Zitti o botte
(In: Dossier "Regina Pacis" - Lecce Social Forum) - 12 giugno 2003
Un inferno, così lo descrivono un gruppo di giovani musulmani che ci sono finiti dentro per sessanta giorni. Un luogo dove vengono umiliate e violentate anche le diverse identità religiose. Una Guantanamo in versione tricolore dove non esistono diritti umani né legge, se non quella del più forte. Dove gli aguzzini, sempre secondo chi ha trovato il coraggio di denunciarli, sarebbero un sacerdote, i suoi più stretti collaboratori e alcuni carabinieri del Battaglione Puglia. Stiamo parlando del “Centro di permanenza temporanea Regina pacis” di San Foca, in provincia di Lecce, gestito dalla curia salentina e diretto da don Cesare Lodeserto, segretario dell’arcivescovo leccese Cosmo Ruppi potente presidente della Conferenza episcopale italiana di Puglia.
Avvenimenti ha già parzialmente raccontato la realtà del Regina pacis in due precedenti occasioni (numeri 46 e 49, ndr). Ma la gravità delle accuse che indicano il presunto coinvolgimento (diretto e indiretto) di pubblici ufficiali e di apparati dello Stato, la drammaticità e la precisione delle testimonianze raccolte e la portata politica della vicenda che tira in ballo le responsabilità della Bossi-Fini e la degenerazione dei “Centri di permanenza temporanea” in luoghi di violenza e totale sospensione dei diritti, ci spingono ad approfondire un’inchiesta che a sentire le denunce degli interessati sembra un vero e proprio viaggio nella galleria degli orrori. Anche perché il Cpt di San Foca è il più vecchio e il più grande di tutti gli altri tredici campi di concentramento per migranti irregolari che operano nel nostro Paese.
Un luogo considerato “centro modello”, dove negli ultimi sei anni sono passate tutte le più alte cariche dello Stato: dal presidente della Repubblica Ciampi a vecchi premier come Prodi e D’Alema, da attuali ministri a nuovi sottosegretari ( con in testa Alfredo Mantovano che la Bossi-Fini ha contribuito a scriverla). E poi parlamentari di ogni colore e funzionari dell’Unione europea, alti prelati, segretari di partito, televisioni di mezzo mondo e così via. Ma facciamo un passo indietro, nell’isola di Lampedusa, il sedici ottobre scorso.
Dopo circa 36 ore di navigazione a bordo dell’ennesima carretta del mare, 148 persone vengono tratte in salvo da un sicuro naufragio dalla nostra Guardia costiera. Sono curdi iracheni, sudanesi, cingalesi, marocchini, tunisini che hanno pagato una media di mille dollari a testa solo per potersi imbarcare su quel piccolo e malridotto peschereccio per raggiungere le coste italiane. Tutti vengono internati per otto giorni nel Cpt di Lampedusa e trasportati successivamente in quello di Agrigento che però in quelle settimane è stracolmo. Passano un giorno su una corriera delle forze dell’ordine e poi vengono smistati in altri centri. In 42 arrivano a San Foca. Ed è qui che inizia lo scioccante racconto di Montassar Souiden, 31 anni, musulmano praticante, uno dei più anziani del gruppo:“ Non ci hanno mostrato alcun regolamento, ci hanno solo detto che avremmo dovuto stare lì dentro due mesi e che poi saremmo stati rimpatriati.
Abbiamo visto da subito una prepotenza tremenda, una mancanza totale di democrazia. Ho visto persone che venivano schiaffeggiate dal direttore don Cesare. Ad altre prendevano la testa e gliela schiacciavano contro il muro in presenza di tutti. Io ero terrorizzato, tutti eravamo terrorizzati”. A dire di Montassar, che prima di fuggire dal suo Paese faceva il barbiere, questo è stato il benvenuto riservato al gruppo dei nuovi arrivati nel centro salentino. E sul perché di un simile trattamento, quest’uomo che ha ancora visibili sul volto e su una gamba le cicatrici di ciò che gli accadrà in seguito, ha una sua spiegazione:“In questo modo davano l’esempio di ciò che succedeva a chi tentava di scappare, a chi alzava la voce o a chi diceva cose che a loro non piacevano. Bisognava tenere la bocca chiusa e obbedire senza discutere”. La denuncia di Montassar trova in altri migranti una inequivocabile conferma.
