Giornali alla rincorsa dello spot perduto
Record italiano: due euro su tre della spesa pubblicitaria vanno alla televisione. Costa poco, rende molto. Soprattutto ai suoi padroni, ossia al «suopolio» che va da Publitalia alla presidenza del consiglio, passando per Saxa Rubra. Alla stampa le briciole, sulle quali si lotta all'ultimo sangue. A colori
«Usiamo i nomi giusti, senza abbellimenti: si chiamano gadget, e non sono un bene per il futuro dei giornali». Parola di Urbano Cairo, editore e pubblicitario, che sul boom dei prodotti collaterali che trascinano in su i bilanci dei grandi gruppi editoriali ha una posizione che egli stesso definisce «solitaria». Quella che i responsabili marketing dei gruppi editoriali considerano la loro gallina dalle uova d'oro, secondo il patron della Cairo Communications «incorpora un grande pericolo, perché distrae gli editori dalla missione principale»: il giornale. Di fronte alla posizione «solitaria» di Cairo, c'è quella di tutti gli altri che si tengono stretto il loro tesoretto (finché c'è), sottolineando che così ci si difende dalla grande crisi della voce deputata a portare i tesori nelle casse dei giornali: la pubblicità. Eterno oggetto del desiderio degli editori, per la quale si fanno e disfano giornali, supplementi, inserti, ecc. ecc., e inevitabile oggetto della seconda puntata della nostra inchiesta sullo stato di salute della carta stampata in Italia.
Unici al mondo
La pubblicità sui alcuni giornali latita, per altri arranca, per tutti richiede una fatica bestiale, e stavolta la crisi economica c'entra poco. L'impoverimento che c'è in Italia agisce semmai sull'altro versante, quello degli acquisti di giornali in edicola, piccola spesa che risente delle fluttuazioni dei redditi e dei prezzi. La crisi invece non ha colpito duro sulle spese destinate dalle imprese alla pubblicità: che dopo una flessione sensibile dal 2000 (anno in cui si sono spesi 7.122.053 euro di investimenti pubblicitari complessivi) al 2002 (poco più di 6 milioni e mezzo), da due anni sono in lieve ripresa. Solo che, ancora più di prima, vanno in massa in una sola direzione. Quella della televisione, che in Italia assorbe una quota di investimenti pubblicitari per la quale siamo unici al mondo. Non è l'unico motivo per il quale siamo unici al mondo: l'altro è strettamente connesso, e abita a Palazzo Chigi.
Nell'anno 2004, secondo le previsioni della Nielsen, il piccolo schermo italiano batterà tutti i record: ogni 100 euro spesi in pubblicità 62,9 andranno alla tv. Ossia, al sistema Rai-Mediaset - che da solo fa il 90% della teelvisione italiana - e al suo pilastro Publitalia - che da solo raccoglie il 65% del mercato pubblicitario televisivo. Nel paese dei Berlusconi, dove a furor di popolo viene respinto il referendum anti-spot, pare normale che chi vuol vendere un prodotto lo faccia prevalentemente in tv. Invece basta allontanarsi un po' e le percentuali cambiano parecchio: in Francia alla tv va meno del 30%, in Germania il 23%, in Spagna il 39,9%. In tutta l'Europa non c'è un paese che abbia tanta pubblicità - in assoluto, e in proporzione agli altri mezzi di comunicazione - sul piccolo schermo. Tutti sono sotto il 50%, con la sola eccezione del Portogallo che comunque è al 53%, ben al di sotto del nostro 62,9%. E' la vecchia Europa che privilegia l'antico mezzo del giornale al moderno veicolo della tv? Macché. Negli Stati uniti la percentuale di pubblicità che va in tv è ai livelli medi europei, non certo ai livelli italiani: si attesta infatti sul 32%. Facciamo due conti e un po' di fantaeconomia. Dato che quest'anno, sempre secondo la Nielsen, arriveremo se tutto va bene a 6.776.368 euro di investimenti pubblicitari, se ci avvicinassimo alle percentuali americane la pubblicità televisiva «perderebbe» qualcosa come 2 milioni di euro, a tutto vantaggio degli «altri mezzi»: radio, cinema e soprattutto carta stampata.
