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Malaysia, i migranti schiavi

30 novembre 2005
VITTORIO LONGHI
Fonte: www.ilmanifesto.it - 27 novembre 2005

Vanno a lavorare nelle fabbriche e nelle piantagioni della ricca Malaysia con la promessa di un posto stabile e ben pagato. Invece, quasi sempre trovano sfruttamento, violenza e ricatti di rimpatrio da padroni che, nell'inerzia del governo, li privano dei documenti e perciò della libertà di muoversi. Non chiedono aiuto alle autorità perché sanno che sarebbero arrestati e poi rispediti a casa. Le storie dei migranti del sudest asiatico più povero, quello indonesiano, filippino, indiano, birmano e cingalese, sono tristemente simili a quelle di gran parte dei lavoratori che si spostano dal sud al nord del pianeta alla ricerca di una vita decente. Nel caso della Malaysia, tuttavia, gli abusi sono tanti e tali da richiedere l'intervento dei governi e delle stesse Nazioni unite per una riforma delle attuali leggi del lavoro e dell'immigrazione. Questa settimana l'ambasciata indiana a Kuala Lumpur ha annunciato che intende chiedere formalmente al governo malese il controllo di ogni singolo lavoratore che entra nel paese, perché le denunce di violazione dei diritti civili sono in aumento, così come cresce il numero degli indiani detenuti solo perché senza documenti. «Registriamo sempre più casi di connazionali chiamati da agenzie di intermediazione e affittati a imprese che non pagano gli stipendi per mesi» ha spiegato il funzionario dell'ambasciata, Ramanan, al quotidiano Malay mail.

È emblematica la storia dei 150 operai indiani, nepalesi e vietnamiti di una fabbrica di mobili a Muar, nel Johor, che la settimana scorsa hanno deciso di scioperare per due giorni contro le aggressioni fisiche che alcuni di loro avevano subito dai capireparto. Gli operai sono stati licenziati in tronco e negli appartamenti dove dormivano, di proprietà dell'impresa, sono stati tagliati acqua, luce e riscaldamento ed è stata a staccata una parte del soffitto. Chandran Pandit, nepalese di 23 anni, racconta che molti di loro sono rimasti «senza cibo per giorni e alcuni si sono ammalati gravemente per il freddo, senza che l'azienda provvedesse in alcun modo alle cure necessarie».

Gli immigrati regolari in Malaysia sono circa 1,3 milioni, su una popolazione di 24 milioni ma, considerando quelli senza i permessi, la cifra raddoppia. Gran parte di questi sono arrivati nei primi anni Novanta, nel periodo di forte espansione industriale. Oggi però il primo ministro Badawi vuole ridurre il peso dell'industria, sempre più delocalizzata in Cina, e dice di premere per lo sviluppo dell'agricoltura e della pesca, anche se - è noto - Kuala Lumpur è soprattutto un grande centro finanziario, uno dei principali di tutta l'Asia. Pertanto, le centinaia di migliaia di lavoratori stranieri che molto hanno contribuito alla ricchezza del paese, sembrano non servire più e, descritti dai media come minaccia sociale, vanno solo allontanati. Il governo ha già compiuto diverse espulsioni di massa negli ultimi anni: 480 mila nel 1998 e 760 mila nel 2002. Neanche la tragedia dello Tsunami è servita ad ammorbidire le autorità che solo quest'anno hanno cacciato altre 400 mila persone, anche con l'utilizzo di corpi civili di volontari addestrati, armati e addirittura pagati per le retate. Human rights watch continua a denunciare la brutalità di queste violenze, sia private che pubbliche, e ha invitato più volte le agenzie dell'Onu a intervenire affinché le leggi sull'immigrazione siano modificate a tutela di lavoratori, rifugiati politici e vittime del traffico di esseri umani. «Dagli standard internazionali del lavoro sono del tutto esclusi anche i badanti - sottolineano gli attivisti di Hrw -, che rappresentano una quota considerevole degli stranieri in Malaysia». In questo sistema, infatti, per i migranti non sono previsti neanche il diritto elementare alle otto ore giornaliere e quello alla giornata di riposo settimanale. D'altra parte, per gli stessi malesi la legge rende quasi impossibile l'esistenza del sindacato, che conta a malapena un lavoratore su dieci ed è fortemente condizionato dal governo.

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