Il regime che c'è, davvero
Ecco un libro deprimente e avvincente, penoso ma istruttivo. «Regime», di Peter Gomez e Marco Travaglio (Bur, 9,50 euro), ci riporta alla memoria tutti i misfatti nel mondo dell'informazione che molti di noi avevano rimosso, pur essendo avvenuti ieri o l'altro ieri. Si rimuove perché la memoria dei fatti dolorosi crea un eccesso di angoscia e invece ci occorre sopravvivere; si rimuove anche perché i nuovi episodi «salgono sopra» quelli precedenti e ne oscurano il ricordo. Si rimuove infine perché fa comodo così, in vista di nuovi intrecci politici e alleanze: se si dimentica il vecchio Cirino (Pomicino) si potrà accoglierlo a braccia aperte nella nuova Margherita, insieme a Giusi La Ganga.
E invece perfidamente i due autori ce li rimettono tutti in fila, i fatti rimossi dell'informazione negata: Biagi e Luttazzi, Santoro e Sabina Guzzanti, Mimun e De Bortoli, Massimo Fini e Freccero, Paolo Rossi e Vespa, Mieli e Annunziata. Per sovrappiù di sofferenza gli autori aggiungono anche un capitolo finale, una cronologia di «Tre anni vissuti vergognosamente», che inizia con l'intervista di Luttazzi a Travaglio, il 14 marzo 2001, e finisce, per ora, al 6 agosto 2004, quando viene pubblicato lo stipendio del superdirettore della Rai, 750mila euro all'anno. Quando Mieli, in precedenza, ne aveva chiesti 700mila, Tremonti il liberista gli rispose che «una cifra così alta significherebbe creare un precedente ingombrante». Si noti che il contratto di Cattaneo è a tempo indeterminato, a differenza di tutti i manager delle aziende che possono essere licenziati in ogni momento dall'azionista di maggioranza.
Il prossimo episodio di Regime potrebbe essere il controllo preventivo sulla trasmissione di Celentano che la Rai sta cercando di attuare in questi giorni: che Gomez e Travaglio mettano mano alla ristampa.
I due autori non sono troppo amati a sinistra: specialmente il secondo che ha due colpe agli occhi dei sedicenti «riformisti» dell'Ulivo: di venire da una cultura di destra e di essere un supposto «giustizialista» - tale aggettivo deformante viene affibbiato ormai a chiunque creda nella legalità. Oltre a tutto non sorride quasi mai, è rigido e intransigente nei giudizi, «non è uno dei nostri». Di tale non appartenenza Travaglio verosimilmente è contento, così come Massimo Fini che gli assomiglia per anarchica indipendenza di giudizio e che per tale anarchia è stato preventivamente censurato da oscuri personaggi annidati in Rai2: il capitolo dedicato alla sua vicenda è uno dei più allucinanti, anche per il ruolo deprimente svolto nell'occasione dal presidente della commissione parlamentare di vigilanza, Claudio Petruccioli.
Anche gli antipatizzanti di Gomez e Travaglio dovranno comunque riconoscere loro un merito non da poco nel giornalismo d'oggi: il fatto di essere veri e «maniacali» specialisti nella raccolta scrupolosa di materiali originali che parlano da soli, con l'evidenza dei fatti. Tali sono per esempio le lunghissime missive scritte dall'imputato Previti all'allora direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, e le inedite lettere dell'avvocato Ghedini allo stesso direttore.
Allora erano sotto accusa i cronisti giudiziari del Corriere - Bianconi, Ferrarella, Biondani - più che la linea editoriale del quotidiano. Quello che scotta agli avvocati non sono tanto i commenti, sempre equidistanti, ma i fatti raccontati giorno per giorno dalle aule di tribunale. Proprio i fatti, inoppugnabili, danno fastidio quando pubblicati (cioè «messi in pubblico»).
E solo sui fatti - tanto più dirompenti quando messi in fila - lavora questo libro, per esempio ricostruendo passo per passo l'intervista di Sabina Guzzanti al Tg5 che Mentana aveva spergiurato non sarebbe stata emendata dalla solidarietà a Daniele Luttazzi e che invece uscì ribaltata, eccome. Il penoso Chicco le telefonò: «Ma non andrai mica a dire che ti ho censurato?». La ragazza lo disse e oggi questo utile libro ce lo rammenta, anche per «non scambiare una foglia di fico con un martire» (citazione recente dalla stessa Guzzanti).
La lettura di questo libro può eventualmente risultare utile a Gianni Riotta che, ricevendo il premio di giornalista europeo dell'anno, ha voluto ricordare ai colleghi che «in Italia esiste una democrazia vivace, non un regime» e che dunque «nessuno m'avrebbe arrestato al mio ritorno a Linate». Quando si dice buttare in caricatura una discussione ben più seria.
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