A parlare in questo caso è Mohammed Ben Hssin, 22 anni:“Quando era ora di andare a mangiare dovevamo metterci tutti in fila fuori dalla sala mensa. Don Cesare passava e ci guardava tutti, uno a uno. Se soltanto vedeva qualcuno che rispondeva a quello sguardo per più di qualche secondo, lo tirava fuori dalla fila e gli diceva che quel giorno non avrebbe più mangiato perché lo aveva guardato male. Se poi quel qualcuno cercava di chiedergli spiegazioni, lui iniziava a prenderlo a schiaffi davanti a tutti e lo rimandava nelle camerate”. Un’altra testimonianza sul clima di terrore che il prete leccese avrebbe imposto all’interno del Regina pacis e sulle pene corporali inflitte a chi non rispettava la sua legge, lo fornisce Mohammed Abd Hadi, 24 anni:“E’ successo a un mio amico colpevole di aver detto grazie a una ragazza che lavorava nella sala mensa. Il direttore lo ha portato dentro un ufficio e dopo cinque minuti lo ha fatto uscire in lacrime con la faccia rossa di botte”. Fin qui normale amministrazione, si potrebbe dire. Eppure qualcosa in quello che sembrerebbe un collaudato e impunito meccanismo di gestione del Cpt si inceppa.
Succede il 16 novembre scorso, quando il parlamentare di Rifondazione Nichi Vendola insieme ad una delegazione del Lecce Social forum visitano il centro. Lodeserto non c’è e delega l’accoglienza dei ficcanaso a Donato Paladino, ex capitano della Guardia di Finanza, pregiudicato, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver intascato tangenti miliardarie in provincia di Napoli e oggi vicedirettore del Cpt, nominato dal prefetto di Lecce. La situazione sfugge di mano a Paladino e ai suoi collaboratori. Vendola raccoglie numerose testimonianze dei migranti reclusi, ma nel caos generale si evidenziano solo le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a sopravvivere uomini e donne insieme ad alcune mancanze, sia pur gravi, ma che soprattutto riguardano l’organizzazione del centro.
Qualcuno a mezzabocca parla anche di violenze, di botte. Vendola e colleghi registrano senza però dar troppo peso a voci che, anche grazie all’incomunicabilità causata dalla mancanza di intrepreti, si perdono tra le tante. E siamo al 30 novembre, quando un’altra delegazione guidata questa volta dall’onorevole Mauro Bulgarelli dei Verdi torna al Regina pacis, nell’ambito della giornata nazionale per la chiusura dei Cpt indetta dal Tavolo migranti del movimento new global. La visita, forte degli elementi raccolti precedentemente, è più approfondita. C’è poi un’altra novità: numerosi extracomunitari mostrano segni evidenti di gravi violenze: punti di sutura al volto, fratture, ematomi, contusioni varie.
Tutti indicano nei gestori del centro, in alcuni carabinieri e nel prete direttore del Cpt i responsabili. Ma nessuno, o quasi, ci crede davvero. A seguire partiranno comunque alcune interrogazioni parlamentari, “bruciate” però da quella “urgente” del deputato leccese di An Ugo Lisi che si affretta a farsi rispondere in aula dal sottosegretario agli Interni Mantovano, leccese pure lui. La sintesi è per certi versi inquietante: dentro al Regina Pacis è, ed è sempre stato, tutto in ordine. Nessuna procedura irregolare, niente pressioni psicologiche né tantomento violenze o sevizie di alcun genere.
Sembra la solita favoletta del carcerato che cade dalle scale: tutto viene ricondotto ad un tentativo di fuga durante il quale “i clandestini” si sarebbero “fatti male da soli”. La fuga in realtà avvenne il 22 novembre, del resto in quelle condizioni nessuna persona normale, per di più senza aver commesso alcun reato se non quello di scappare dalla povertà o dalla guerra, avrebbe deciso di rimanere là dentro a subire offese e angherie di ogni genere. Ci provarono in 40 quella notte e solo 23 migranti riuscirono per poche ore ad allontanarsi, mentre gli altri non ce la fecero a metter piede fuori dai cancelli e dal filo spinato del Cpt.
