Chi ha paura degli spiriti liberi
Hengameh Shahidi Parla la giornalista che ha raccontato agli iraniani la guerra in Iraq. «Le cose peggiorano, nessuno difende i giornalisti arrestati»
Il locale non è grande ma è luminoso e accogliente, gusto moderno, una grande vetrata rialzata sulla strada, manifesti di film e mostre alle pareti. Ai tavoli giovani donne e uomini parlano con animazione tra cappuccini, tè profumati, insalate e crepes. Incontro qui Hengameh Shahidi, presentata da amici come «l'unica giornalista iraniana che abbia coperto le guerre in Afghanistan e in Iraq». Lei è giovanissima, porta il chador ma lo tiene un po' indietro, una bella fascia turchese incornicia la fronte, trucco raffinato, abiti di semplice eleganza: difficile immaginare un chador tanto vezzoso. Ha lavorato un po' per la tv di stato, un po' per vari giornali. «Volevo andare in Iraq durante l'invasione - racconta - ma nessuno si è assunto la responsabilità né le spese. Tutti però dicevano "se mandi i pezzi li pubblichiamo". E così sono andata senza visto, per una via di contrabbandieri attraverso il Kurdistan e sono arrivata a Baghdad pochi giorni dopo la caduta». I reportage dalla guerra le sono valsi un premio e l'invito a diventare consigliera dell'organizzazione ufficiale per la gioventù (sarà per questo che porta il chador?). Faccio appena a tempo a chiedermi se sto parlando con una giornalista «nel sistema» quando lei dice che «la situazione sta peggiorando, per chi scrive». Lei stessa, spiega, ha smesso di tenere il web-log che aveva cominciato dopo l'esperienza in Afghanistan: «È un momento brutto, molti si autocensurano per evitare problemi. Quando i giornalisti finiscono in galera nessuno li difende. Molti ormai hanno lasciato la penna». È una scelta di disoccupazione, però. «C'è chi continua, per vivere. Li chiamiamo i "giornalisti d'agenzia": ti limiti a copiare le notizie ufficiali, così non corri rischi. Poi c'è chi è andato all'estero: li guardano come traditori, ma se avessero avuto spazio qui non sarebbero partiti». Le cose peggiorano, insiste: «Non era mai successo che arrestassero delle donne». Si riferisce alle due giornaliste internet arrestate in ottobre, insieme a una ventina di altri giornalisti e bloggers (una è stata rilasciata giorni fa). Del resto, non era mai successo che non un solo giornale esplicitamente riformista fosse in edicola. «Anche i giornalisti "d'agenzia" ormai sono in difficoltà. Potrebbero colpire chiunque». Se continua così, dice Hengameh Shahidi, «anche chi è a favore del sistema diventerà contro, passerà a un giornalismo clandestino. Ovunque la libera espressione viene repressa, l'opposizione diventa underground». Ecco la risposta al mio interrogativo: lei è tra le persone che in Iran si definiscono «dentro il sistema» nato dalla rivoluzione islamica, come del resto gran parte del movimento riformista, che ha cercato di cambiare i rapporti di potere «dall'interno»; ma è anche una delle tante persone che ha visto fallire le riforme, si chiede che fare.
«Faccio parte della Commissione per i diritti della donna, e neppure noi siamo riusciti ad avere spiegazioni sugli arresti. Non resta che chiedere alle istituzioni internazionali per i diritti umani. Se la pressione esterna può servire? Certo. L'Unione europea, Reporters sans frontieres... La pressione serve. Non contro il governo, che non c'entra con gli arresti: è il sistema giudiziario il problema».
Shahidi è convinta, come molti, che il fiato sul collo dei giornalisti sia legato alle elezioni presidenziali di giugno: «Se la prendono con i giovani perché temono il loro spirito libero. Reprimono attivisti, intellettuali, organizzazioni non governative. Si prepara un giro di vite più forte: i conservatori non vogliono che nel 2005 nasca un altro Khatami, un candidato scelto dai giovani».
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