Dove va Kerry
24 maggio 2004 - Due mesi fa, dopo aver inanellato una serie di trionfi nelle primarie, John Forbes Kerry sembrava già lanciato verso la Casa Bianca. Era riuscito a compattare il partito democratico dietro di lui, emergendo come un leader al quale – grazie alle sue posizioni moderate – era stata riconosciuta una maggiore “eleggibilità” per la poltrona presidenziale. Oggi, passato lo slancio di quelle vittorie, “il nuovo Jfk” fatica a farsi notare.
I sondaggi lo danno in piena corsa, in un continuo testa a testa con George W. Bush. Eppure, con il presidente in carica in evidente affanno per l’esplosiva situazione irachena, il candidato dei Democratici avrebbe più di una possibilità per provare l’affondo decisivo. Finora non è ancora riuscito a farlo. Si erode il consenso intorno a Bush, ma nel contempo quello per Kerry non sale. E negli Stati Uniti il crescente partito degli ABBA (Anything But Bush Again), composto da quegli elettori che voterebbero chiunque pur di non ritrovarsi Bush presidente per altri quattro anni, comincia a preoccuparsi sul serio.
Per certi versi questo fenomeno è inevitabile. Nel bene e nel male, Bush è ogni giorno il protagonista delle news, il “presidente di guerra” – come si è autodefinito – che l’America estremamente polarizzata di oggi ama oppure odia. Ma Kerry, specialmente in politica estera, che in questo momento è praticamente sinonimo di Iraq, non sembra rendersi conto del potenziale che potrebbe sfruttare.
Non riesce a smarcarsi in modo convincente dalle posizioni della Casa Bianca e del Pentagono. Bush dice che gli Usa resteranno in Iraq finché ce ne sarà bisogno e lui – che da senatore votò a favore dell’intervento – è d’accordo, sostiene persino che bisogna inviare altre truppe, e aggiunge solo che è necessario coinvolgere la Nato e l’Onu per districarsi dal pantano. Questa strategia “centrista” potrebbe anche funzionare, se l’obiettivo fosse quello di attrarre il voto dei repubblicani delusi e Kerry potesse comunque contare sulla parte più progressista dei Democratici. Ma a sinistra non c’è il vuoto. C’è il terzo incomodo, Ralph Nader.
La gran parte degli analisti è convinta del fatto che se oggi alla Casa Bianca c’è Bush e non Al Gore, la responsabilità sia di Nader. D’altronde, i numeri parlano abbastanza chiaro: alle elezioni presidenziali del 2000, le più equilibrate di tutti i tempi negli Usa, il candidato dei Verdi ottenne il 2,7 per cento dei voti. Soprattutto, si portò a casa più di 97mila voti in Florida e 22mila nel New Hampshire, Stati che Bush soffiò al democratico Gore con uno scarto rispettivamente di 537 e 7.211 voti.
Quest’anno Nader – anche se in qualche Stato sta incontrando diverse difficoltà nel raccogliere il numero di firme necessario per presentarsi – si ricandida, questa volta come indipendente. I simpatizzanti ABBA lo hanno scongiurato di non farlo, ma Nader può contare su uno zoccolo duro di elettori che non trovano differenze tra democratici e repubblicani. E al momento i sondaggi gli assegnano una percentuale del 6-7 per cento dei voti a livello nazionale. Anche quattro anni fa, nei mesi precedenti le elezioni, Nader veleggiava su queste cifre e alla fine si fermò a molto meno. Ma anche ipotizzando un andamento simile da qui a novembre, il problema per Kerry rimane.
Non è un caso che la settimana scorsa i due si siano incontrati, rilasciando ai media reciproche dichiarazioni di stima. Kerry non ha ufficialmente chiesto a Nader di ritirarsi dalla corsa, anche se in cuor suo probabilmente lo spera. Ma evidentemente ha pensato che un approccio amichevole – tra l’altro i due si conoscono dal 1971, quando Kerry era già un plurimedagliato veterano del Vietnam profondamente segnato dalla guerra – è meglio di una contrapposizione netta, tanto per rimarcare che la sfida non è tra loro due, perché il nemico comune da battere è Bush. Ne è uscito con una bella investitura, dato che Nader l’ha definito “molto presidenziale”.
