reportage
Viaggio nei campi profughi di Puglia e Calabria
14 luglio 2003
Elisabetta Della Corte
Fonte: http://www.carta.org
Nelle ultime settimane nel mare nostrum o poco più in là hanno
trovato la morte centinaia di profughi. Le carrette del mare sulle
quali viaggiavano non hanno retto, i soccorsi sono arrivati troppo
tardi, il mare ha inghiottito il ferro e i corpi; alcuni cadaveri
sono stati recuperati, i sopravissuti , invece, sono approdati a
Lampedusa. Qui i profughi vengono chiusi in un campo
d'identificazione, il tempo necessario per fare una prima cernita
grossolana tra richiedenti asilo ed immigrati economici, e da lì
smistarli verso la Calabria e la Puglia in campi di detenzione
temporanea; che si tratti di un CPT [campi di permanenza temporanea]
per immigrati da rimpatriare, o un campo di prima accoglienza per
richiedenti asilo la sostanza non cambia: chi scampa alle traversie
del viaggio guadagna un trattamento di prim'ordine nel sistema
d'accoglienza italiano che è fatto di campi recintati, controlli di
polizia, di condizioni igieniche inadeguate, di scarsa informazione
sui diritti. Per capire quali sono le tappe della via crucis dei
profughi dopo Lampedusa bisogna entrare nei campi pugliesi o
calabresi.
In questi giorni sono circa settecento le persone rinchiuse nella roulottopoli di Bari-Palese, una pista d'atterraggio dell'aeronautica militare trasformata in campo profughi. Le condizioni di vita sono ai limiti della decenza, ma il campo di Lampedusa è stracolmo ed è necessario "travasare" profughi là dove si può. A Bari-Palese ad esempio. Il campo è circondato da una doppia recinzione, reti di ferro e filo spinato. All'interno, sulla pista d'asfalto centinaia di roulotte disposte una accanto all'altra.
A Bari-Palese così come in altri luoghi di detenzione come il campo S. Anna di Isola Capo Rizzuto, dove negli ultimi giorni sono riusciti a stipare ben 1500 persone, gli "ospiti" fanno esperienza di quella che l'Italia chiama prima accoglienza per richiedenti asilo. In realtà a ben guardare, anche se le etichette, i modi per nominare i centri sono diversi a seconda delle finalità in tutti i casi l'esperienza della carcerazione è assicurata. A chi sta dentro non è data la possibilità di uscire, il pericolo di fuga è scongiurato con recinzioni coronate da filo spinato, video sorveglianza e forze di polizia. Per chi sta fuori l'accesso deve essere autorizzato dalla Prefettura, ma per esperienza fatta è più difficile entrare in un campo come giornalista, o ricercatore universitario che in un carcere.
Non bisogna cercare lontano per conoscere i motivi dell'inaccessibilità, basta visitare uno di questi campi per capire che le condizioni di vita sono indecenti, per cui "occhio che non vede cuore non duole". Gli estranei, mi veniva spiegato da alcuni operatori del campo, sono sgraditi perché anche inconsapevolmente possono diventare fautori di disordine fornendo agli "internati" informazioni che devono assolutamente essere evitate. Come potrebbero reagire centinaia di persone all'idea di dover passare un'intera estate all'interno di quella pista asfaltata che nelle ore in cui il sole picchia si arroventa, dove le roulotte si surriscaldano tanto che ad entrarci manca l'aria? In quel campo si cerca l'ombra così come chi si perde nel deserto cerca un'oasi per l'acqua.
Nelle prime ore del pomeriggio al centro del campo, su un lato del tendone verde, che dovrebbe servire come spazio mensa, c'è una lunga fila di persone; sono lì seduti l'uno accanto all'altro per "godere" di una linea d'ombra che è larga un metro e mezzo e corre lungo il lato del tendone. Poco distante sotto una tettoia ci sono degli uomini sdraiati per terra con lo sguardo "smarrito" dal caldo e dalla stanchezza. Ci vedono passare e chiedono se siamo giornalisti, in inglese dicono di voler denunciare le condizioni di vita all'interno del campo: "siamo qui da più di una settimana, non abbiamo avuto la possibilità di metterci in contatto telefonico con i parenti, non abbiamo sigarette, non sappiamo quanto tempo dovremo rimanere qui, non si può vivere in questo modo".
