattore, che agisce in conformità con le direttive del direttore responsabile, il quale risponde al proprietario della testata. In altre parole, c’è una catena di comando che termina nella figura di un imprenditore. Julian, invece, non si è sottoposto ad alcuna catena di comando; il suo unico imperativo è stato quello di dire la verità, a qualsiasi costo. Perciò, per molti giornalisti istituzionali (sottoposti a un imprenditore), Julian rimane un outsider.

Naturalmente tra i giornalisti istituzionali ve ne sono molti che si ribellano alla condizione di sottoposto, seppur con poca voce in capitolo; costoro si sono associati in sindacati di categoria in modo da poter lottare per qualche margine di libertà nei rapporti con il direttore editoriale e la proprietà. Non stupisce, dunque, che la maggior parte di questi giornalisti auto-organizzati abbiano riconosciuto in Julian uno di loro, conferendogli la loro tessera di giornalista (in Italia è stato il caso dell’Ordine dei Giornalisti, della Federazione Nazionale Stampa Italiana, del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania e dell’associazione Articolo 21). Certo, dobbiamo riconoscere che esistono anche vari giornalisti che riescono a crearsi un margine di libertà semplicemente giocando la carta della loro alta professionalità, ma si tratta di eccezioni. E, comunque, nessuno di loro ha realmente il coltello dalla parte del manico.

Ecco, dunque, la grande contraddizione nella nostra società democratica occidentale. Per fare il giornalista mainstream, è necessario abdicare a una buona parte della propria libertà, entrando in una redazione e quindi rispondendo a un editore/imprenditore. Se si decide di non entrare nel sistema, si potrà pubblicare quanto si vuole in tutti i canali alternativi che si trovano, ma non si verrà considerati giornalisti – almeno dai colleghi ligi al sistema e difficilmente si riuscirà a raggiungere il grande pubblico mainstream. Senza dubbio esiste anche una categoria di giornalisti che, pur essendo dipendenti da un editore, ritengono sé stessi perfettamente liberi di poter scrivere ciò che vogliono – riuscendo poi effettivamente a farlo. Tuttavia, ciò è dovuto più che altro al fatto che, a causa delle proprie scelte ideologiche personali, questi individui la pensano più o meno come i propri capi (anzi, sono probabilmente stati scelti proprio per questo motivo): in altre parole, godono di una libertà condizionale. E chi sono i capi? Siccome il capitalismo porta a una concentrazione del potere economico, in Italia la maggioranza dei giornalisti mainstream risponde a una di queste quattro famiglie miliardarie: Agnelli, Berlusconi, Cairo e Caltagirone.

In conclusione, nella nostra democrazia occidentale, la stampa mainstream può anche definirsi libera ma, nei fatti, si tratta di una libertà vigilata o condizionale in cui un pugno di controllori (appartenente all’élite imprenditoriale) garantisce che le notizie che vengono pubblicate sui loro mass media siano compatibili con il sistema e che non lo turbino oltre misura – come, invece, hanno fatto le rivelazioni di Julian Assange.

Esistono, naturalmente, oltre ai giornali mainstream, anche le agenzie e le testate di nicchia – spesso si tratta di cooperative o comunità di redattori e lettori. Vi sono poi le radio e TV locali, i blog e i vlog. Essendo economicamente indipendenti, questi media non mainstream dispongono effettivamente di un certo margine di libertà, ma questo solo in ragione del fatto che il proprio pubblico è molto limitato. Questa è la ragione principale per la quale vengono tollerati dal sistema: difficilmente hanno la capacità di incidere sull’opinione pubblica mainstream. Un discorso a parte va fatto per la RAI, che costituisce il cosiddetto Servizio Pubblico. Semplificando possiamo dire che, data la lottizzazione dei partiti e il dominio, all’interno di essi, delle rispettive Tessere n. 1, anche la RAI rientra nello schema di controllo imprenditoriale.

Lottare per gli ideali, ma non soltanto per quelli

Ecco, dunque, a grandi linee, l’assetto del giornalismo (anche investigativo) nel Bel Paese e, più generalmente, in Occidente. È un sistema che non può dare spazio a un ribelle come Julian Assange, come dimostra la sua attuale condizione di prigioniero politico confinato in una cella di isolamento provvisorio da cinque anni – che diventerà poi una cella di isolamento permanente se gli USA otterranno l’estradizione in seguito alle udienze tenute presso l’Alta Corte britannica a Londra il 20 e 21 febbraio. In una società così strutturata, Julian risulta per forza un corpo estraneo e, in quanto tale, viene rigettato.

