Bush, il grande black out

Il presidente non parla più della guerra in Iraq, mai stata così sanguinosa
Il primo disperso della battaglia irachena è Donald Rumsfeld, ministro della difesa, cancellato dopo lo scandalo delle torture di Abu Ghraib. La Casa bianca tace sul numero dei morti mentre i mass media, con poche eccezioni, fiancheggiano il presidente sull'allarme attentati
Marco D'Eramo
Fonte: Il Manifesto
http://www.ilmanifesto.it - 08 agosto 2004

Nelle battaglie degli ultimi mesi in Iraq risulta disperso un americano eccellente, addirittura il responsabile della guerra. Dai primi di maggio sembra infatti svanito nel nulla Donald Rumsfeld, ministro della difesa Usa: si è fatto vivo solo due volte ai briefings del Pentagono ed è stato visto da giornalisti solo 13 volte in quasi 100 giorni, niente per uno che si esibiva tutte le mattine per il briefing con la stampa sulle folgoranti vittorie afghane e irachene, che bucava il video da tutti i talk show nazionali, che Bush chiamava «il nostro idolo da matinée». Di colpo Rumsfeld frequenta solo tv locali o via cavo dei supporter repubblicani (cui ha dato 19 interviste), non concede più interviste ai giornali, diserta i grandi appuntamenti tv, disdice discorsi e conferenze stampa. Per esempio, ha cancellato un'apparizione al World Affair Council a Philadelphia e ci ha mandato il suo vice, Paul Wolfwowitz, al posto suo. Si è accorto di questa scomparsa anche il Los Angeles Times che mercoledì si è chiesto angosciato dove mai è finito il Donald nazionale. Quest'improvvisa discrezione dopo tanta disinibizione, questo subitaneo silenzio dopo tanta irrefrenabile facondia, dipendono in parte dalle torture nella prigione di Abu Ghraib. Dopo che lo scandalo è scoppiato, la catena di comando - e delle responsabilità - portava direttamente a lui. D'altronde Rumsfeld aveva più volte dichiarato che ai «nemici combattenti» e ai sospetti terroristi (cioè tutti gli iracheni e gli afgani) non si applicava la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra: cosa significa questa tesi se non una licenza di tortura data ai secondini militari Usa? Ma la Commissione del Senato gli ha permesso di barcamenarsi, di glissare, scaricare, eufemizzare le «torture» in «abusi», tanto che all'uscita dall'udienza lui stesso si è dichiarato «un sopravvissuto politico». In parte poi la sua riservatezza è dovuta al fallimentare bilancio che ha lasciato il suo uomo a Baghdad, Paul Brenner III, il proconsole imposto personalmente da Rumsfeld, contro le obiezioni del segretario di Colin Powell (un altro che si è scoperto un'improvvisa passione per le più improbabili missioni all'estero, perfino in Groenlandia). Ma il suo defilarsi sembra obbedire a una strategia elettorale.

La squadra Bush vuole cancellare la guerra in Iraq dall'agenda politica americana. «E per il momento questa strategia sta funzionando, sta proteggendo il presidente e questo era l'obiettivo» ha detto al L.A. Times Ivo Daalder, un ricercatore della Brookings Institution: «Penso che sia una strategia deliberata dell'amministrazione Bush. In fondo era solo questo lo scopo del trasferimento di sovranità (agli iracheni).

L'essenza di questa strategia, fin dallo scorso novembre, era di far sparire l'Iraq dalla scena politica americana così che non fosse presente, politicamente, al momento delle elezioni». Che la strategia stia funzionando lo si vede dai mezzi di comunicazione di massa: l'Iraq è scomparso dalle prime pagine dei grandi quotidiani, dalle copertine dei settimanali e si è drasticamente rivoluzionato in tv. A questa vera e propria autocensura ha dedicato la sua rubrica di venerdì l'economista Paul Krugman sull'effetto mediatico del trasferimento della sovranità: «Come dice Matthew Yglesias di American Prospect, il cosmetico cambio di regime ha avuto l'effetto di 'afganizzare' la copertura mediatica dell'Iraq. Si riferisce al modo in cui le notizie sull'Afghanistan sono scomparse di colpo dopo la vittoria militare sui taleban. Una nazione cui avevamo fatto guerra per liberarla e che avevamo promesso di ricostruire e rendere sicura - promessa in gran parte infranta - è tornata a essere quel piccolo, lontanissimo paese di cui non sapevamo nulla. Incredibilmente, la stessa cosa è avvenuta dopo il 28 giugno. Le notizie sull'Iraq sono finite nelle pagine interne e in larga misura fuori dagli schermi tv. Molta gente ne ha tratto l'impressione che le cose siano migliorate. Perfino giornalisti ci sono caduti: parecchi giornali hanno affermato che le perdite Usa erano crollate dopo il passaggio di poteri».