Per non inasprire gli animi, gli operatori evitano di informarli sui tempi di reclusione e si passa avanti a bocca cucita. Dai bagni disposti sul lato del campo un via vai di uomini avvolti nelle lenzuola bianche usate come parei, si sciacquano per cercare refrigerio. Le roulotte sono quasi tutte vuote, solo in una troviamo una donna incinta con il marito, entrambi distesi sui piccoli letti con i volti madidi di sudore. Da lontano compaiono alcune donne circondate da bambine, si aggiungono alla fila per ricevere le bottiglie d'acqua fresca distribuite dalle associazioni umanitarie. Nel campo ci sono somali, kurdi, palestinesi, profughi del Kashmir e del Sudan. Alcuni di loro non conoscendo la differenza tra la figura giuridica del richiedente asilo e dell'immigrato economico dichiarano con orgoglio di non volere niente dall'Italia, l'unica richiesta è quella di uscire dal campo. Non è ben chiaro per loro, e come potrebbe mai esserlo in assenza di informazioni, che questa differenza può determinare l'espulsione dal suolo italiano o l'ingresso con un permesso di soggiorno temporaneo.
E' un girone dell'inferno dantesco il campo di Bari-Palese, un girone dell'inferno in cui finisce gente in fuga senza colpa. A Bari Palese così come a Borgo Mezzanone, o ad Isola Capo Rizzuto in Calabria, al di là dei pochi che riescono a scappare, le persone vengono rinchiuse per mesi nell'attesa che la macchina burocratica produca un permesso di soggiorno temporaneo, un foglio di via, un decreto d'espulsione e cartoscelle varie. Nei mesi della detenzione capita a volte che in modo disumano e vigliacco gli immigrati siano costretti a subire pestaggi dalle forze di polizia. E' accaduto al CPT Regina Pacis dove la magistratura sta indagando.
Per molti motivi chi si illude di poter umanizzare questi campi si sbaglia. La gestione dei campi costa centinaia di milioni, soldi che potrebbero essere spesi per allestire un sistema di accoglienza diverso, che non riduca la questione dei profughi ad un problema di ordine pubblico. Esempi migliori di accoglienza sono stati dati dai cittadini dei comuni calabresi e pugliesi che hanno aperto le loro case, messo a disposizione coperte e cibo. Do you remember Badolato? Parliamo di soli cinque anni fa. Ma anche oggi, chi ha visto il mercato multietnico di Lecce alle spalle del castello, chi ha ascoltato i musicisti sloveni e albanesi che suonano con il gruppo salentino Opa Cupa capisce che per fortuna ci sono altri mondi e che quei campi andrebbero svuotati.
In questi giorni sono circa settecento le persone rinchiuse nella roulottopoli di Bari-Palese, una pista d'atterraggio dell'aeronautica militare trasformata in campo profughi. Le condizioni di vita sono ai limiti della decenza, ma il campo di Lampedusa è stracolmo ed è necessario "travasare" profughi là dove si può. A Bari-Palese ad esempio. Il campo è circondato da una doppia recinzione, reti di ferro e filo spinato. All'interno, sulla pista d'asfalto centinaia di roulotte disposte una accanto all'altra.
A Bari-Palese così come in altri luoghi di detenzione come il campo S. Anna di Isola Capo Rizzuto, dove negli ultimi giorni sono riusciti a stipare ben 1500 persone, gli "ospiti" fanno esperienza di quella che l'Italia chiama prima accoglienza per richiedenti asilo. In realtà a ben guardare, anche se le etichette, i modi per nominare i centri sono diversi a seconda delle finalità in tutti i casi l'esperienza della carcerazione è assicurata. A chi sta dentro non è data la possibilità di uscire, il pericolo di fuga è scongiurato con recinzioni coronate da filo spinato, video sorveglianza e forze di polizia. Per chi sta fuori l'accesso deve essere autorizzato dalla Prefettura, ma per esperienza fatta è più difficile entrare in un campo come giornalista, o ricercatore universitario che in un carcere.