Perciò, quando noi attivisti gridiamo «Free Assange» formuliamo una rivendicazione giusta ma incompleta. Anche quando esigiamo il rispetto della democrazia e della libertà di stampa e di espressione, formuliamo rivendicazioni giuste ma incomplete. Incomplete perché non si può lottare per il reinserimento di un corpo estraneo in una struttura senza lavorare, al contempo, per cambiare quella struttura, altrimenti essa continuerà a rigettarlo. Affinché le nostre rivendicazioni di attivisti si possano finalmente realizzare, dobbiamo lavorare sodo per cambiare radicalmente l’assetto della nostra società, a partire da quello che regge il mondo del giornalismo e dell’informazione. Altrimenti le nostre rivendicazioni rimarranno pie aspirazioni, calpestate di continuo da una realtà antagonista che non vuole saperne.

Quale soluzione, allora? Potremmo immaginare un perdono presidenziale statunitense o un rigetto, da parte britannica, della richiesta di estradizione per vizio di forma, resi entrambi possibili dalla promessa di Julian di non riavviare il suo sito WikiLeaks, una volta libero. Il Potere potrebbe assicurarsi il mantenimento di tale promessa richiedendo un esilio volontario, insieme alla famiglia, in qualche paese sperduto dell’Australia, senza internet e senza modem per la copertura satellitare. È una soluzione possibile.  Ma l’unica cosa certa, nel mondo in cui viviamo oggi, è che Julian non potrà essere liberato se ciò significa libero di riattivare WikiLeaks. Il Potere non lo tollererebbe.  Se per miracolo Julian dovesse ricominciare a diffondere rivelazioni scomode, i suoi giorni sarebbero sicuramente contati – come quelli dei 120 giornalisti uccisi l’anno scorso nel mondo. Del resto, sappiamo che la CIA aveva già studiato, a suo tempo, un piano per assassinare Julian nell’ambasciata ecuadoriana, piano poi accantonato a favore dell’estradizione negli USA per essere, a tutti gli effetti, incarcerato a vita in una cella di isolamento.

Non esiste alcuna speranza di vedere Julian di nuovo libero ed editore di WikiLeaks se ci limitiamo a invocare gli alti principi della nostra democrazia, senza lottare contro il sistema. I ragionamenti nobili nulla possono contro i Poteri Forti. Potremmo nutrire la speranza di vedere Julian libero ed editore di WikiLeaks solo se, al contempo, avrà successo la lotta per liberare pienamente il giornalismo, in particolare quello investigativo, dalla sua attuale condizione di libertà vigilata o condizionale. In altre parole, non potremo sperare di vedere Julian Assange pienamente libero fin quando non lo sarà anche l’assetto dell’informazione – il che implica anche la liberazione dal nostro attuale assetto socioeconomico. Con l’attuale governo Meloni al potere, può sembrare utopistico parlare di cambiamenti radicali nel nostro sistema di informazione. Soprattutto osservando come quel sistema venga continuamente sottoposto ad attacchi senza precedenti – si pensi a quelli contro il programma Report del giornalista investigativo Sigfrido Ranucci, o a iniziative legislative quali la recente cosiddetta “legge bavaglio”.

Rendere l’attuale assetto dell’informazione compatibile con una figura come quella di Julian Assange non è un compito da poco, ma la sfida è quella. Proviamo dunque di seguito a elencare quattro aree nell’ambito delle quali si potrebbe iniziare a lavorare per apportare un vero cambiamento.

Esigere una legislazione che ponga fine alla concentrazione delle testate, condizione sine qua non per un giornalismo indipendente. Solo con il pluralismo di proprietà possiamo sperare di avere linee editoriali molteplici e, pertanto, maggiore libertà espressiva per i singoli giornalisti. Solo con la fine della concentrazione delle testate mainstream nelle mani di quattro famiglie miliardarie può nascere un maggior numero di fonti mainstream di controinformazione. Se riuscissimo a porre fine all’attuale oligopolio, WikiLeaks diventerebbe soltanto una delle tante voci libere nell’editoria e Assange diventerebbe il padrino di innumerevoli emulatori.

Ampliare la tutela legale, ora insufficiente, dei whistleblower, ovvero “coloro che segnalano irregolarità o illeciti penali all’interno del proprio ambito lavorativo”, come sancito dalla Legge 179 del 30/11/2017. Inoltre è necessario sostenere le ONG che proteggono i whistleblower, come The GoodLobby. In un recente colloquio a Belmarsh con lo scrittore Charles Glass, Julian ha confessato di temere che «la sua incarcerazione, la persecuzione del governo statunitense e le restrizioni poste ai finanziamenti di WikiLeaks non abbiano fatto altro che allontanare i potenziali informatori». Bisogna perciò ridare coraggio a tutti coloro che potrebbero denunciare gli illeciti di cui vengono a conoscenza, offrendo loro maggiori garanzie.

