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"Il linguaggio giornalistico nel gioco dello spiegare e del comprendere"

Intervista a Stefano Mencherini, autore del film Mare Nostrum
7 agosto 2005
Andrea Gagliarducci (Corso di Scienze della Comunicazione LUMSA, Roma)

Stefano Mencherini è giornalista e autore televisivo.
Ha firmato diversi programmi
di informazione sociale per Rai Due ed è stato inviato
speciale su Rai Uno e Rai
Tre. Con "Avvenimenti" ha firmato diversi reportage e
inchieste, tra le quali quella
sul Regina Pacis, che ha portato poi alla creazione di
"Mare Nostrum". Collabora
attualmente con alcuni periodici tra cui "Specchio" e
"Max".

Come nasce un'inchiesta giornalistica? Perché usare un
film per raccontarla?

L'inchiesta nel mio lavoro nasce dall'esigenza umana e
professionale, ma anche
dall'urgenza sociale, di raccontare (e denunciare) una
realtà singola o collettiva
che per dolo o dimenticanza nessun mezzo di
comunicazione e informazione ha voluto
affrontare (vedi Socialmente pericolosi, RaiTre, 2002,
sulla vita nel manicomio
criminale di Aversa). Oppure nel tentare di dare a
grandi questioni una lettura
alternativa a quella imperante (vedi Mare nostrum,
sulle politiche
dell'immigrazione e Non è una morte bianca, RaiTre,
2000, sugli incidenti del
lavoro). Un' inchiesta è comunque sempre qualcosa di
scomodo per qualcuno,
cittadino, politico o istituzione che sia, anche per
questo se ne vedono così poche
in giro (e quelle poche creano qualche problemino
soprattutto a chi le fa). Deve
trattarsi di un lavoro lungo, approfondito, quasi
sempre non agevole, che oltre alla
memoria (quindi agli antefatti più o meno recenti)
svela con precisione
mistificazioni, omissioni, responsabilità specifiche.

La formula del film-inchiesta viene per me dalla
consapevolezza che le immagini,
unite ad un racconto "in presa diretta", hanno più
opportunità di coinvolgere, far
riflettere o indignare chi le guarda, e sono più
efficaci nei confronti di chi deve
prendere atto della realtà, vergognarsi almeno un po',
e magari prendere i
provvedimenti del caso. Inoltre in periodi come questo
di monopolio informativo
(principalmente, ma non solo televisivo) in cui la
censura preventiva si è
riaffacciata con arroganza e impedisce di approfondire
temi sociali centrali nella
vita e nel futuro dei cittadini, di tutti i cittadini,
il film-inchiesta può aprire
qualche porta in più: un cinema, una piazza, un'aula
scolastica, un'assemblea di
fabbrica, una festa, un dopolavoro, un circolo
culturale, un oratorio.

Qual è la difficoltà maggiore che si trova nel
trasportare un'inchiesta su immagini?

Produrre la giusta documentazione. Con la penna posso
tradurre un'emozione,
descrivere una realtà, posso virgolettare una
denuncia. Con la telecamera devo
riuscire a cogliere tutto nel momento stesso in cui
avviene. Non posso sbagliare.
Le questioni stilistiche e tecniche per me vengono
quasi sempre dopo. Nel caso di
Mare nostrum che è un lavoro autoprodotto, c'è stato
poi anche il problema di
individuare, reperire e far svincolare il materiale
"di repertorio" utile ai fini
dell'inchiesta.

Perché nel girare il film ha preferito una narrazione
polifonica, che mettesse in campo le storie, in
maniera
quasi sincopata, e non ha invece preferito utilizzare
il solito
servizio tipo Tg con voce fuori campo?

Perché quella dei tigì non è narrazione, ma un
crogiolo di tagli, stand up,
speakeraggi in cui la sintesi (e non solo) abbruttisce
e spesso impedisce la
comprensione della realtà. Poi credo che esistano
delle priorità: una su tutte nel
mio lavoro è dare spazio a chi solitamente, per mille
ragioni, non ha voce. A questo
si aggiunge che la forza e il valore di una
testimonianza diretta non sono
minimamente paragonabili a racconti o dichiarazioni in
terza persona.

Un film è un buon modo di rappresentare la realtà? Può
essere il modo più oggettivo
di farlo?

Al di là di ciò che ci piace di più o che sappiamo
fare meglio, qualsiasi modo può
esser buono. Ma per rappresentare la realtà bisogna
fare di tutto per esserle fedeli
fino in fondo, altrimenti mettiamo in scena soltanto
noi stessi. Quasi sempre
comunque finiamo per giocare con gli strumenti che
mercato e situazioni contingenti
ci mettono a disposizione: se riusciamo a utilizzare
un buon linguaggio che dà anche
maggiori garanzie di comprensione e visibilità al
nostro lavoro, forse facciamo
almeno la metà del nostro dovere.

Viviamo anni di sistematica falsificazione mediatica
della realtà: dai reality ai
telegiornali, dai talk show alle tribune politiche. Ci
sono giornali che sembrano
patiboli, programmi e tigì emanazione di un nuovo
Minculpop, giornalisti sempre più
lacchè o allevati nei college del "non vedo non sento
non parlo" in nome del "quieto
vivere". In questa situazione occorre resuscitare il
giornalismo, ridargli dignità
riportandolo per strada, affrancandolo il più
possibile dai padroni della politica e
del mercato, ri-avvicinandolo ai piccoli e grandi
temi della quotidianità delle
persone, al loro diritto ad essere informati così
come a denunciare abusi,
ingiustizie, omertà. Con una predilezione per i più
deboli. Chi trova "il modo più
oggettivo per farlo", scagli la prima pietra.

E' invalicabile il confine tra giornalismo e racconto?

Qual è la differenza tra un film e un film inchiesta?

Se il racconto, come lo definisci tu, ha dietro
un'impalcatura di lavoro tale da
attestarne la veridicità, non c'è alcuna differenza.
Quello secondo me è giornalismo
a tutti gli effetti. Anzi, per certi versi è anche
qualcosa di meglio, perché parla
una lingua più sincera di quella "ufficiale" zeppa di
banalità, luoghi comuni e
copia-incolla.

Cosa c'è di diverso tra un film e un film-inchiesta?
La fantasia, che nel secondo
caso non deve e non può intaccare i contenuti. Sei
meno libero, giustamente più
vincolato perché hai in mano, non solo
metaforicamente, la vita e la sorte delle
persone. Ma la creatività, i guizzi o le provocazioni
del regista o dell'autore
possono sbizzarrirsi in mille modi diversi: dalle
scelte di un'inquadratura a
quelle di montaggio e oltre. In Mare nostrum, per
esempio, con Lucia Poli e
Francesco Di Giacomo (voce storica del Banco del
Mutuo Soccorso) abbiamo riscritto
una versione fascista dell' inno di Mameli: cambiando
quattro o cinque parole, è
diventato un canto di riconoscimento del nostro
passato di emigranti e di
tolleranza verso gli immigrati di oggi.

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