Il pacchetto che Kerry offrirà agli elettori a novembre – il cosiddetto ticket – è ancora in via di definizione. Mentre il candidato democratico gira gli Usa per far conoscere le sue idee, dietro le quinte vanno in scena le trattative per formare la squadra che comporrà l’amministrazione nel caso sia eletto. Una fase delicata, perché la scelta degli uomini può rivelarsi fondamentale per far presa su diverse fasce dell’elettorato.
A cominciare dal vicepresidente: alcuni consigliano a Kerry di puntare su John Edwards, l’aspirante candidato che più gli ha dato filo da torcere nelle primarie, perché il cinquantenne che ricorda Clinton esercita un certo fascino sulle donne. Altri fanno notare che, oltre agli indecisi, chi potrebbe decidere questa elezione in favore dei Democratici potrebbero essere i giovani che di solito non vanno a votare: e per questo scommettono su Howard Dean, che prima dell’inizio delle primarie sembrava il favorito alla nomination, e che è riuscito ad accendere la passione politica dei ventenni, ribattezzati Deaniacs. Nel frattempo, Dean ha lasciato intendere che non disdegnerebbe un’eventuale chiamata da parte di Kerry.
L’unico nome fatto finora da Jfk è però quello del suo amico – e anche lui veterano del Vietnam – John McCain, il senatore repubblicano dell’Arizona spesso critico con le scelte di Bush, che Kerry ha ipotizzato di scegliere come futuro segretario alla Difesa. McCain ha declinato l’offerta, ma già il fatto che Kerry abbia lanciato questo messaggio conferma ancora una volta le sue idee moderate. Nel 2000 a Gore fu affibbiata l’etichetta di “Bush light”. Nominando un repubblicano, per quanto dissidente, Kerry rischia di fare la stessa fine.
Quello di farlo sembrare un indeciso perennemente on the fence, seduto sullo steccato aspettando il momento giusto per scegliere dove saltare, un debole inadatto a guidare gli Usa in tempi difficili come questo, è esattamente l’obiettivo di Bush. Negli ultimi due mesi, dopo aver raccolto il doppio dei fondi per la campagna elettorale rispetto al rivale, il presidente in carica ha scaricato contro Kerry una raffica di spot dal valore di 50 milioni di dollari. Definendolo troppo liberal – termine che ha una connotazione negativa negli Usa – e facendogli le pulci per tutta una serie di voti da lui dati nella sua ventennale carriera di senatore.
Kerry è stato così costretto sulla difensiva, finendo per essere trascinato a fare il gioco di Bush, a smentire una dopo l’altra le accuse. Ora sta cercando di invertire la rotta, per dimostrare all’elettorato che anche lui è un uomo forte – caratteristica fondamentale per la psicologia dell’elettorato Usa – e con le idee chiare. Per sua fortuna, i soldi ora cominciano ad arrivare a un buon ritmo.
Nel solo mese di aprile, Kerry ha raccolto 30 milioni di dollari, contro i 15,6 di Bush. Nel totale dei fondi raccolti lo sfidante è ancora ben distaccato, con 115 milioni contro 200. Ma intanto, oltre al sostegno del magnate George Soros, il candidato democratico si è assicurato anche quello del secondo uomo più ricco del mondo, il finanziere Warren Buffett. Con le somme a sua disposizione che si avvicinano a quelle di un Bush sempre più impantanato nel Medioriente, Kerry avrebbe tutti i mezzi per passare alla controffensiva. Se avrà anche il carisma e l'abilità politica per imporre la sua agenda invece di rincorrere quella del presidente, questo si vedrà nei prossimi sei mesi.
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