In realtà, come si vede dalle due tabelle accanto, dopo il passaggio di poteri le perdite della coalizione sono aumentate, sia in assoluto, sia in media giornaliera: luglio è stato più sanguinoso di giugno e agosto è più micidiale di luglio. Eppure sia Krugman, sia Daalder colgono il segno: sta funzionando alla grande la strategia di espungere la guerra irachena dai mass media e dall'agenda politica. Questa rimozione è molto facilitata dal colossale errore strategico che hanno commesso i democratici quando hanno deciso di espungere l'Iraq dall'ordine del giorno della Convention di Boston. L'Iraq è stato un tema alluso, sfiorato, ma mai affrontato in quanto problema politico (né sono mai state nominate le torture di Abu Ghraib). Così facendo, John Kerry e i democratici hanno agevolato di molto la tattica di George W. Bush che oggi rimuove la guerra a Baghdad e punta tutto sulla minaccia terroristica interna, per sobillare il panico collettivo e instillare la sindrome da fortezza assediata.

Va detto che i democratici sono stati spinti in questa direzione suicidaria da un dato nuovo nel quadro politico Usa, e cioè il totale schieramento delle tv a favore di Bush. Era prevedibile fossero sdraiati su Bush che i notiziari Fox (di proprietà del magnate ultraconservatore Rupert Murdoch, in Italia padrone di Sky), tanto che lo slogan di questi notiziari, fair and balanced («corretti ed equilibrati») è diventato nella sinistra Usa un modo ironico per dire «fazioso e settario». Ma si sono foxizzati tutti i grandi network generalisti, Abc, Cbs, Nbc che da quest'amministrazione hanno ricevuto grandi regali e permessi di megaconcentrazioni. Per le stesse ragioni si è allineata anche la Cnn che è in difficoltà appartiene al megaconglomerato Aol-Time Warner che si trova in un mare di guai giudiziari: la Cnn che si vede negli Usa è molto diversa da quella che si vede in Italia. In generale, il mondo che viene descritto dai tg americani non ha niente a che vedere con il mondo che vediamo nelle tv europee, perfino in quelle berlusconiane.

La situazione dei mass media è quindi la seguente: sono totalmente allineati ai repubblicani tutte le tv generaliste, quelle cable e tutti i grandi quotidiani, con la flebile eccezione di due (New York Times e Los Angeles Times) che sono critici ma vogliono apparire «il più neutrale possibili». Che si tratti di una vera e propria collusione lo si vede dall'omertà con cui i mass media hanno trattato le menzogne che quest'amministrazione ha addotto per invadere l'Iraq. Sul quindicinale di Chicago In These Times è uscito un interessante articolo scritto da David Sirota and Christy Harvey, due dirigenti del Center for the American Progress (il nuovo think tank fondato da John Podesta, che era stato capo dello staff di Bill Clinton: vedi l'intervista uscita sul manifesto del 28 novembre 2003). Vi si mostra come ogni affermazione di Bush, Dick Cheney, Condoleeza Rice, Colin Powell e Rumsfeld sia stata pronunciata sapendo che si trattava di una menzogna perché avevano tutti ricevuto rapporti dei servizi che dichiaravano infondate le notizie sull'esistenza di armi di distruzione di massa, sul riarmo nucleare, sull'acquisto di uranio in Niger, sul fatto che i tubi di alluminio servivano a impianti atomici, sui legami di Saddam Hussein con Al Qaida, sul fantomatico incontro nella primavera 2001 a Praga tra Mohammed Atta e un ufficiale dei servizi segreti iracheni...

Ora queste menzogne sono molto più letali (hanno ucciso finora 1052 soldati della coalizione e decine di migliaia di iracheni, militari e civili), più costose (la guerra ha ingoiato finora 166 miliardi di dollari dei contribuenti Usa) di quelle che nel 1973 costrinsero alle dimissioni Richard Nixon e di quelle (su fellationes e macchie sui pantaloni) per cui nel 199 i repubblicani volevano l'impeachement di Clinton. Eppure nessun giornale, nessuna tv ha chiesto negli Usa l'impeachment di Bush. Lo stesso scandalo delle torture è stato insabbiato e sotto processo ci finiscono solo i soldati semplici. La complicità dei grandi mezzi di comunicazione di massa è il più formidabile alleato che George Bush si è trovato per cercare di abitare altri quattro anni al n. 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington D.C..

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