Tra loro c’era anche Montassar, che solo per aver tentato di scappare denuncia un pestaggio degno di un vecchio western all’italiana:“Il direttore mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto più volte la testa contro il muro. Mentre mi picchiava continuava ad insultarmi. Ho avuto paura che mi ammazzasse”. Di botte Montassar ne deve aver prese parecchie se per lui si sono aperte le porte dell’ospedale leccese Vito Fazzi dal quale però durante la notte è riuscito a fuggire: “Sapevo che il giorno dopo sarebbero tornati a prendermi e mi avrebbero riportato al Regina pacis. Al medico di turno avevo più volte cercato di spiegare che i tagli in faccia e le tumefazioni alla gamba me le avevano procurate loro, di proposito, e la mia paura era che tornando in quell’inferno avrebbero finito di massacrarmi”.
Ma la fuga dura poco. E da Bari Montassar viene riportato a San Foca dove come previsto, sempre secondo il suo racconto, gli concedono il bis. Lo stesso trattamento viene riservato anche ad altri suoi compagni di sventura. Con qualche variante, come spiegano Anis Loro e Mohammed Ben Hssin:“Ci hanno ammanettati e hanno continuato a picchiarci con i manganelli sulle gambe. Ad alcuni di noi hanno fatto mangiare pezzi di maiale crudo preso dalle cucine che sono a due passi dal corridoio degli uffici. Gridavano: adesso è finito il Ramadan, mangiate bastardi! E ancora ci riempivano di botte.
Poi ci hanno lasciati in mutande, tutta la notte, negli stessi luoghi doveci avevano picchiato. Come animali.”. Per caso Montassar riesce nei giorni seguenti a bloccare un avvocato di passaggio per sbrigare alcune pratiche burocratiche nel centro e lo implora di aiutarlo. Così faranno in tutto altri 16 migranti.E così i legali del foro salentino Scardia e Petrelli diventano i loro difensori ufficiali. In quelle ore il Lecce Social forum consegna un esposto dettagliato alla procura leccese. E il magistrato Carolina Elia apre un’inchiesta: circa quindici persone, tra cui il Lodeserto, un gruppetto di suoi attendenti ed alcuni militari dell’Arma vengono riconosciuti dai migranti come esecutori delle sevizie o soltanto come spettatori compiacenti.
La giustizia quindi inizia il suo corso. Tutto, mentre la stessa procura per mano del giudice Imerio Tramis sta indagando sui conti del Cpt e pochi mesi fa ha inviato due avvisi di garanzia per peculato al padre padrone del Regina pacis e al suo arcivescovo Ruppi. Al centro della vicenda Renato Lodeserto, ex maresciallo della Finanza che ha patteggiato due anni per corruzione, nonché zio di don Cesare e “volontario contabile” dentro al Regina Pacis.
Sono molti gli interrogativi che nascono spontaneamente, soprattutto dopo le denunce dei migranti magrebini che disegnano una rete di connivenze e omertà degne di una agguerrita e pericolosa associazione a delinquere. Primo fra tutti quello sui controlli. Il sottosegretario Mantovano alla Camera ha dichiarato che l’ultimo fu fatto il 15 ottobre scorso. A questo punto c’è da chiedersi in che modo. Forse con la stessa perizia con cui, per esempio, fu firmato dalla questura di Lecce e saldato dalla prefettura il pagamento per la retta di oltre 300 “ospiti” presenti nel Cpt in un giorno mai esistito, il 29 febbraio del 1999? Ma intanto dentro al Regina pacis continua il solito andirivieni come se nulla fosse. Entrano nuovi clandestini, altri vengono espulsi. Passa il Tg2 per un servizio sull’opera caritatevole del “centro di accoglienza”, come ancora in tanti si ostinano a definirlo. E allora avanti, fratelli. Sotto a chi tocca.
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