Più che un dislivello, è un abisso. Cairo, che in Publitalia è nato per poi distaccarsene e fondare il suo (più piccolo) impero, lo dice con parole diplomatiche: «E' una situazione anomala, per la presenza di due operatori che assorbono tutto, uno dei quali è presente anche nella carta stampata». Ma invita a guardare anche i problemi specifici che hanno gli editori dei giornali: il fatto che in Italia si legge molto meno che in altri paesi. Il che - sottolinea Urbano Cairo - rende meno appetibile la stampa italiana per l'inserzionista. I dati forniti dalla stessa Fieg mostrano che l'Italia è agli ultimi posti in termini di copie diffuse per abitante: 101 copie ogni 1000 abitanti, contro le 317 della Gran Bretagna, le 289 della Germania e le 197 degli Stati uniti, senza arrivare al record delle 564 della Norvegia. Ma è anche vero che paesi dove i giornali hanno diffusioni non molto distanti da quella italiana vantano un rapporto tra pubblicità su carta e pubblicità in tv meno sperequato. Ad esempio, la Spagna, con 107 copie diffuse per abitante, ha una percentuale di investimenti pubblicitari sui giornali di tutto rispetto, sul 45%; la Francia, con 134 copie per abitante, vede la metà della pubblicità andare ai giornali. Dunque, lo scarso livello delle nostre vendite in edicola può essere una concausa ma non la causa principale dell'abnome presenza di pubblicità in tv.
Chi si concentra gode
La quale peraltro diventa sempre maggiore, a dispetto di crisi e cicli economici. «Dopo la crisi, la ripresina che c'è stata ha accentuato lo squilibrio» dice Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione nazionale della stampa italiana, il sindacato dei giornalisti. Quando la pubblicità ha ripreso a crescere, insomma, è andata ancor più sul piccolo schermo. Nel 2000 la quota della stampa sulla torta globale era del 34,2%, adesso è al 27,8. «Sono stati gli anni nei quali Mediaset ha sistematicamente sforato i tetti alla raccolta pubblicitaria - prosegue Serventi Longhi -. Gli editori hanno risposto con lo sviluppo del commerciale, con i prodotti collaterali, ma è solo una strategia di difesa rispetto al nemico principale, che è la concentrazione del mercato pubblicitario».
Concentrazione. Ossia duopolio, anzi «suopolio» (come scrisse qualche tempo fa questo giornale). Che viene usato non per tenere alti i prezzi della pubblicità in tv, ma al contrario per tenerli bassi e convogliare lì la gran parte dei soldi. Nella denuncia dell'inghippo, sindacati e imprese editoriali fanno fronte unico. Non c'è anno che passa senza che il rapporto della Fieg non lanci ululati contro la concentrazione pubblicitaria, e forse non è un caso che la Confindustria per passare dal tappetino damatiano a una posizione più critica verso il governo Berlusconi abbia pescato proprio Montezemolo, protagonista di una dura battaglia (persa) dalla presidenza della Fieg contro la Gasparri, incentrata proprio sulla difesa della concorrenza nel mercato della raccolta pubblicitaria. «Una metastasi industriale. Il conflitto di interessi è un cancro e si allarga in tutti i settori della multimedialità - commenta Giuseppe Giulietti, deputato ds - Il mercato pubblicitario è chiuso, i grandi giornali si fanno grande concorrenza ma con iniziative che sono solo di sopravvivenza». Oltre alla consacrazione dello squilibrio avvenuta con la Gasparri, c'è anche il fatto che si stanno esaurendo tutti i palliativi promessi all'editoria come una sorta di compensazione del maltolto: ancora non si vota la proroga del bonus agli editori per l'acquisto della carta, non arriva il regolamento per distribuire il credito d'imposta per investimenti nel settore e mancano anche i relativi fondi. «Mancate risposte che sono anche un modo per tenere i giornali sotto lo schiaffo», ipotizza Giulietti.
