La cattiva informazione genera cittadini docili

intervista a Ignacio Ramonet
8 giugno 2004
Rubén Martín

Ignacio Ramonet, direttore de Le Monde Diplomatique, coniuga l'attività giornalistica, la riflessione teorica e la militanza politica. Lo scorso mese di aprile è stato invitato dall'Università di Guadalajara a recarsi nella città e prendere parte alla Cattedra Cortazar, patrocinata da Gabriel García Márquez e Carlos Fuentes. È stato in questa sede che ha proposto un'organizzazione di cittadini in quanto consumatori, che abbia l'obiettivo di pretendere informazione di migliore qualità. Ha anche esortato il movimento "un altro mondo è possibile" ad affinare le sue idee e ad impegnarsi in una lotta politica contro la classe dirigente economica e politica mondiali. Ramonet è uno dei pensatori più prolifici dell'attuale movimento sociale mondiale di critica della globalizzazione. Dalla sua riflessione teorica, dall'esercizio della professione giornalistica e dalla sua militanza politica sono germogliate idee condivise da migliaia di persone in tutto il mondo che non si vogliono conformare col capitalismo. Ignacio Ramonet (Redondela, Spagna, 1943) è l'ideatore del concetto di "pensiero unico", espressione coniata per criticare l'incontrastato dominio delle idee neoliberali. È stato uno dei protagonisti della nascita dei Forum di Porto Alegre e uno dei creatori del movimento internazionale ATTAC, che promuove una tassa mondiale sullo spostamento dei capitali. Per quattro giorni, a Guadalajara, ha esposto in maniera gentile e generosa le sue idee sulla situazione della comunicazione. Per le pagine de Le Monde Diplomatique, che dirige dal 1991, sono passati alcuni dei pensatori critici più importanti dell'attualità.

Ha detto che ci troviamo di fronte ad una infantilizzazione dell'informazione. Che conseguenze ha questo fatto?

La conseguenza è che il cittadino si fa l'idea che la vita politica, la vita economica, la vita sociale, che tutto ciò sia molto semplice, e che basti volere per fare le cose. I mezzi di comunicazione tendono a non mostrare la complessità, e dall'altra parte, a forza di voler vedere le cose molto nel dettaglio, presentano solo una tessera del mosaico, ma non riescono a dare l'immagine d'insieme. È molto difficile, per qualcuno che usi i mezzi di informazione, sintetizzare una problematica. Se chiede a qualcuno "mi spieghi la crisi in Iraq, mi dica che cosa sta succedendo là", e questo qualcuno consuma quotidianamente informazione sull'Iraq, si troverà comunque in grandissima difficoltà ad organizzare e raccontare quello che sa.

Questa situazione è determinata da un assopimento degli ultimi anni, o è invece ciò che certi gruppi mediatici cercano deliberatamente di ottenere?

Non credo che sia intenzionale, cioè che ci sia volontà di manipolare. Penso che la motivazione principale sia quella del profitto. Se si trattasse di un paese, per esempio con partito unico, come poteva essere l'Unione Sovietica, in questo caso sì che ci sarebbe la volontà di controllare l'informazione. Nella nostra società questa realtà non esiste, ma è stata soppiantata dall'interesse per la redditività. E poi c'è anche l'interesse di scomporre le coscienze, perché alla fine la gente diventa molto più docile, ed è possibile vendere ai consumatori prodotti di bassa qualità, glieli si possono vendere senza che oppongano resistenza. È quello che abbiamo visto in altri aspetti del consumo: per esempio per gli elettrodomestici e per l'alimentazione [.] ci si preoccupa della qualità. Con la libertà d'espressione è lo stesso. Nella maggior parte dei paesi è un fatto nuovo, di 50 anni, o 10 anni nel caso dei paesi dell'Est. La conseguenza è che siamo tanto contenti di questo fatt!
o, che per il momento non siamo ancora molto esigenti, ma questa richiesta arriverà, ne sentiremo il bisogno, perché ciò che consumiamo con tanto entusiasmo ed allegria, la libertà d'espressione, a conti fatti non sta producendo in noi ciò potremmo aspettarci, cioè non ci aiuta a capire le cose difficili.

Prima di arrivare a questa richiesta di migliore qualità non potrebbe succedere qualcosa di più grave? La cattiva qualità dell'informazione porta ad un'atrofia dell'intelletto.

Sì, perché non c'è consapevolezza di quello che succede. Il fatto di consumare molta informazione soddisfa una specie di golosità, ma è anche vero che non siamo ancora coscienti del fatto che c'è un problema. Crediamo che questa sia una soluzione, diciamo: "Meno male che adesso abbiamo questa possibilità". E dato che i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati-adesso abbiamo cellulari, posta elettronica.-, comunichiamo tutto il giorno. Ci sembra che già l'attività di comunicare in sé sia sufficiente. Ma non è sufficiente, perché bisogna rendersi conto che il mondo si è fatto molto più complesso che in passato, e il modo di rappresentarlo è più semplicistico che mai. C'è qualcosa che non va in questo, ma non tutti ne siamo consapevoli.