Rinforzare la tutela legale dei giornalisti investigativi. Ciò significa proteggere meglio il segreto professionale (è insufficientemente tutelato dall’articolo 10 della Legge 848/04.08.1955). Significa anche sostenere le lotte per maggiori garanzie sindacali contro i licenziamenti ritorsivi. Infine, significa varare norme contro l’uso di lawfare per perseguitare i giornalisti (va nella direzione giusta la recente direttiva UE anti-SLAPP, ma è insufficiente).

Restringere l’ambito e allargare l’appellabilità del segreto di Stato ex art. 256 c.p., 342 e 352 c.c.p. e 66 att. c.p.p. – anche alla luce delle Leggi 81/24.10.1977 e 124/03.08.2007. L’attuale disciplina del segreto di Stato risale all’epoca fascista e al motto mussoliniano “tacere e ubbidire”. Neanche a dirlo, gli articoli che disciplinano il segreto di Stato non menzionano la legittimità di divulgare segreti di Stato quando ciò è nell’interesse generale. Pertanto, quegli articoli andrebbero rivisti alla luce delle sentenze che sanciscono la preminenza dell’interesse generale, come quella della Corte Suprema statunitense del 1971, le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e le direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio.

Conclusione

Nella sua conversazione [12] con Cédric Villani, un amico francese recatosi a fargli visita nella prigione di Belmarsh, Julian ha confessato di temere «di essere diventato un simbolo, qualcuno che si alza contro il Sistema» e basta. Villani, notando lo sconforto di Julian, ha cercato di rassicurarlo facendogli notare che “il manifestante solitario che affronta i carri armati in piazza Tienanmen, oppure Davide contro Golia” sono, sì, anche loro soltanto simboli, ma che hanno dato la voglia di lottare a tantissime persone e che, pertanto, hanno in qualche modo cambiato il mondo.

È pur sempre vero, tuttavia, che Julian deve essere qualcosa di più di un mero simbolo. Perché, altrimenti, diventerebbe un bersaglio facile da eliminare con un colpo di pistola o con un provvedimento giudiziario arbitrario. Julian deve diventare, invece, un vasto movimento di persone che lottano per la verità nel discorso pubblico e per un riordino dell’assetto dell’informazione pubblica. Solo nel contesto di un giornalismo diventato davvero indipendente e aperto a tutti, Julian Assange e WikiLeaks potranno tornare davvero liberi.

Note: 1. Camera dei Deputati, Atti di controllo e indirizzo, Atti parlamentari, XVI legislatura, Allegato B ai resoconti, seduta del 10 febbraio 2011, documenti.camera.it.
2. Il Post, WikiLeaks e il cyberspionaggio della CIA, spiegati bene, www.ilpost.it, 8 marzo 2017.
3. M. Sideri, Ecco tutti i trucchi per proteggersi dalle intrusioni online, www.corriere.it, 12 giugno 2013.
4. G. Meneghello, Wikileaks e i panni sporchi su clima ed energia, www.qualenergia.it, 10 dicembre 2010.
5. Rinnovabili.it, Wikileaks rilascia testi segreti del TiSA su ambiente ed energia, www.rinnovabili.it, 4 dicembre 2015.
6. N. Giambruno, Il Peccato Cardinale della Finanza Internazionale, megachip.globalist.it, 25 novembre 2017.
7. RaiNews, USA 2016, Assange: quella in Libia è stata la guerra di Hillary, Obama era contro, www.rainews.it, 5 novembre 2016.
8. Avvenire,Wikileaks, dati su conti offshore di 2000 grandi evasori, www.avvenire.it, 17 gennaio 2011.
9. L. Amici, I nuovi cablo di Wikileaks: i Kissinger Files, www.ilfattoquotidiano.it, 8 aprile 2013.
10. A. Getz, 2023 prison census: Jailed journalist number near record high; Israel imprisonments spike, cpj.org, 2024.
11. K. Gosztola, In Assange’s darkest hour, committee to protect journalists yet again excludes him from jailed journalists index, thedissenter.org, 20 gennaio 2024.
12. C. Villani, Tout sour l’étonnante conversation entre Julian Assange et Cédric Villani, en visite à la prison de Belmarsh, www.nouvelobs.com, 21 novembre 2023.

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