Codice di guerra sulla pace
La riforma delle leggi penali e della giurisdizione militare, approvata in senato il 18 novembre e ben avviata alla camera, ha lo scopo di ridurre la differenza tra il personale militare e gli operatori umanitari, i quali non saranno più considerati parti neutrali nel conflitto, ma addirittura membri delle forze belligeranti, pena «la reclusione non inferiore a 5 anni» per «somministrazione al nemico di provvigioni» (l'articolo è il 248 del codice penale militare riformato). Della posizione degli operatori umanitari in zone di guerra alla luce di questo disegno di legge delega per la revisione delle leggi penali militari parliamo con Claudio De Fiores, docente di diritto costituzionale alla seconda università di Napoli.Rispetto al provvedimento sui giornalisti, in cui è evidente la volontà di controllarne l'attività informativa, questo mi sembra un aspetto controverso. L'applicazione dell'articolo 278, quello che punisce la «somministrazione al nemico di provvigioni» da parte delle Ong, non è automatica perché bisognerebbe distinguere innanzitutto tra il legittimo soccorso alle popolazioni civili prestato dagli operatori umanitari dalla loro volontà di sostenere soggetti belligeranti. Ammesso che quest'ultimo caso si ponga, nelle nuove zone di guerra è spesso molto difficile provare la differenza tra un civile e un belligerante. Se tale normativa fosse realmente applicata, l'ordinamento militare si troverebbe nelle condizioni di esercitare un pervasivo potere di controllo sulle attività dei civili, ma di riflesso anche su quelle dei movimenti pacifisti in Italia.
Addirittura?
Questo potrebbe essere uno dei risultati dell'incauta interpretazione dell'articolo 103 che espande la sfera di competenza della giurisdizione dei tribunali militari sui non militari. Il dissenso sarebbe soffocato dall'insidioso e progressivo assorbimento dello stato di pace nello stato di guerra. Questa riforma è un contributo normativo alla teoria della guerra permanente. Nel nuovo ordine globale l'aspetto normativo del diritto, come recentemente ha detto Agamben, può essere obliterato e contraddetto impunemente da una decisione arbitraria che ignora, all'esterno, il diritto internazionale e produce, all'interno, uno stato d'eccezione permanente, pretendendo di applicare ancora il diritto.
Quali effetti avrebbe sui militari?
Nel caso di un delitto commesso da un militare nel corso di una missione all'estero, una drastica riduzione del controllo di legalità della giurisdizione ordinaria a vantaggio di quella militare. Questo vuol dire che verrebbe giudicato dal tribunale militare e non da quello ordinario.
C'è allora bisogno di un'altra riforma?
Senz'altro. Bisogna recuperare un'altra idea di codice militare, incardinato sui principi costituzionali, che riconosca la centralità del parlamento. In quest'ultimo decennio, anche durante i governi di centro-sinistra, la prassi parlamentare utilizzata per l'invio di missioni militari all'estero ha dimostrato come il nostro ordinamento sia giuridicamente sprovvisto di una normativa generale che disciplini le differenti tipologie di utilizzo delle forze armate fuori dai confini nazionali, lasciando ampia discrezionalità al governo. Una lacuna che ha contribuito ad aggravare la condizione di marginalizzazione politica delle Camere che sono state coinvolte solo nella fase successiva a quella dell'avvio delle operazioni militari.
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