A colori e per pochi
Ciò detto, per l'anno prossimo si apre uno scenario paradossale. Entra a pieno regime il Sic, il Sistema integrato delle comunicazioni, il cui effetto - lo ha detto a chiare lettere la recente istruttoria dell'Antitrust di Tesauro - è di aumentare lo strapotere di Rai-Mediaset. Nello stesso tempo le previsioni per il 2005, dopo due anni di ripresina, non sono esaltanti. «I primi nove mesi del 2004 sono stati mollto positivi, con un aumento degli investimenti pubblicitari del 10%, ma l'anno sta finendo meno bene», dice Cairo, che fa capire che la tendenza di quest'ultimo scorcio del 2004 non promette niente di buono per il 2005. I più grossi centri media - coloro che gestiscono gli investimenti pubblicitari degli inserzionisti - prevedono stabilità. «Saremo sugli otto milioni di euro», stimano alla Carat, uno dei più grandi centri media, dove prevedono anche un mantenimento delle attuali proporzioni degli investimenti tra i differenti mezzi. Dunque, bocce ferme. Sugli stessi (pochi) soldi arrivano però all'assalto gli editori di giornali, che ci riprovano con il cosiddetto «full color»: il più possibile delle pagine tutte a colori, per allettare l'inserzionista. La Repubblica è partita per prima, il Corriere in piena bufera si affida con il «piano Colao» al «full color» che partirà da luglio, altri stanno seguendo alla spicciolata. Tra pochi mesi, senza pagine a colori, presentarsi sul mercato della pubblicità dei giornali sarà quasi inutile. Ma, essendo la torta della pubblicità sempre (più o meno) quella, la lotta sarà comunque all'ultimo sangue.
«Full color, promozione, diffusione, tutti sforzi che non bucano», insiste Serventi Longhi, preoccupato per gli stati di crisi che vede affacciarsi - già nello scorso anno il suo sindacato ne ha gestiti diversi, siglando accordi al Secolo XIX, alla Gazzetta del Mezzogiorno, al Corriere dello Sport e alla Stampa. E «non bucano» perché da un lato la platea degli acquirenti di giornali resta sempre la stessa, dall'altro il «suopolio» e dunque le risorse pubblicitarie non si toccano. «Qualcuno ha promesso, in caso di cambio di governo, l'abolizione della legge Gasparri e del Sic?», butta lì Serventi Longhi. A dire il vero, qualche giorno fa dalle colonne del Sole 24 Ore il deputato ds Franco Debenedetti ha detto che il «Sic» non è poi così male, che tutto sommato quel tetto comincia a funzionare. «Funziona tanto che l'Autorità per le comunicazioni ancora non è riuscita a dire a quanto ammonta quel mercato», dice Giulietti: da 20 a 32 miliardi di euro, si diceva durante la discussione parlamentare sulla legge. E si dice ancora, dato che con precisione quanto valga questo famoso Sic - e dunque dove finisca la concorrenza e cominci il monopolio - non l'ha detto ancora nessuno.
Con il neologismo del «suopolio» (il duopolio Rai-Mediaset, tutto suo, ovvero di Berlusconi) battezzammo il sistema previsto dalla legge Gasparri, tecnicamente chimato «Sic», che sta per: sistema integrato delle comunicazioni. Se prima nessuno poteva detenere più del 30% delle risorse della sola tv (e già quel tetto veniva sforato), adesso il limite è più basso, ossia al 20%, ma al denominatore c'è il Sic, ossia un numero enorme e ancora non quantificato: l'intera gamma della comunicazione, dalle telepromozioni alle affissioni.
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