Sembra che ci siano molte più ragioni per essere pessimisti che ottimisti. Lei proponeva un quinto potere, quello del controllo dei cittadini sui mezzi di informazione, ma una cosa del genere è realizzabile?

Credo di sì. Io sono pessimista nell'analisi, ma non quando si tratta di trovare soluzioni. Oggi i media sono arrivati all'attuale dimensione di abuso, a volte inconsapevole, perché la motivazione che si dà è diversa. Io parto dal presupposto che il sistema mediatico funzioni in buona fede. Non parto dal presupposto che il sistema voglia mentire o manipolare. Però lo fa. Penso che non esista al momento nessun'altra professione in cui ci sia tanta volontà di correggersi come nel giornalismo.

Quando si parla di consumatori ci si riferisce ad un terzo del pianeta. La sua proposta non è per una classe media mondiale più che per l'insieme delle società?

Può darsi, ma bisogna cominciare dall'inizio. Dalle società di grande consumo mediatico, di grandi attrezzature, como sono le nostre o comunque le nostre professioni. In America Latina le disuguaglianze sono abissali, ma anche lì, se prendiamo il settore dei professori universitari, degli studenti, dei professionisti, dei giornalisti, vediamo che sono [.] un gruppo tanto ristretto come in qualunque altro paese, che ha la responsabilità di dire: "è necessario un gruppo di pressione, siamo clienti, siamo quelli che consumano, quelli che alla fine permettono al mercato di esistere, quindi abbiamo il dirirtto di dire la nostra su quello che consumiamo". Non è normale che chi consuma mais o acqua minerale abbia il diritto di parlare col produttore, mentre chi consuma informazione non abbia niente da dire all'industriale.

Potrebbe citare dei casi in cui si verifica qualcosa del genere, in cui si fanno dei controlli o si pretende qualità dai media?

Il paese in cui la situazione mediatica è più conflittuale, dove i media portano avanti in modo quasi arrogante ed esplicito la loro ambizione di dirigere la vita politica, è il Venezuela. [.]. Lì i mezzi di informazione privati dominanti hanno assunto il ruolo di opposizione e sono arrivati fino a commettere un colpo di stato, l'11 aprile 2002. In Venezuela c'è una parte della popolazione che è profondamente irritata e che ritiene che i media abbiano passato il limite e assunto un compito che non è quello che compete loro. Il compito dei media è quello di fornire notizie che, laddove possibile, siano accurate e giuste. E lì i media non fanno questo, fanno propaganda. È stato istituito l' Osservatorio nazionale dei media, come ci si aspettava tra grandissime polemiche. Il Venezuela è un paese molto diviso, ma si è riusciti a far sì che molti universitari e molti giornalisti denunciassero la pressione dei loro datori di lavoro. L'Osservatorio è molto valido, e si è spinto fin!
o all'istituzione di un tribunale mediatico internazionale-il primo nel suo genere- presieduto da Naomi Klein. Ma esistono osservatori in molti paesi. In Italia, dove l'osservatorio denuncia gli abusi di Berlusconi, e poi in Argentina, in Brasile. Io sono dell'opinione che si commetterebbe un grave errore se si politicizzassero questi osservatori. Non si tratta di essere contro Berlusconi, né dalla sua parte, si tratta di porre dei paletti, di dare una normativa in termini di qualità dell'informazione.

Gli obiettivi che ci si prefigge sono un po' troppo ambiziosi: Lei citava l'autocritica dei giornalisti, però sembra che i proprietari dei mezzi di comunicazione vadano in un'altra direzione.

Certo, questa è una situazione difficile in cui si trovano molti compagni giornalisti, che sono consapevoli di quello che sta succedendo ma non possono dirlo. Per molto tempo in passato i giornalisti si sono trovati nella situazione di non potersi opporre al governo o al partito, perché dipendevano dalla linea politica decisa dal partito. Adesso invece c'è la linea editoriale o commerciale stabilita dai padroni della stampa. Molti giornalisti sono nella bruttissima situazione di non poter dire quello che sanno su una certa impresa o organizzazione. Non possono dire quello che sanno su un governo o partito politico, perché i padroni dei giornali hanno degli accordi. In molte imprese, dato che si sono formati questi gruppi mediatici accorpati, si può parlare solo dei libri pubblicati dalla casa editrice del gruppo, e tutto ciò deforma completamente non solo la politica e l'economia, ma anche la vita culturale, perché tutto funziona in termini di clan. L'era digitale è appena u!
na frazione della storia, e già vediamo le conseguenze che ha avuto: tutta questa informazione di bassa qualità, tutta questa cultura di massa infantilizzata.abbiamo precedenti nella storia? La situazione nella quale ci si trova è sempre un caso unico, ma credo che quello che ci scandalizza oggi sia questa differenza: non è mai esistita una popolazione così istruita. Prendiamo l'esempio del Messico: non ci sono mai stati tanti studenti universitari e tanti laureati come oggi. Qui come nella maggior parte dei paesi ci sono molte persone istruite ed alcune colte. Bè, basandosi solo su questo parametro ci si rende conto che normalmente questa situazione si dovrebbe accompagnare ad una produzione mediatica dello stesso livello, mentre invece questa è più mediocre che mai. A dire la verità i giornali non sono mai stati un gran che, io non credo nell'età dell'oro del giornalismo, ma quello che voglio dire è che, con la formazione che c'è oggi, potremmo aspettarci per lo meno che !
nei nostri paesi ci fo¿Lo sciame
Si potrebbe fare un'analogia con la legge dell'evoluzione sui movimenti contro la globalizzazione? Siamo in un momento in cui idee differenti competono per vedere quale può diventare una militanza più efficace?