Non bisogna cercare lontano per conoscere i motivi dell'inaccessibilità, basta visitare uno di questi campi per capire che le condizioni di vita sono indecenti, per cui "occhio che non vede cuore non duole". Gli estranei, mi veniva spiegato da alcuni operatori del campo, sono sgraditi perché anche inconsapevolmente possono diventare fautori di disordine fornendo agli "internati" informazioni che devono assolutamente essere evitate. Come potrebbero reagire centinaia di persone all'idea di dover passare un'intera estate all'interno di quella pista asfaltata che nelle ore in cui il sole picchia si arroventa, dove le roulotte si surriscaldano tanto che ad entrarci manca l'aria? In quel campo si cerca l'ombra così come chi si perde nel deserto cerca un'oasi per l'acqua.
Nelle prime ore del pomeriggio al centro del campo, su un lato del tendone verde, che dovrebbe servire come spazio mensa, c'è una lunga fila di persone; sono lì seduti l'uno accanto all'altro per "godere" di una linea d'ombra che è larga un metro e mezzo e corre lungo il lato del tendone. Poco distante sotto una tettoia ci sono degli uomini sdraiati per terra con lo sguardo "smarrito" dal caldo e dalla stanchezza. Ci vedono passare e chiedono se siamo giornalisti, in inglese dicono di voler denunciare le condizioni di vita all'interno del campo: "siamo qui da più di una settimana, non abbiamo avuto la possibilità di metterci in contatto telefonico con i parenti, non abbiamo sigarette, non sappiamo quanto tempo dovremo rimanere qui, non si può vivere in questo modo".
Per non inasprire gli animi, gli operatori evitano di informarli sui tempi di reclusione e si passa avanti a bocca cucita. Dai bagni disposti sul lato del campo un via vai di uomini avvolti nelle lenzuola bianche usate come parei, si sciacquano per cercare refrigerio. Le roulotte sono quasi tutte vuote, solo in una troviamo una donna incinta con il marito, entrambi distesi sui piccoli letti con i volti madidi di sudore. Da lontano compaiono alcune donne circondate da bambine, si aggiungono alla fila per ricevere le bottiglie d'acqua fresca distribuite dalle associazioni umanitarie. Nel campo ci sono somali, kurdi, palestinesi, profughi del Kashmir e del Sudan. Alcuni di loro non conoscendo la differenza tra la figura giuridica del richiedente asilo e dell'immigrato economico dichiarano con orgoglio di non volere niente dall'Italia, l'unica richiesta è quella di uscire dal campo. Non è ben chiaro per loro, e come potrebbe mai esserlo in assenza di informazioni, che questa differenza può determinare l'espulsione dal suolo italiano o l'ingresso con un permesso di soggiorno temporaneo.
E' un girone dell'inferno dantesco il campo di Bari-Palese, un girone dell'inferno in cui finisce gente in fuga senza colpa. A Bari Palese così come a Borgo Mezzanone, o ad Isola Capo Rizzuto in Calabria, al di là dei pochi che riescono a scappare, le persone vengono rinchiuse per mesi nell'attesa che la macchina burocratica produca un permesso di soggiorno temporaneo, un foglio di via, un decreto d'espulsione e cartoscelle varie. Nei mesi della detenzione capita a volte che in modo disumano e vigliacco gli immigrati siano costretti a subire pestaggi dalle forze di polizia. E' accaduto al CPT Regina Pacis dove la magistratura sta indagando.
Per molti motivi chi si illude di poter umanizzare questi campi si sbaglia. La gestione dei campi costa centinaia di milioni, soldi che potrebbero essere spesi per allestire un sistema di accoglienza diverso, che non riduca la questione dei profughi ad un problema di ordine pubblico. Esempi migliori di accoglienza sono stati dati dai cittadini dei comuni calabresi e pugliesi che hanno aperto le loro case, messo a disposizione coperte e cibo. Do you remember Badolato? Parliamo di soli cinque anni fa. Ma anche oggi, chi ha visto il mercato multietnico di Lecce alle spalle del castello, chi ha ascoltato i musicisti sloveni e albanesi che suonano con il gruppo salentino Opa Cupa capisce che per fortuna ci sono altri mondi e che quei campi andrebbero svuotati.
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