In questo momento il problema che ci si pone, forse in modo inconsapevole, disordinato e disorganizzato, ma a livello mondiale, è come fare politica in un altro modo, come fare una politica più reale, più ricettiva alle necessità e alle inquietudini dei cittadini, come fare una politica che non dipenda da organizzazioni politiche, totalmente screditate in tutti i paesi. Ciò che chiamiamo il "movimento sociale" ci ha consentito di progredire abbastanza nella definizione di globalizzazione. Ci ha fatto prendere coscienza del fatto che quello che vivono un indigeno, un maestro o un impiegato di banca messicani non ha a che fare solo con la realtà messicana, ma che un contadino o un maestro africani hanno esattamente gli stessi problemi del produttore di mais in Messico. Esiste una specie di meccanica generale che si applica a tutti i paesi del mondo e che sostiene la cittadinanza; perciò intervenire solo sulla classe dirigente politica locale non ha alcuna conseguenza ad un liv!
ello superiore. Che ci siano Fox o Salinas o Zedillo, la situazione è praticamente la stessa. Infatti il punto di inflessione non è a livello del governo del nostro paese, ma probabilmente si situa oltre. Quello che sta facendo Fox è cercare di applicare direttive generali ad una situazione locale, cosa che ci ha permesso di riflettere su che cosa vuol dire "globale" e cosa vuol dire "locale". Ma non come si diceva tempo fa, "pensare globalmente e agire localmente"; io credo che le cose si siano invertite, adesso è "pensare localmente e agire globalmente". Se non agiamo a livello globale non possiamo fare.se ciascuno sta nel suo angolino, non cambierà mai niente.

Comincia un altro ciclo? Arundhati Roy [scrittrice indiana] faceva a Bombay la critica che le manifestazioni non bastano.

Certo, d'accordissimo. Io questa volta non sono andato, e neanche Chomsky. In diversi abbiamo detto di no, "i forum, che si facciano, bene", ma non si può andare sempre. Adesso bisogna che l'aspetto propositivo si faccia più concreto. Bisogna che si verifichi ciò che io ho chiamato opposizione del consenso di Porto Alegre al consenso di Washington, e che ciò cominci ad essere applicato un po' dappertutto. C'è già un embrione di opinione pubblica internazionale. Loro hanno svariati milioni di dollari, e noi svariati milioni di persone, ne abbiamo sei miliardi. Loro sono 4 o 500 milioni, quindi non si può essere molto pessimisti. Se fossimo quattro gatti allora sì che si potrebbe esserlo, ma non è così. Il problema è che non tutti hanno acquisito la consapevolezza di quello che possono ottenere, ma ci sono 4 miliardi e mezzo di persone che vivono nella povertà completa.

Quindi, Lei crede che si stia consolidando un movimento contro il sistema?

Sì, credo di sì, credo che non abbia mai smesso di rafforzarsi. Insomma, nessuno pretende di dar vita ad un'organizzazione, nessuno pretende di dar vita ad un partito. Si sta costruendo una specie di galassia, di costellazione in cui ci saranno margini di libertà, di iniziativa, di autonomia, ma in realtà l'idea è quella di funzionare come uno sciame. Nello sciame ognuno è autonomo, ha il suo spazio, ma lo sciame funziona unito. Di conseguenza l'idea è quella di uno sciame di sciami.

Dove deve farsi sentire questo sciame?

Deve farsi sentire proprio dove oggi risiede il controllo del potere, in quella struttura quadripartita che è costituita dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM), l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e l'Organizzazione di Cooperazione per lo Sviluppo (OCSE), cioè quello che mette in atto il G-8 e quello che viene espresso a Davos. Lo sciame deve essere lì, in modo pacifico e politico, in termini di discussione di idee.
Fonte: www.rebelion.org

Note: Traduzione di Francesca Giamboni a cura di Peacelink

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